30 gennaio, 2012

Da un malinconico "Gioca jouer", a una Macchietta colta, per poi concludere col "Discobolo" di Mirone


Tre gli spettacoli del terzo appuntamento della rassegna di teatro - danza “Invito di Sosta” al Teatro Comunale di Castiglion Fiorentino, avvenuto sabato 28 gennaio.
Chiara Frigo e Marta Ciappina in
"Waiting for suite - hope"
Sul palco vediamo due donne, vestite con colori di tinte diverse tra loro. Udiamo in sottofondo una sorta di “Gioca jouer”, molto più melanconico di quello che conosciamo dalle discoteche, che chiede alle performer di fare certi movimenti. (“Chi ha tradito si metta a pancia in giù”, per esempio). Così inizia il primo pezzo “Waiting for Suite-hope”, di e con Chiara Frigo, accompagnata da Marta Ciappina. Dopo questo primo inizio di “gioca jouer”, la musica cambia e diventa movimentata, e le due performer ballano con forza e vitalità su queste note, con una vasta gamma di gestualità in cui dimostrano la loro abilità tecnica. Di conseguenza le due si separano in modo brusco e Chiara Frigo esce di scena, lasciando l'altra a un monologo danzato molto intenso. Le luci poi si spengono e ritroviamo la stessa danzatrice nuda, sdraiata a pancia in giù sul palcoscenico. Sta così per una manciata di lunghi secondi, finché Chiara Frigo non ritorna sulla scena, dove dispone accuratamente una serie bamboline fatte con la carta che si abbracciano tra loro.
Finale di "Waiting for suite - hope"
Non sono riuscito, a dire il vero, a entrare a fondo dentro questo spettacolo, dove non ho potuto capire il significato – se c’era – di quel ballo sfrenato avvenuto quasi all’inizio. Sicuramente si tratta in linea generale del problema della solitudine, della tristezza della solitudine, una solitudine che le protagoniste sono costrette a soffrire – visto che Marta Ciappina sarà costretta a rimanere stesa, da sola e nuda, sopra al palcoscenico e Chiara Frigo, non riuscendo a trovare un saldo legame con la sua compagna, sarà costretta a “costruirsi un mondo fittizio”, di pupazzi ritagliati con la carta. Si passa dai colori vivaci dell’inizio alla nudità delle donne – anche Chiara Frigo alla fine è seminuda. Si passa quindi dall'esternazione all'interiorizzazione. Molto bello il tableau con la nudità della ragazza stesa contornata da tutte le figure di carta appena esposte in scena. Indubbia, inoltre, la capacità tecnica delle protagoniste, abilissime nello sfruttare l’intero spazio scenico.

Cala la tela

Inizio di "Verdinastella"
Scrivo così perché è stato il turno di un breve intervallo di preparazione allo spettacolo successivo: “Verdinastella” di Oretta Bizzarri e con Mariella Celia, che, per l’occasione dell’attesa, hanno fatto preparare un video di presentazione del personaggio rappresentato, visibile nel fouie.
Rientriamo in sala: il sipario è chiuso e vengono proiettate delle immagini in bianco e nero senza sonoro. Vediamo Verdinastella nelle varie situazioni della vita: comiche e drammatiche. Verdinastella è un personaggio, al pari di Charlot. Un Personaggio che sa recitare, ballare e cantare – tutto rigorosamente nel delizioso dialetto napoletano.
Si apre il sipario e Verdinastella indossa un abito un po' trasandato con cui compie una veloce danza composta di passi concitati, per poi ritrovarla, in seguito, con un'elegante vestito. In questo momento interpreta la “sorella buona”, quella che subisce, quella dolce, quella dai tratti più femminili. Così la vediamo danzare sul palco con passi vivaci e raccontare storie nel dialetto del sud. Arriva poi il momento della “sorella cattiva”, vestita con un rosso sgargiante, una donna, questa, dai tratti più aggressivi e mascolini, che si arrabbia, che s’infuria: è una donna presa dall’ira, un’ira che si placa, quando Verdinastella indossa nel finale ancora i panni della ragazza “buona”. Ora è seduta, illuminata da una luce circolare al centro e ci canta una commovente canzone napoletana, che parla di amore. La ragazza sembra triste e, piano piano, comincia a sfilarsi le vesti, mostrando i suoi seni – la mancanza di amore per una donna, che non aspetta altro che trovare l’uomo giusto per provare quell’emozione tanto agognata: la passione.
Mariella Celia in "Verdinastella"
Verdinastella è un doppio personaggio e, grazie a questo doppio (sorella buona e sorella cattiva), ha la possibilità di scatenare sia le sue doti più femminili sia quelle più aggressive. Uno spettacolo veramente molto colto, una sorta di Varietà – dove Varietà lo scrivo con la lettera maiuscola. Una sorta di Macchietta – dove Macchietta è anche questa scritta con la lettera maiuscola.
È incredibile il talento scenico di Mariella Celia, che sfrutta in modo magistrale l’intera superficie del palcoscenico. La sua interpretazione si fa seguire, è credibile, è sentita! Lei CREDE in quel personaggio, lei È quel personaggio. Brava quando recita, brava quando danza, brava quando canta; brava nelle parti dolci, brava in quelle aggressive; brava a esteriorizzare i suoi stati d’animo. Danza e medita sotto note di musica classica, che conferisce allo spettacolo un’atmosfera da sogno, un’atmosfera in cui la poetica lingua napoletana è indispensabile.
Sono i contrasti interiori di Verdinastella che vengono fuori allora da questa messa in scena,  una messa in scena disegnata a pennello per la protagonista (in questo va dato merito a Oretta Bizzarri), una bravissima performer che, se continua così, mi azzardo a dire che la storia non dimenticherà.

Valentina Campora in "Psyche"
Giungiamo così all’ultima tappa di questo percorso serale: “Psyche” di Gabriella Maiorino, con Valentina Campora. Luci basse, una donna nella semioscurità in posa monumentale – sembra il “Discobolo di Mirone”. Sta così per minuti, vuole che la gente la guardi, vuole recuperare il valore sacrale dell’Arte: l’Arte è sacra e va ammirata. Poi comincia a danzare, con una gestualità sempre ieratica, sacrale appunto. Danza sul palco come danzasse una statua – nel senso positivo del termine, non fraintendetemi. È vestita con un semplice abito corto a tinta grigia: non vuole apparire, vuole danzare per rappresentare l’Arte e per rappresentare l’interiorità: La “Psyche”, appunto, termine greco che significa “Anima”.
È la danza dell’anima allora quella che si ammira sul palcoscenico per circa 15 minuti, accompagnata dalle musiche di Andy Moor e di Yannis Kyriakides; una danza la cui interiorità è resa molto bene dalla danzatrice, che si muove con grazia, delicatezza e ieraticità.

Gli spettacoli sono finiti, ma, prima di concludere, vorrei fare una piccola riflessione: in “Waiting for suite - hope” una donna, nel finale, sta distesa nuda sul palcoscenico; in “Verdinastella” la manifestazione dei seni della protagonista è un altro esempio di nudità, così come in altri spettacoli contemporanei, come, per esempio, in “Nera Mamba”, assolo di Elisabetta Di Terlizzi, recensito da me non molti giorni fa, la performer alla fine cammina mostrandosi nella sua nudità. Perché questo bisogno artistico di manifestare la propria nudità, mi chiedo? È stato un corpo di cui si è troppo abusato, credo. Un corpo che questa società ha fatto diventare un oggetto e, di conseguenza, gli uomini e molte delle stesse donne, non lo valutano più come dovrebbe essere. Il corpo femminile ha forse perso “l’aura”? per dirlo alla Benjamin – rimando a “L’opera d'arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. Non solo l’arte è diventata seriale, anche il corpo femminile: il corpo femminile adesso sta più sulle riviste, nei programmi televisi, nei siti web, piuttosto che occupare un posto da podio. Forse, queste attrici, con le loro performance, stanno chiedendo alla società di rivalutare quel corpo di cui non si riconosce più la “vera bellezza”? Quel corpo di cui si vuole solo abusare senza ammirare? Può darsi e credo che ne avrebbero anche tutte le ragioni.


Waiting for suite - hope
Compagnia Chiara Frigo
di Chiara Frigo
con Marta Ciappina, Chiara Frigo
drammaturgia di Riccardo de Torrebruna
disegno sonoro Mauro Casappa
disegno luci Moritz Zavan
musica Alva Noto, Peter Gabriel, Nick Cave
con il sostegno di CSC (Centro per la Scena Contemporanea) - Operaestate Festival


Verdinastella
di Oretta Bizzarri
con Mariella Celia
musica Waits, Bizet, Ovadia, Brahem, Cantelom, Corelli, Murolo
disegno luci Stefano Pirandello
regia video Guglielmo Enea
regia, coreografia e costumi Oretta Bizzarri


Psyche
di Gabriella Maiorino
con Valentina Campora
musica Andy Moor, Yannis Kyriakides
Produzione Dansmakers Amsterdam, Paradiso, Danslab Den Haag (NL)




Stefano Duranti Poccetti

28 gennaio, 2012

“Cattedrale”. L’Arte come quiete dopo una tempesta



La breve, ma intensa storia di un giovane e un vecchio che, inizialmente in conflitto, riescono a legarsi tra loro grazie all’Arte. Questo è “Cattedrale”, cortometraggio realizzato da “Golconda Group” con la regia di Leandro Picarella e tratto liberamente da un racconto di Raymond Carver – che lo spettatore più attento vedrà citato in una copertina di un libro all’interno di questo piccolo film.
La vicenda è ambientata in una casa di campagna, dove Sandro e Teresa  (Johnny Breathless e Christine Huebe) vivono insieme. Sarà la visita dell’ “amico” di Teresa, Roberto (Giorgio de Giorgi), un vecchio signore ridotto alla cecità e amante dell’arte pittorica – forse addirittura un artista – a destare la gelosia di Sandro, che è convinto che tra Roberto e la sua amata Teresa ci sia stata anni prima una relazione.
In appena 13 minuti è svelata l’intera giornata che le tre persone trascorrono insieme e, mentre Roberto e Teresa ricordano allegramente il passato, Sandro non partecipa e si rinchiude in sé stesso, questo fino a sera, infatti, quando oramai si stanno tutti per addormentare – Teresa già dorme – Sandro e Roberto vedono in televisione un documentario che parla di cattedrali. A questo punto Roberto ha un’idea e chiede a Sandro di disegnare una cattedrale insieme a lui. Arrivano foglio e matita e la mano di Roberto, appoggiata sopra a quella di Sandro, disegna, appunto, una cattedrale. I due sono molto emozionati di quello che sta accadendo loro e sarà proprio questo fatto a decretare la loro unione e, presumibilmente, la fine della gelosia di Sandro.
Un cortometraggio ben girato in cui si può lodare l’interpretazione degli attori e in cui si possono notare interessanti stratagemmi tecnici, sopra a tutti mi è piaciuta la panoramica che porta da un’inquadratura in cui i tre personaggi sono tutti seduti a tavola, a una in cui sono prossimi ad andare a dormire, dando luogo a una bella ellissi temporale e formando il contrasto tra la vivacità a tavola e la stanchezza di chi si sta per apprestare a dormire. Non posso quindi che congratularmi con il “Golconda Group”, di cui propongo in sede il cortometraggio “Cattedrale”, nella versione resa pubblica su “Youtube”.




Una produzione Scuola di Cinema Immagina e Golconda Group
Diretto da Leandro Picarella, liberamente tratto dal racconto di Raymond Carver, con Giorgio de Giorgi, Johnny Breathless e Christine Huebe
Riprese di Emilio D'aleo
Fotografia di Riccardo Gardin
Aiuto regia Ariele Pitruzzella
Sceneggiatura di Leandro Picarella e Arturo Bandinelli

 Stefano Duranti Poccetti

26 gennaio, 2012

"Lo schifo" di un’Italia cieca di fronte alla realtà



Prato, Teatro Metastasio, 22 gennaio 2012, spettacolo "Lo schifo" – Una donna, la cronaca della sua vita, una storia che oggi è politicamente corretto tenere nascosta. Ecco cosa ha voluto far tornare a galla il regista, nonché drammaturgo, Stefano Massini. Al centro di tutto, l’atroce esperienza di Ilaria Alpi. C’è chi sostiene che la permanenza in Somalia della giornalista fu “una settimana di vacanze conclusasi tragicamente”, ma Massini non si fa incantare e il suo messaggio è molto chiaro. Ilaria Alpi, durante il suo soggiorno a Mogadiscio, aveva scoperto qualcosa che l’Italia stessa avrebbe voluto tenere nascosto e, per il bene della patria, era giusto farla tacere per sempre. Questa la verità dei fatti, questo ciò che il pubblico scopre dopo un’ora e venti di spettacolo. Uno spettacolo che al teatro unisce l’opera, i video e, in un certo senso, anche il disegno. Due attrici a portare avanti il racconto, la non più giovane Lucilla Morlacchi (conosciuta soprattutto per i lavori con Ronconi, Castri e Visconti) nei panni della stessa Alpi, e Luisa Cattaneo, interprete dei vari fantasmi che riempiono i ricordi della protagonista. Ricordi che volano, tornano in vita, come pagine di diario rilette dopo anni. Ed è proprio questa l’idea che la messa in scena dà: un flusso di memoria sussurrato (poco comprensibile se non fosse per i microfoni), dolce, malinconico, ma al tempo stesso sofferente. Un testo molto intenso, a tratti commovente, forse più adatto ad una lettura piuttosto che ad uno spettacolo teatrale, ma pungente. Una regia purtroppo poco efficace, un complesso di musiche travolgenti, ma a volte fine a se stesse. Il messaggio che Massini vuole dare è apprezzabile, è la macchina teatrale che non convince. Sicuramente, però, fa riflettere su mondi che non conosciamo, su situazioni che neanche immaginiamo. D’altronde, chi mai si aspetterebbe che dall’Italia scaricassero in Africa quantità di scorie tossiche (da qui il titolo “Lo schifo”) in cambio di cibo e armi?

Sara Bonci

24 gennaio, 2012

"Ieri sapevo suonare questa musica, oggi no! Perché?". Il fenomeno del "foro nel cervello"



Se suonate uno strumento, avrete sicuramente avuto l’esperienza di aver imparato una frase, un passaggio o tecnica specifica ed aver avuto la sensazione di averla conquistata. Poi, in una seconda istanza, nel momento in cui andate ad eseguire quel brano o passaggio specifico, il tutto è svanito ed avete avuto la sensazione che non siete stati nemmeno voi ad averla imparata in precedenza... qualcosa è successo, come se l’aveste dimenticata, o comunque sia, quando la eseguite, non c’è più la stessa dimestichezza con cui vi ricordate di averla eseguita prima.
Può essere disarmante per un musicista questa sensazione di aver conquistato qualcosa sullo strumento per poi scoprire, magari in serata o alla festa tra amici, che quella conquista era stata solamente parziale e quella parte non si è riusciti a suonarla allo standard di precisione o pulizia con cui ci si ricorda averla eseguita in precedenza, a meno che non si comprenda il fenomeno del “FORO NEL CERVELLO”. Una volta compreso questo concetto, avrete una prospettiva più realistica dei miglioramenti che si possono realizzare su uno strumento, delle modalità e tempistica di quei miglioramenti e potrete, di conseguenza, gestire molto meglio la inevitabile frustrazione che spesso vive chi è determinato a imparare uno strumento.
Immaginate il vostro cervello come un vaso. Sotto il vaso immaginate che ci sia un foro. Quando vi esercitate, state semplicemente mettendo l’acqua nel vaso. Più ci si esercita (e soprattutto, meglio ci si esercita), più riuscirete a riempire il vaso d’acqua. Con sufficiente esercizio, il livello dell’acqua raggiunge una particolare altezza nel vaso, in quel momento specifico. Il problema sorge nel momento in cui si torna al vaso in un momento successivo e ci si aspetta che il livello dell’acqua sia rimasto tale a dove lo si era lasciato. Può venire naturale pensare: “ma come? Avevo versato tanta acqua in questo vaso, dov’è andata a finire?!” Allora, magari un po’ indisposti, ci si accinge a riversare più acqua nel vaso e a riportare il livello dell’acqua a dove lo avevate portato la volta precedente. Questa volta penserete: “Sono sicuro di aver portato il livello dell’acqua all’altezza prestabilita del vaso”. Poi, purtroppo, quando andate a ricontrollare, di nuovo, trovate che il livello dell’acqua si è abbassato ulteriormente. A questo punto viene spontaneo pensare che ci sia qualcosa di sbagliato col proprio vaso. Qualcuno penserà: “Ma che senso ha continuare a versare l’acqua in un vaso difettoso?”.
La verità è che il “vaso” di ciascuno di noi è già in partenza forato; solo chi ha la pazienza e la determinazione di versare continuamente acqua nel proprio vaso potrà mantenere costante il livello dell’acqua e innalzarlo nel tempo. Si può speculare che la grandezza del foro di ognuno di noi varia, e su questo ci sono pochi dubbi, ma è anche fuor di dubbio che CHIUNQUE impara a versare l’acqua nel proprio vaso (impara ad esercitarsi in maniera efficace) e capisce che è altrettanto importante (se non più importante) tornare il giorno dopo ed innaffiare il vaso di nuovo per MANTENERE il livello dell’acqua raggiunto e, solo nel corso del tempo, INNALZARE il livello dell’acqua, potrà veramente godere nel vedere miglioramenti sostanziali sul proprio strumento
Credo fermamente che la mancanza di consapevolezza intorno a quest’argomento sia la principale causa dell’abbandono della pratica musicale o di uno strumento. Se non si conoscono le dinamiche del processo di apprendimento relative alla musica (e questo fenomeno in particolare), la maggior parte delle persone non sono preparate ad affrontare l’inevitabile frustrazione che deriva dal non riuscire a mantenere il livello dell’acqua costante nel vaso e a non riuscire ad alzarlo nel tempo. Capito e accettato questo concetto (e introdotte poi metodologie precise per monitorare il proprio percorso sullo strumento), si può acquisire la giusta prospettiva del proprio percorso e imparare a porsi degli obbiettivi realistici e, soprattutto, acquisire la consapevolezza del proprio progresso sullo strumento, chiave fondamentale nel perseguimento di un rapporto duraturo con la musica.

Dario Napoli

Sull’autore dell'articolo:
Dario Napoli è un chitarrista professionista, produttore, compositore e insegnante. Il suo ultimo progetto è DIENNE MANOUCHE e ha pubblicato un album intitolato GYPSY BOP distribuito anche su itunes e Cdbaby (http://www.cdbaby.com/cd/diennemanouche). Dario insegna privatamente e al Laboratorio Musicale Varcobianco di Castiglion del Lago (www.varcobianco.it)
Per chi volesse contattarlo:
darionapoli74@hotmail.com
www.darionapoli.com

22 gennaio, 2012

Gaia Zucchi. L'amore per la recitazione di un'attrice psicologa


Gaia Zucchi è oramai una conosciuta attrice di teatro e di cinema nata a Roma “il 27 marzo di alcuni fa”, come mi dice lei stessa, concedendomi con grande disponibilità questa intervista in cui mi parla delle sue esperienze professionali. 
Prima di tutto le chiedo, sapendo che, oltre a essere un’attrice, è anche laureata in psicologia: “Quanto è stato importante per te avere la conoscenza di questa disciplina nel corso della tua vita?”. “La psicologia è la vita stessa e mi ha aiutata e mi aiuta tutt’ ora. È importantissima per poter recitare, conoscere lo stato d’ animo e cercare di comprenderlo. Una donna bella, e anche preparata da questo punto di vista, spiazza gli esseri umani. Nel mio lavoro mi è di grande aiuto, sempre, visto che non si recita solo con il corpo, ma anche con l’anima e con la mente”. La psicologia aiuta naturalmente Gaia anche nella vita di tutti i giorni: “Nella vita mi aiuta a comprendere gli esseri umani, almeno ci provo  -  noi psicologi siamo tutti un po’ matti, ricordatelo - mi aiuta con i miei figli, con i miei amori, soprattutto mi piace aiutare gli altri dando consigli, insomma cerco di aiutare il prossimo a trovare il proprio equilibrio, anche se delle volte mi dimentico del mio – la mia vita è un caos!”. L’attrice si emoziona quando le ricordo di una delle sue più importanti maestre della vita, su cui mi dice stupende parole: Goliarda Sapienza. “Goliarda Sapienza era una donna eccezionale, di forte personalità e di grande carisma; amava le donne e le rispettava; mi ha aiutata ad amarmi e ad accettare il fatto che ero bella e quindi a vivere la mia femminilità; mi ha insegnato a credere negli esseri umani. Veramente una donna di grande esperienza e con i suoi racconti ha arricchito la mia esistenza e mi ha insegnato l’ ABC della vita, e lei la vita la conosceva molto bene. La ricordo sempre elegante. Aveva dei cappelli stupendi e grande fascino e cultura. Scriveva con il cuore, amava la vita e te lo trasmetteva”. Un’altra figura fondamentale è stata Attilio Corsini e le chiedo perché la definiva “Un’animale da palcoscenico”. “Attilio Corsini è un’altra figura fondamentale per me. È un grande regista e mi ha fatto uno dei più grandi complimenti che si possano fare a un' attrice, proprio quello che mi hai detto tu: significa che io e il palco siamo la stessa cosa e che riesco trasmettere ciò che ho dentro. Mi ha fatto capire che il teatro è la mia casa, la mia vita! E sentirselo dire da ragazzina da un grande maestro è stato un onore e una grande spinta ad andare avanti nel mio percorso arduo e faticoso. Mi ha trasmesso veramente fiducia e sicurezza, cosa fondamentale per vivere bene le sconfitte”. Tornando un attimo indietro faccio una riflessione e, accorgendomi che per Gaia la sua bellezza è stata forse delle volte un peso, anziché un fattore favorevole, le chiedo se nell’arco della sua vita il suo bell’aspetto ha sorpassato, davanti agli altri, il suo talento artistico, e qui mi risponde con un po’ di rabbia: “Purtroppo in Italia i registi ti prendono solo se sei bella, sul palcoscenico o sul set vogliono donne belle! E così il talento va spesso e volentieri in secondo piano. Loro vogliono che tu faccia il ruolo della “bellona” e del talento, anche se c’è, se ne fregano. Quando mi sono impegnata in ruoli più complessi non sono neanche stata presa in considerazione! E questo accade in Italia, in altri paesi non è così: in America per esempio si tiene al fatto che un’attrice bella debba essere anche brava e preparata, altrimenti ad andare avanti non ce la fa”.
Gaia ha lavorato con grandi registi teatrali, uno di questi è Ronconi: “Con Ronconi ho fatto “La giornata di uno scrutatore”, una meravigliosa esperienza nei manicomi d’Italia, dove abbiamo lavorato con i malati di pazzia. Lui è lunare come tipo e molto impostato; io invece sono solare e non amo le attrici troppo rigide. Ci siamo scontrati, ma è stato bellissimo: è stato teatro vero! Con Formica ho fatto più di uno spettacolo, tra cui “Gente soprattutto matta!”, dove ero protagonista assoluta e facevo la parte di un uomo! Da donna è stato un duro lavoro. Per me, che ero abituata a “sculettare”, interpretare questa parte richiese un grande impegno. Fu esilarante, un grandissimo successo!”. Dal punto di vista cinematografico chiedo a Gaia di parlare della sua esperienza con Tinto Brass, che purtroppo l’attrice non ricorda con felicità, anzi: “Era tempo che Brass mi corteggiava, ma io non avevo mai ceduto alle sue lusinghe. Anche se lo ritengo un grande maestro il film erotico non è certo il mio genere, nonostante il mio fisico dica il contrario. Sono molto pudica, per me, infatti, alla fine dei conti, è stata un' esperienza devastante questo film. A quel tempo volevo fare il grande salto, volevo notorietà - avevo solo 23 anni - e Brass mi è sembrata una grande opportunità, perché tutte le sue attrici alla fine hanno avuto fama e successo. Avevo anche bisogno di guadagnare, in quanto già vivevo sola da tempo e quindi dovevo mantenermi. Ai provini 100 su 100 persone confermano il mio pensiero, ma la realtà è sempre diversa dai sogni e dalle nostre aspettative, infatti il film mi fece orrore e rimasi delusa, tanto che addirittura improntai una causa. Tutti pensavano che fosse per pubblicizzarmi e io ero veramente infuriata! Mi sentivo umiliata e non rispettata. La fama in ogni caso arrivò e fui su mille giornali, copertine, feci serate e apparizioni televisive e guadagnai anche molti soldi, ma non ero felice e così cambiai totalmente la direzione della mia vita e mentre giravo un film internazionale in Spagna, “The touch”, rimasi incinta del produttore del film, mio compagno da diversi mesi, e così, all’apice della mia carriera, nacque il mio amato Leonardo, che ancor di più mi ha fatto pentire della mia scelta per ovvi motivi”. Gaia è molto sincera nelle sue dichiarazioni e la ringrazio molto, per poi domandarle se preferisce il teatro o il cinema. “Mi piace lavorare come artista in generale, per me non c è alcuna differenza tra tv, cinema e teatro, però, certo, il cinema è la mia vera gioia, comunque basta che lavoro e mi sento felice e appagata. Ognuna di queste tre realtà ha le sue caratteristiche: nel teatro c’è un diretto contatto con il pubblico, nel cinema è importante la componente fama/ego, inoltre puoi rivederti quando vuoi ed è bellissimo, e questo vale anche per la tv: basta che trovo modo di esprimermi e sono felice. sono molto eclettica e attualmente, essendoci poco lavoro, insegno recitazione ai bimbi di 2, 3, 4, 5 anni. È molto, molto faticoso, ma un’esperienza bellissima e gratificante. Per chiudere Gaia mi parla del suo ultimo film “Rabbia in pugno” di Stefano Calvagna, uscito nel 2011. Le chiedo anche di anticiparmi qualcosa del suo futuro: “Rabbia in pugno è un film/denuncia molto forte, dove vengo violentata e poi uccisa, si tratta quindi di un’esperienza sicuramente interessante e di un genere un po’ diverso dai soliti. Calvagna è in gamba ed è un bravo regista. Mi cimento molto spesso in ruoli comici, ma mi è piaciuto interpretare questa parte drammatica, chiave di tutto il film. Di progetti ce ne sono, tutti televisivi, ma non ne parlo per scaramanzia. Intanto mi impegno a insegnare ai bimbi (ho la mia scuola che sto creando). Cresco mia figlia di soli 3 anni e seguo Leonardo, sono single e voglio restarci finché non troverò davvero qualcuno per il quale valga la pena dedicare il mio cuore e il mio tempo!”. Ringraziando la gentilissima Gaia, le auguro di riuscire a concretizzare i suoi progetti e anche di trovare il suo principe azzurro.  

Stefano Duranti Poccetti

20 gennaio, 2012

"Tante belle cose". La più che degna sopravvivenza del "classico"



Teatro Signorelli di Cortona, martedì 17 gennaio 2012


Non è facile vedere oggi uno spettacolo teatrale con gli stilemi del teatro ottocentesco. È il caso di “Tante Belle Cose”, del drammaturgo contemporaneo Edoardo Erba, che propone una commedia “classica” e piacevole.
Orsina (Maria Amelia Monti) è una “collezionista” e amante degli oggetti – lì prende dappertutto, anche dai cassonetti – e sostiene che abbiano un’anima e quindi non può distaccarsene. Ne ha accomunati così tanti da riempirne la sua piccola casa condominiale, formando con questi vere e proprie montagne. Due vicini abitanti del condominio (Valerio Santoro e Carlina Torta) vedono Orsina con disprezzo considerandola sporca e “zingara”, tanto è vero che faranno di tutto per far sì che la ragazza se ne vada dal condominio, anche assumere un nuovo amministratore condominiale, Aristide (Gianfelice Imparato), che, però, avendo simpatia per Orsina, che già conosce, farà di tutto per aiutarla. Forse è meglio che non vi sveli altro …
Perché questo dramma può essere definito “classico”? Perché gioca su una relazione di personaggi da teatro classico: Orsina e Aristide, i portatori di una loro morale non compresa e che potrebbero essere identificati semplicemente e banalmente come “i buoni”; il ragioniere e la signora del condominio che s’inventano stratagemmi per far sì che Orsina se ne vada, che potrebbero essere identificati in quanto “cattivi”. Anche il ritmo comico è scandito in modo tradizionale, dove le battute cadono in modo sistematico, causando il riso del pubblico, molto divertito dalle vicende sulla scena, una scena che gioca principalmente sulla creazione di due ambienti: l’esterno del condominio e l’interno della casa di Orsina – una casa che sembra quasi un magazzino, in cui le cose sono accavallate le une sopra le altre quasi senza lasciare spazio al movimento umano.
Bravi gli attori, che devono recitare lo stereotipo del personaggio senza interessarsi all’aspetto psicologico (importante in questo tipo di dramma è il non fallire nella rappresentazione del “ruolo”, non altrettanto importante è creare un personaggio con una “ragione psicologica”, anche se va detto che Orsina è in parte un personaggio psicologico, che nasconde le sue manie sotto le vicende della sua infanzia in cui aveva iniziato a “innamorarsi degli oggetti”).
Uno spettacolo classico allora. Un classico, che, se fatto bene, è sempre piacevole da godersi, anche nei tempi in cui certi stilemi sembrano andare a morire.

Tante belle cose

di Edoardo Erba
regia di Alessandro D’Alari
con: Maria Amelia Monti, Gianfelice Imparato, Valerio Santoro, Carlina Torta
musiche di Cesare Cremonini
scene di Matteo Soltanto
costumi di Giuseppina Maurizi
disegno luci di Adriano Pisi

Stefano Duranti Poccetti 

18 gennaio, 2012

"La Ciociara". Una sorta di opera d'arte totale


Teatro Signorelli di Cortona, lunedì 16 gennaio 2012



Una madre e sua figlia: Cesira (Donatella Finocchiaro) e Rosetta (Martina Galletta) sono costrette a scappare dalla loro città, Roma, a causa della catastrofe della Seconda Guerra Mondiale. Saranno costrette a subire soprusi, incontrare persone malevole, ma anche, per fortuna, una famiglia di contadini, che le ospiterà con grande gentilezza fino alla fine della guerra, quando le due donne riusciranno a fare ritorno, non senza problemi (Rosetta subirà uno stupro) a Roma.
Questo in modo riassuntivo è quello che accade nello spettacolo “La Ciociara” di Annibale Ruccello, tratto direttamente dall’Omonimo romanzo di Alberto Moravia. 
È uno spettacolo di grande impatto scenografico, visto che gli elementi posti sulla scena e i personaggi interagiscono con le immagini video proiettate sullo sfondo, dove l’intera “inquadratura” del palco scenico è incorniciata da una sorta di schermi trasparenti, in cui, anche lì, vengono effettuate proiezioni per rendere la scena più realistica. Per fare un esempio delle volte durante la rappresentazione vengono proiettate fitte gocce di pioggia per dare vita al mal tempo. Un’idea scenografica, se vogliamo, direttamente in linea con una certa corrente del teatro contemporaneo, che fa della visione la sua protagonista, una visione che delle volte scavalca addirittura il fattore narrativo. In questo caso comunque la narrazione non viene messa in secondo piano, ma, anzi, le vicende si susseguono con fluidità e sono innescate bene tra di loro. È anche un tipo di disegno scenografico che permette di portare in scena un testo che un “classico uomo di teatro” potrebbe definire “in-rappresentabile!”, visto che la soluzione video/palcoscenico rende possibile la facile costruzione di diversi ambienti spazialmente e temporalmente distanti tra di loro. Bravi anche gli attori, l’unica cosa che non è stata di mio gusto – d’altra parte fa anche parte del libro di Moravia – è il punto di vista piuttosto politico di questo spettacolo, che del comunista fa la “vittima buona” della guerra, mentre del fascista italiano e del soldato tedesco “Una macchina senza anima” (ci sono apparizioni di veri e propri personaggi in questo senso nello spettacolo, emblemi delle figure di cui parlavo). Esiste insomma una prospettiva stereotipata dei personaggi, che comunque, va detto, non distrugge la relazione psicologica tra di loro – emblematica è la, anche se tesa, unione di amore tra il padre Filippo (Marcello Romolo) e il figlio Michele (Daniele Russo) della famiglia di contadini che ospita le due donne. 
Nonostante questo lo spettacolo mi è piaciuto molto e credo che sia stato ben costruito. La particolare soluzione video/palcoscenico mi dà spunto per una riflessione: quanto è positivo questo andamento del Teatro verso un realismo per così dire “cinematografico”? I personaggi de “La Ciociara” sembrano veramente proiettati in una tela da cinema, rinchiusi come sono dentro quegli schermi di cui parlavo. Mi ricordo che Eduardo de Filippo disse: “La bellezza del teatro è proprio la sua finzione, che rende il palcoscenico un evento immaginario”. Se questa finzione se ne andrà cosa ne sarà del Teatro? Non si può rispondere a queste domande, l’unica cosa che posso dire è che “La Ciociara” funziona (è quasi un’opera d’arte totale in cui dramma, attori, video, elementi sulla scena, luci e musica, collaborano insieme in modo armonioso e dinamico), per il resto si vedrà.


La Ciociara

di Annibale Ruccello
tratto da “La ciociara”, di Alberto Moravia
scene e regia di Roberta Torre
musiche di Massimiliano Pace
costumi di Alberto Spiazzi
disegno luci di Gigi Martinucci
Ccon: Donatella Finocchiaro, Martina Galletta, Daniele Russo, Lorenzo Acquaviva,Dalia Frediani, Diego D’elia, Rino di Martino, Marcello Romolo, Marco Mario de Notaris

Stefano Duranti Poccetti

17 gennaio, 2012

Midnight in Paris – Woody Allen (2011)




Chissà in quanti, tra voi che leggete queste righe, desidererebbero discutere con Hemingway, bere in compagnia e di Francis Scott e Zelda Fitzgerald, o magari fare leggere il proprio manoscritto a Gertrude Stein. Oppure, incontrare con facilità i surrealisti Dalì e Bunuel, o Picasso; e poi innamorarsi follemente nella Parigi dei ruggenti anni Venti.
È un po’ quel che accade al protagonista di Midnight in Paris, ultimo lungometraggio firmato Woody Allen che, con la solita cadenza annuale, talvolta addirittura semestrale, ci regala una sua nuova pellicola. La città europea scelta in questa occasione, dopo Londra e Barcellona, è la Ville Lumiere, dove i due fidanzati Gil (Owen Wilson) e Inez (Rachel McAdams) si recano per una vacanza. Lui è uno sceneggiatore hollywoodiano di film che ritiene di poco conto, e al contempo un nostalgico, un sognatore con un romanzo in cantiere: respirare l’atmosfera parigina è ciò che serve a Gil per riuscire a concludere il suo libro. Inutile dire che la sua ragazza ha un po’ più la testa sulle spalle: lo ama molto, ma lo segue e lo incoraggia fino a un certo punto nella sua attività di romanziere. Nella Parigi in cui lui ama camminare sotto la pioggia, Inez lo trascina in giro giostrandosi tra i genitori e una coppia di amici dove spicca il pedante Paul (un ottimo Michael Sheen). Quando una sera Gil si distacca dal gruppo, per abbandonarsi in una solitaria camminata immerso nel suggestivo paesaggio notturno parigino, ecco che proprio allo scoccare della mezzanotte viene invitato a salire su una vecchia automobile, che lo catapulterà, poco dopo, nella sua amata Parigi degli anni Venti. Qui, incontra i già menzionati illustri personaggi, e non si capacita di ciò che gli sta accadendo. Ogni sera tornerà ad immergersi nella sua epoca favorita, perdendosi negli occhi di Adriana (Marion Cotillard), che già aveva stregato Modigliani e Picasso. Molte saranno le situazioni in cui Gil verrà coinvolto, ma sarebbe crudele rivelare a chi legge senza aver visto il film gli ulteriori sviluppi della trama.


Con un po’ di maniera, ma pure con una buona dose di colpi di classe, Allen torna a girare un’ottima commedia, dopo i toni un po’ calanti di Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni o Vicky Cristina Barcelona. Eccezion fatta per la gradevolissima e graffiante parentesi di Basta che funzioni.In Midnight in Paris tutto funziona alla perfezione: sceneggiatura solida, ricca di battute in pochi casi memorabili ma sempre riuscite, e di citazioni più o meno colte che strizzano l’occhio agli amanti dell’arte e della letteratura di quello splendido periodo. La Parigi di Allen non è soltanto una città da cartolina come capita di leggere in molti articoli, ma un ambiente pulsante di vita e stimoli, di cultura, di amore; dove sognando ad occhi aperti si può vedere ed ascoltare Cole Porter seduto al piano, convincere Francis Scott Fitzgerald di quanto Zelda lo ami o suscitare ira in Ernest Hemingway. La fotografia, ad opera del franco – iraniano Darius Khondji, fa leva su colori caldi, che aiutano lo spettatore ad immergersi ancor meglio nell’atmosfera avvolgente e calorosa del film. Eccellente la direzione degli attori, tra i quali senza dubbio spicca il protagonista Owen Wilson, che si dimostra tra i più centrati alter – ego alleniani di sempre, riuscendo a calarsi alla perfezione nel personaggio di Gil: nervosetto, balbettante e nostalgico, personaggio creato e messo in scena da uno che ammette candidamente di ascoltare pochissima musica partorita dopo gli anni Trenta. Bravissime anche ragazze e signore, per le quali, sia per bellezza che per capacità recitative, il buon vecchio Woody ha sempre avuto gran gusto: si parte dalla Rachel McAdams che ben si presta ad impersonare la fidanzata un po’ antipatica di Gil, e si passa per la seducente Marion Cotillard – Adriana, la musa degli artisti che vorrebbe vivere nella Belle Epoque; un’ attrice che senz’altro (e a ragione) molti registi in questo preciso momento si stanno litigando. C’è poi quella dolcissima Léa Seydoux che si adatta fin troppo bene alla parte di venditrice di vecchi 78 giri Jazz. Sempre in gran forma la sempre poco considerata Kathy Bates, un’attrice con la A maiuscola, che in questo film ci regala una Gertrude Stein semplicemente meravigliosa. La meno interessante del quintetto è forse la signora Sarkozy, la Carlà nelle vesti di guida turistica, che però in fin dei conti fa la sua figura, visti anche i pochi minuti a lei concessi.
Non si sa bene da quanti anni Woody Allen venga dichiarato artisticamente finito. Be’, forse più di un decennio. Fatto sta che questo suo ennesimo lungometraggio smentisce e poi zittisce certa critica (da leggersi con lo stesso tono col quale un berlusconiano dice “certa sinistra”) ,che non si fida più di lui e del suo Cinema, ma che invece brilla ancora d’ottima luce. La luce di chi la Storia l’ha ormai scritta e vissuta, e che ogni tanto si può anche permettere qualche film fuori fuoco. Ma non è il caso di Midnight In Paris, gioiellino che coloro che stanno dalla parte del giusto hanno salutato come la sua miglior prova da quindici anni a questa parte. E non hanno tutti i torti, no.

Marco Renzi

14 gennaio, 2012

“Fantasmi d’amore”. La storia del Gotico nel cinema: quel “genere” che in Italia è stato fin troppo spesso trascurato




Un approfondito studio sulla storia del cinema gotico italiano, in cui troviamo le vicende di esseri fantastici e immaginari, come vampire, streghe, spiriti. Questo è Fantasmi d’amore. Il gotico italiano tra cinema, letteratura e tv, l’ultimo libro di Roberto Curti, redattore di Blow Up e collaboratore del dizionario MereghettiSi tratta di un libro edito alla casa editrice Lindau, uno studio nuovissimo, uscito proprio alla fine dell’anno appena passato: precisamente il 17 novembre. 
Troppo spesso, credo, si è dimenticato e si dimentica, il lato gotico e sovrannaturale del cinema italiano, che viene invece ricordato per altri aspetti, di recente purtroppo neanche piacevoli. Ma questo studio risveglia quella “ombra” del nostro cinema, che delle volte si cerca di combattere o che viene involontariamente trascurata, non vedendola forse come connotativa del “cinema all’italiana”. È così che Roberto Curti ci ricorda i registi italiani Riccardo Freda,  Mario Bava e tutto quel fervore per il fantastico che fece di Barbara Steele negli anni una sorta di mito degli anni '60. L’autore parla anche di Antonio Margheriti e Dario Argento (come non parlarne?), e  anche di altri registi, che hanno trattato il gotico in modo personale e originale, come Federico Fellini, Dino Risi e Pupi Avati, senza trascurare le produzioni tv che hanno fatto di queste tematiche le loro protagoniste.
Si tratta di un’opera completa dalle origini a oggi, che non si ferma a fissare l’argomento in modo introduttivo, ma approfondendolo anzi in modo ampio, contestualizzandolo con precisione e dando efficaci informazioni sugli autori, senza trascurare il legame tra letteratura e film e il contesto culturale e commerciale in cui le opere sono venute alla luce. 
La prima domanda che ci si pone nel libro è: “Che cos’è il gotico?”, e già qui ci si pone davanti al problema di trattare un argomento apparentemente semplice, ma in realtà molto complesso. Sicuro è che si parlerà di storie fantastiche e spaventose, come ricorda Roberto Curti nella premessa, citando Giovanni Verga, da Le storie del castello di Trezza: “È una storia spaventosa – mormorò la signora Matilde. – Togliamone pure i fantasmi, il suono della mezzanotte,  il vento che spalanca usci e finestre, e le banderuole che gemono, è una spaventosa storia!”, che vale la pena di leggere, aggiungo io, se Giovanni Verga mi permette.

Stefano Duranti Poccetti









12 gennaio, 2012

"Nera Mamba" di Elisabetta Di Terlizzi. Dalla prigione alla libertà



Un video, le cui immagini “comandano” i movimenti della protagonista, che sembra essere condannata da delle prigioni interiori che la soprassiedono. Questo fino al finale, quando la ragazza, togliendosi i vestiti e assaporando la libertà, può cominciare a “vivere” e a convivere “serenamente” con i propri incubi.
Questo è “Nera Mamba”, assolo teatro-danza di e con Elisabetta Di Terlizzi, che fin dall’inizio ci immette nel dolore della ragazza portata in scena, avendo l’intenzione di crearne l’esistenza attraverso i vari passaggi della vita. Inizialmente la troviamo bambina e l’ombra di una mano gigantesca proiettata sul video sembra quasi un mostro che dirige i movimenti della protagonista; immagine ancora più terribile quando vediamo che l’ombra della mano porta con sé anche ombre di scheletri umani. La seconda scena è più movimentata e anche la musica diventa più vivace – non allegra – e un paio di scarpe a zeppe rosse vengono proiettate sul video, si tratta delle stesse scarpe che porta la ragazza, che ora non è più una bambina, ma una ragazza adulta, una ragazza che ha sofferto, una bella ragazza la cui bellezza è sfiorita anzi tempo e che pare, con la parrucca, il vestito attillante corto e le scarpe a zeppe alte, una prostituta: sono gl’incubi che l’hanno dilaniata, che l’hanno distrutta, è colpa di quel maledetto video che sta lì, sullo sfondo, e che la comanda senza che lei possa ribellarsi, ma alla fine ce la fa: prende forza finalmente! Si toglie i vestiti, la parrucca: tutte le sue vesti. È ora completamente nuda come Madre Natura l’ha fatta, mentre il video dietro di lei brucia e scompare: è finalmente libera e adesso può mettersi seduta, tranquilla, e guardare un lupo che corre dove vuole, accompagnata dal suono armonico di musica barocca: è libera! E in questa libertà è lei la padrona, non è più soggiogata da nessuno, il video non la comanda più e può così cominciare a dialogare con sé stessa, con i suoi incubi, può addirittura ballare con uno scheletro, lo scheletro del suo inconscio, e fare l’amore con lui, per poi addormentarsi insieme e sognare lietamente.
Funziona veramente molto bene la relazione tra il video e la protagonista e lo spettacolo si fa seguire, sorprendendo e non annoiando. Si tratta di un assolo piuttosto breve – circa 17 minuti – ma, nonostante questo, è suddiviso in una serie di micro-scene che risultano allo stesso tempo insieme ben innescate e ciascuna indipendente dall’altra, suscitando nello spettatore sempre emozioni diverse e intense. Un complimenti allora a Elisabetta Di Terlizzi e al Suo “Nera Mamba”.  

Stefano Duranti Poccetti

11 gennaio, 2012

"The Artist": la crisi ci fa sognare



In un momento in cui il cinema contemporaneo sembra aver trovato nella tridimensionalità posticcia l’unica via di scampo per uscire dalla crisi, non solo economica, ma soprattutto di idee e di linguaggio, ecco arrivare in Italia The Artist, del regista francese Michel Hazanavicius. Un film muto, proprio come se ne facevano una volta, rigorosamente in bianco e nero, con inquadrature e tecnicismi dettagliatamente da cinema anni ‘20. È stato adottato persino il formato dell’epoca, l’originario 1:1,33. Qualcuno potrebbe pensare, cosa ci fa nel 2012 un film muto, prodotto in Francia nelle sale italiane? Per capirlo basta dare un’occhiata alla pagina che Wikipedia dedica al film: praticamente è per metà occupata dalla trama e da altre comunicazioni di rito, mentre l’altra metà rende conto dei numerosissimi premi. Si parte dal premio decisamente meritato per la migliore interpretazione maschile a Jean Dujardin all’ultimo Festival di Cannes, per finire ad una serie interminabile di riconoscimenti e nomination nei tanti, diversi e oramai variegati festival in giro per il mondo. Cosa succede? I critici di tutto il mondo soffrono di nostalgia? Ricordano con candore quando infanti venivano accompagnati al cinema dalle casalinghe madri divoratrici di fotoromanzi? O forse come succede spesso quando ci sono grossi cambiamenti in atto ricorriamo alle origini? Sinceramente non lo so, ne tanto meno vorrei azzardare una tesi al riguardo. Se però, ricercando nelle classifiche dei film premiati nei maggiori festival d’Europa degli ultimi anni, mi accorgo che tanti film sono in bianco e in nero, come Il Nastro Bianco 2009 di Michael Haneke,  o film quasi senza dialoghi, come Bal  del regista turco Semih Kaplanoglu, premiato con l’Orso d’oro a Berlino nel 2010, allora mi viene da pensare che The Artist  non è solo un film muto in bianco e nero francese,The Artist non è una scommessa del regista o del produttore folle che investe soldi di tasca sua per realizzarlo. The Artist arriva da un percorso che si sta consolidando da un po’ di tempo nel cinema d’autore. Autori raffinati che considerano il cinema muto la forma più pura per una narrazione, in quanto un film fatto di sole immagini, oltre ad essere più difficile da realizzare, richiede davvero grande intelligenza e conoscenza, ma soprattutto grande sensibilità visiva. Quante infinite possibilità ci sono per realizzare una scena muta? Si devono inventare le atmosfere, bisogna avere grande cura dei dettagli, si deve ricorrere alla gestualità, alla fisicità degli attori. E l’ espressione del viso? Quanto può essere forte un sorriso, un pianto, una carezza o uno sguardo? Ecco, per chi fa questo mestiere e crede nella potenza visiva dell’immagine fare un film senza le parole che spiegano tutto è il massimo. Voler raggiungere il cuore degli spettatori senza che nessuno apra bocca significa comunicare universalmente senza dover tradurre ogni gesto, ogni situazione o atteggiamento. E poi chi vede un film di sole immagini deve inventarsi i dialoghi e quindi è costretto a fare uso della propria immaginazione, deve pensare, deve partecipare alla creazione. Ecco, The Artist non solo ci parla, The Artist ci fa sognare e, come dicevo all’inizio, nei momenti di crisi più intensi l’uomo ha sempre avuto bisogno dei sogni!
                                                                                                         
Antonio Castaldo

09 gennaio, 2012

"Pasto a due". I due fratelli accecati dal potere

Foto di Antonio Castaldo
Un lungo tavolo apparecchiato al centro, posto in modo tale che noi spettatori possiamo vederne la sua lunghezza; due fonti di luce: una che proviene dall'alto, mentre l'altra da sotto il tavolo. Uno scenario cupo: un incubo, un incubo sopra cui danzano due performer (Stefano Mazzotta ed Emanuele Sciannamea, anche creatori dello spettacolo), due performer che, a tratti, sembrano uno: ciascuno è l'ombra dell'altro? A tratti sembrano quasi scontrarsi, a tratti riappacificarsi; a tratti danzare insieme e a tratti ognuno rinchiuso nella propria solitudine.
Questo è "Pasto a due", portato dalla compagnia torinese "C.ie Zerogrammi" come secondo spettacolo della rassegna "Invito di Sosta" e andato in scena sabato 7 gennaio nel Teatro Comunale di Castiglion Fiorentino.
Foto di Antonio Castaldo
"Benvenuto fratello!", si dicono i due in certi frangenti della messa in scena - sono le uniche parole che sentiamo, il resto viene lasciato alla parola del gesto - senza che noi riusciamo ad afferrare fino in fondo il significato di queste parole. Per capirlo, abbiamo bisogno del "programma", un po' come la "musica a programma", in cui lo spettatore è aiutato alla comprensione da delle didascalie scritte. Grazie al programma giungiamo finalmente alla comprensione: si tratta dei fratelli - Atreo e Tieste - della tragedia di Seneca "Tieste", due fratelli in eterna lotta per il potere, un potere che li accecherà così tanto da compiere un grave delitto, quando Atreo uccide i figli dell'altro dandoglieli in pasto - da qui "Pasto a due", dove la tavola imbandita per la cena è il fulcro di tutto lo spettacolo, uno spettacolo che per la sua intera rappresentazione sembra dover spiccare il volo, ma, giunto all'apice emotivo d'intensità, alla fine, sempre, per volere del regista, è costretto a cadere, per poi ancora rialzarsi e cadere ancora. Quello che è in scena è l'eterno conflitto di amore e di odio di due fratelli soggiogati dal potere, un potere che sembra essere il protagonista incontrastato del tutto, contro cui chiunque voglia battersi ne rimarrà sconfitto, anche i puri sentimenti fraterni.
Un bello spettacolo: bravi i performer, veramente suggestivi l'allestimento scenico e il disegno luci, che crea un gioco ben riuscito di luci e di ombre. Forse solo un po' troppo lungo: credo che possa essere limato in certi sue parti per renderlo più coinciso e ancora più intenso.


Stefano Duranti Poccetti

07 gennaio, 2012

Laura Scalera, una promettente attrice amante del teatro



Laura Scalera è un’ attrice e conduttrice radio e tv.  È nata a Pagani, in provincia di Salerno, il 5 luglio 1986, ed è stata molto gentile a prestarsi per l’intervista del “Corriere”. “Beh, ho iniziato per gioco a 13 anni e poi mi sono ritrovata ad accumulare esperienza su esperienza e tutto diventava parte del mio mondo", esordisce Laura, che poi spiega di avere studiato cinema e teatro a Roma, aggiungendo che per questo lavoro è importante una particolare inclinazione naturale, come del resto lo sono tanta esperienza e sacrificio.
“A me piace comunicare e lo faccio a 360 gradi anche con la scrittura, la fotografia ...”, continua la giovane, che fa capire di essere innamorata dell’Arte e della creatività in generale. La bella Laura è anche modella e mi spiega: “Fare la modella è venuto in modo naturale e spontaneo. Non ti nascondo che mi diverte tantissimo e riesco sempre a creare rapporti di grande amicizia con i miei fotografi”. Ma la vera passione dell’attrice è il teatro, di cui ama in particolar modo lo scambio energetico ed emotivo che si crea con il pubblico: “Sentire il pubblico e la sua energia, quando reciti sul palcoscenico di un teatro, è un'esperienza indescrivibile. Anche se porti in scena la stessa opera, ogni sera è un'emozione diversa perché il pubblico cambia. Anche il cinema mi piace moltissimo, non solo quello italiano, ma anche quello americano (trovo geniale l'uso che fanno della micro mimica facciale)”. Arriviamo ora alla sua formazione e alle sue esperienze lavorative: “Premetto che la cosa che mi piace di più è recitare e l'ultima esperienza a teatro è stata bellissima: Antonio Giuliani mi ha scelto per lo spettacolo "Mai fare il pazzo... Più lungo della gamba" (al Teatro di Tor Bella Monaca a Roma). Ho scoperto così le mie chiavi comiche grazie ad Antonio che, oltre a essere un professionista, è anche una persona splendida. La conduzione è sicuramente un altro punto forte del mio fare. L'ultima esperienza è stata radiofonica, mi si è aperto un mondo nuovo e ho avuto l'onore di intervistare i "grandi": Ana Laura Ribas, Manuela Villa, Micol Olivieri, Maurizio Casagrande, Giacomo Rizzo... e potrei continuare. Sono stata io l'autrice della trasmissione e quindi ero io a inventare le domande e questo mi ha aiutata a capire come rispondere alle mie interviste, come quella che mi stai facendo tu.
Ultima cosa, ma non per ordine di valore, è stata l'esperienza con i bambini di Vairano Patenora (mio paese di origine). Ho scritto una commedia "... e non ci volevo venire!" e l'hanno portata in scena con successo. E' rimasto uno splendido rapporto con tutti i miei alunni, addirittura una di loro mi ha chiesto di farle da madrina per la cresima! e per me è stata la più grande attestazione di stima, più dei vari riconoscimenti e targhe che si ricevono. A proposito di questo ti svelo il prossimo progetto in cui sarò piacevolmente impegnata a marzo: portare il teatro ai bambini diversamente abili. Ci credo molto e sono felice che i responsabili abbiamo scelto me come insegnante”. È bello sapere che per Laura la componente umana è importante quanto quella artistica. Le faccio poi notare una cosa, per così dire, curiosa: “Laura, tu studi giurisprudenza, come mai?” “Stefano, molti artisti hanno anche studiato giurisprudenza, non lo sapevi? Ormai manca la tesi e sono molto orgogliosa di come sono riuscita a conciliare i due percorsi senza rallentare con nessuno dei due. Sono una donna che nella vita cerca di assicurarsi tanta serenità interiore, e avere una seconda scelta mi permetterà di vivere la recitazione come passione e non come necessità di guadagno. Solo così potrò continuare a crescere davvero artisticamente”.  Viene naturale che poi mi dica quali sono le caratteristiche che bisogna avere per andare avanti in questa strada: “Bisogna avere tante caratteristiche a proprio favore: capacità, determinazione, costanza, ma, soprattutto, tanta fortuna! Il marcio è ovunque, bisogna guardarsi le spalle ed essere responsabili della propria persona. Per come sono fatta io, non riuscirei mai a far carriera calpestando la mia dignità”. Mi parla poi degli idoli che ha seguito nella sua carriera: “Ho smesso di avere idoli. Mi capitava soprattutto con gente del settore: iniziavo a vederli come dei saggi, dei maestri da seguire, poi, col tempo … ho capito che siamo tutti umani e che la migliore verità è quella che ti nasce dentro con gli anni. Sicuramente ci sono delle attrici che ammiro molto, come Meryl Streep, ad esempio”. Benché la sua giovane età l’attrice ha già molti fans, che tiene a ringraziare: “Ringrazio tutte le persone che mi seguono su Facebook e su My space, sono simpaticissime!".
Per concludere Laura mi dà una definizione breve, ma molto intensa e, perché non dirlo, bella, del suo amore per il Teatro: “Teatro è vita. Ho visto tanta gente iniziare a sorridere con questa magia”.

Stefano Duranti Poccetti

05 gennaio, 2012

"Credo in un solo Dio", un Dio per tutti

Credo in un solo Dio
Drammaturgia di Stefano Massini
Voce recitante Amanda Sandrelli
Orchestra Multietnica di Arezzo diretta da Enrico Fink

Teatro Signorelli di Cortona
4 gennaio 2012

Sono ormai molti anni che possiamo definirci un paese multiculturale, ma non è stato mai favorito veramente, almeno per quanto mi riguarda, un vero interscambio culturale, in cui lo scambio dei punti di vista porti a un accrescimento della cultura e alla fine dei conflitti razziali.
"Credo in un solo Dio", con drammaturgia di Stefano Massini e alla voce recitante Amanda Sandrelli prende in considerazione proprio questa problematica. 
L'attrice è al centro della scena, il cui unico oggetto scenico è una scultura che rappresenta una sorta di labirinto, posto in cima a una piccola scaletta praticabile - quello è il labirinto della vita, il labirinto della civiltà, il labirinto della storia che non fa altro che intrecciare diverse vicende in luoghi diversi. L'attrice è circondata da un'orchestra - è l' "Orchestra multietnica di Arezzo diretta da Enrico Fink - che per tutta la rappresentazione intona melodie dal sapore "multietnico" appunto, dando anche una spiegazione musicale e onomatopeica alle parole di Amanda Sandrelli, che recita tre personaggi, ognuno manifestato dal diverso colore di luce con cui lei stessa viene illuminata: Eden Golan, che è un docente di storia ebraica, viene illuminato da una luce blu; in forza all'esercito degli Stati Uniti è invece Mina Wilkinson, rappresentata dalla luce verde; dalla luce rossa è infine Shirin Akhras, una studentessa ventenne palestinese.
Sono storie, quelle della narratrice, sull'incontro e lo scontro delle diverse culture; sono storie sulla guerra, sul fondamentalismo, sull'apparente impossibilità di convivere insieme. 
"Credo in un solo Dio" potrebbe essere letto come "Credo in un solo Dio, il mio Dio, e credo solo in lui, senza scendere a compromessi", oppure come: "Credo in un solo Dio, lo stesso Dio che appartiene ugualmente a tutte le civiltà", e quest'ultima lettura dovrebbe essere quella definitiva che ci porta verso la distruzione del fondamentalismo, a favore del dialogo. Non a caso Amanda Sandrelli è al centro, attorniata dai musicisti multietnici: è un po' come un'unica parola in cui confluiscono tutte le culture; una parola che riassume in una tutte le parole della civiltà; una parola che porta alla pace.
Spettacolo piacevole e suggestivo, che centra in pieno il suo obiettivo di giungere a un sereno legame sociale, all'accettare l'altro in quanto essere coesi è una forza in più e non in meno.

Stefano Duranti Poccetti

03 gennaio, 2012

"Tomboy", il difficile percorso della scoperta di sé stessi



Laure (Zoé Héran) è una bambina di 10 anni ed è appena arrivata con la sua famiglia in un nuovo quartiere di Parigi. Non è una bambina come le altre: porta capelli corti, si veste con pantaloni e magliette sportivi, le piacciono le macchine, gioca a carte e, a un certo punto, beve anche la birra. Laure è un “maschiaccio”, è nata femmina, ma nutre dentro di sé l’ambizione di essere uomo. È molto diversa da sua sorella più piccola, Jeanne, che invece è il prototipo di perfezione femminile. Il suo disagio la porta addirittura a “trasformarsi” in maschietto davanti ai suoi nuovi amici del quartiere, a cui dice di chiamarsi Mickaël. Mickaël è un bambino molto determinato e dimostra di essere il più forte in qualunque attività ludica e sportiva a cui prende parte - anche nella lotta. Tra di loro c’è Lisa, una ragazzina molto carina di cui Laure/Mickaël s’invaghisce, tanto che i due finiscono per baciarsi, senza che Lisa sia a conoscenza della vera identità della bambina, un’identità che alla fine è costretta a venire fuori grazie/a causa della madre, che si dimostra sempre molto delicata e disposta al dialogo con la figlia (anche il padre le è molto vicino, ma, involontariamente, tramite certi atteggiamenti, alimenta il difficile contrasto interiore di Laure). Dopo il primo momento di disperazione e di separazione tra Lisa e Laure, le due alla fine si riappacificano con un finale molto ambiguo: la risata che si scambiano nell’ultima scena potrebbe significare la volontà di cominciare una nuova amicizia, oppure il continuare ancora la relazione.
“Tomboy” ha vinto nell’anno appena passato il “Teddy Award” all'ultimo Festival di Berlino ed è stato girato in soli  20 giorni! Nonostante questo il lungometraggio è molto accurato in tutte le sue parti, sapendo collaudare insieme una bella componente fotografica (Crystel Fournier) con un ottimo montaggio (Julien Lacheray), per un film che a livello spaziale usa semplicemente due ambienti: l’interno della casa di Laure in cui ci sviluppano le dinamiche familiari e private, e l’esterno – il boschetto/parco in cui i bambini vanno a giocare.
Céline Sciamma è molto brava a trattare il delicato tema della scoperta della sessualità da parte di una bambina, parlando dei suoi conflitti interiori che la portano a immedesimarsi così tanto nella figura del sesso opposto da innamorarsi di Lisa, che è l’emblema della femminilità – capello lungo, sensibilità e delicatezza.
Nota di merito per Zoé Héran, che, nonostante la sua giovanissima età, dimostra di essere all’altezza di un ruolo così psicologicamente complicato, per un film veramente molto piacevole in cui la giovane Sciamma dimostra ancora  una volta la sua abilità registica.

Tomboy

Regia e sceneggiatura: Céline Sciamma
Attori: Zoé Héran, Malonn Lévana, Jeanne Disson, Sophie Cattani, Mathieu Demy, Ryan Boubekri, Yohan Véro, Noah Véro, Cheyenne Lainé
Produzione: Bénédicte Couvreur/Hold Up Films & Productions in co-produzione con Arte France Cinéma, Lilies Films
Distribuzione: Teodora Film
Paese: Francia 2011
Genere: drammatico


Stefano Duranti Poccetti