29 novembre, 2011

Maria Laura Perilli. La Galleria Triphè



La valorizzazione dei giovani artisti e la volontà di fare avvicinare le persone all’Arte sono due punti focali della prospettiva della “Galleria Triphè”, galleria d’ Arte creata nel 2007. Ha sede a Cortona, nella ex chiesa di San Carlo Borromeo ed è nata grazie a Maria Laura Perilli, una giovane di 29 anni di Roma. “L’ho creata dopo la mia laurea in Conservazione e Beni culturali ambientali”, comincia Maria Laura, per poi proseguire: “Avevo 25 anni quando ho iniziato e la fortuna è stato trovare questo ambiente: una ex chiesa, stata in passato anche una pinacoteca”. La Galleria organizza mostre di artisti affermati, avvalendosi anche delle sale cortonesi di  Sant’Agostino; sono stati esposti pittori del calibro di Pier Augusto Breccia, John Ratner e Sandro Trotti, ma in realtà quello che rende più felice la gallerista è la ricerca di giovani artisti. “È una grande  soddisfazione scoprire un talento e accanto a questa ricerca do anche la possibilità di poter cominciare un discorso di collezionismo e mi piacerebbe per questo fare capire ai giovani che può essere soddisfacente acquisire un’opera d’Arte anziché un telefono di ultima generazione”. Tassello importante per il percorso della Galleria è stata la scoperta della pittrice Roberta Coni, che, selezionata per il premio Fabbri, entrerà addirittura alla Biennale di Venezia. “È un’ artista che ha iniziato con me dipingendo i “Corpi nell’acqua” – spiega Maria Laura. L’ho vista per strada, per le vie di Roma e mi ha attratto il suo modo di dipingere”. A Cortona sarà dedicata proprio a lei la mostra della Galleria, e avverrà nel mese di giugno, dal 2 al 20, nelle sale di  Sant’Agostino, con il tema “La violenza sulla donna”, mostra che tra l’altro sarà portata anche a Roma.  “L’altra curatrice della mostra è Ivana Lustrissimi, e questo è stato un tassello molto importante, forse il più importante della nostra piccola storia: riuscire a fare sbocciare la carriera artistica di un’artista”. Maria Laura sceglie gli artisti in modo molto personale e intuitivo, dando molta fiducia all’emozione che le suscita l’opera: “Faccio un mio percorso, amo l’Arte figurativa e la ritengo interessante quando è accompagnata dalla genialità, da un concetto profondo, da un messaggio”. La “Galleria Triphè” si propone di fare anche del mecenatismo, rinvestendo i soldi per i giovani, per la sperimentazione e per la ricerca, e qui s’intravede tutta la serietà e tutto l’impegno della gallerista: “Se fai un discorso serio puoi resistere, devi tenere alto il livello di quello che fai e devi essere esigente”. Maria Laura conclude parlando dell’importanza dell’Arte: “Vorrei che le nuove generazioni fossero educate al Bello e che l'Arte contemporanea possa essere importante anche per i giovani, perché è un modo anche per arricchire l'anima e per pensare, cose di cui ora abbiamo molto bisogno. Dobbiamo fare di tutto per avvicinare ragazzi e ragazze a questo mondo affascinante, che dà anche tante soddisfazioni”.

Stefano Duranti Poccetti (da Cultura Commestibile)

Antonio Carloni parla di Cortona On The Move



Per la prima volta Cortona diventa quest’estate luogo di un importante percorso fotografico: “Cortona on the move. Fotografia in viaggio”, dove artisti di fama internazionale del panorama fotografico sono esposti in diverse location della città. Un’iniziativa che ha avuto inizio il 21 di luglio e che avrà fine il 4 di settembre e che ha fatto d Cortona una meta privilegiata di questa Arte. “Il progetto è nato dall’ ‘Associazione culturale On the Move’, formata da me, Nicola Tiezzi, e Alessio Barbini”, esordisce Antonio Carloni, uno degli organizzatori. “Inizialmente l’idea era quella di fare un piccolo progetto di fotografia, poi siamo entrati in contatto con ‘Toscana Photography Workshop’, che in Toscana organizza corsi di fotografia molto importanti da molti anni e questo ci ha fatto fare il salto di qualità, facendoci pensare a un festival vero e proprio con aspirazione internazionale”. È così che sono potuti entrare in contatto con enti di alto livello: “Siamo entrati in contatto con ‘National Geographic’ e con vari photo editor, come ‘Newsweek’, ‘The Sunday Times’ e ‘Amica’. A questo punto abbiamo deciso di fare le cose fatte bene e di creare un festival di alta qualità”. Ci è voluto circa un anno perché l’associazione riuscisse a organizzare la manifestazione. “Abbiamo iniziato un anno fa questo progetto: i primi 6 mesi sono stati di scrittura e di progettazione, i successivi di raccolta fondi. Tramite ‘Toscana Photography workshop’ abbiamo portato qua fotografi di stampo internazionale, quali: Alex Majoli, Andrea pistolesi, David Alan Harvey, Arno Minkkinen e Antonin kratochvil, che è uno dei fotografi di guerra più importanti; in più abbiamo dato vita a una sezione per i giovani fotografi emergenti, che sono esposti nella Fortezza del Girifalco”. Straordinario punto di forza sono le location per le mostre, luoghi che non erano più visitabili da anni. “Sono state riaperte la vecchia tipografia sociale e la chiesa di Sant’Antonio, chiusa da  trent’anni; sono stati poi sfruttati un vecchio magazzino alimentare e le antiche cantine di palazzo Alfieri. La gente insomma ha scoperto una Cortona nuova e nascosta”. Il festival sta avendo veramente un grande successo: “Va molto bene, sono entrate migliaia di persone. Siamo soddisfatti del risultato, è la prima volta che Cortona conosce bene la fotografia. È  un progetto destinato a continuare anche per i prossimi anni  e contiamo che diventi un appuntamento fisso, come lo sono i festival Haarl e di Perpignan, in cui ambiamo a entrare nel circolo per dare al nostro progetto un profilo sempre più internazionale.

Stefano Duranti Poccetti (da Cultura Commestibile)

27 novembre, 2011

San Carlo tra Ravel, Liszt e Chopin


Mariella Devia


Le luci basse e color d'ambra del Teatro San Carlo di Napoli si confondevano con gli ori e coi riflessi degli specchi dei palchetti, mentre giungevano a noi, spettatori, gli squisiti vocalizzi di Mariella Devia e il distinto pianismo di Enrica Ciccarelli e risuonavano in tutta la bellezza del teatro le note di Ravel, di Liszt e di Chopin. Questo il cappello allo spettacolo del 17 ottobre nel Teatro San Carlo di Napoli, dove tutto è cominciato con una composizione per voce e pianoforte di Maurice Ravel: "Cinq mélodies populaires grecques".
Si sono comportate benissimo sia la famosa soprano Mariella Devia, capace di cantare con disinvoltura la musica ritmicamente complessa del compositore francese, sia la pianista Enrica Ciccarelli, sempre precisa al suo strumento, artefice anche di una buonissima esecuzione nel brano successivo, sempre di Ravel: una "Sonatine" per pianoforte, in cui l'italiana si è dimostrata all'altezza della partitura; è stata anche precisa, forse in questo caso troppo precisa, nei "Tre sonetti del Petrarca" di Franz Liszt, per pianoforte e voce, in cui la sua intenzione di essere troppo attinente allo spartito ha guastato un po' la poesia di questi pezzi, ma non per questo posso considerare la sua interpretazione non valida, un valore che ha dimostrato di più in "Un sospiro", sempre di Liszt, un brano solo per pianoforte, in cui la Ciccarelli ha potuto dare sfogo a tutta la sua libertà pianisticamente espressiva. "Pace non trovo, e non ho da far guerra,/E temo, e spero, ed ardo, e son un ghiaccio:/E volo sopra 'l cielo, e giaccio in terra;/E nulla stringo, e tutto 'l mondo abbraccio.", questa la prima strofa del sonetto di Petrarca "Pace non trovo", uno di quei tre sonetti cantati dalla Devia molto bene, forse solo delle volte con qualche acuto di troppo, più virtuosistico che sensato, vista anche la poeticità della raccolta lisztiana di questi pezzi, gli "Années de pelerinage", considerati tra le opere più poetiche e sentimentali mai scritte nella storia della musica. Nel secondo tempo il programma ha previsto una serie di mazurche di Fryderyk Chopin in una rielaborazione di Pauline Viardot per voce e pianoforte. Una rielaborazione piacevole e ben riuscita direi, dove, tra toni danzanti e melanconici, la pianista e la soprano sono riuscite a esprimere la leggerezza e la melanconia che contraddistinguono allo stesso tempo il noto compositore romantico. E per concludere perché non citare una frase di Liszt per rendere onore al suo bicentenario dalla nascita: "L'uomo respira liberamente, in mezzo a questa natura amica ... egli può amare, dimenticare e godere, come prendendo la sua parte di felicità universale".

Stefano Duranti Poccetti (da ValdichianaOggi, 23 ottobre 2011)

26 novembre, 2011

Il trattato dei manichini


“Il Trattato dei Manichini”, visto a San Gimignano, è uno spettacolo del “TeatroPersona”, gruppo di performer che fa oramai parte della sfera del teatro contemporaneo. È una drammaturgia che si basa molto sull’impatto emotivo sul pubblico, come vuole una parte di quel teatro odierno, basato sulla potenza viscerale delle immagini. È allora chiaro il predominio del creatore dello spettacolo, che, creando una concatenazione di scene apparentemente casuale, è invece sempre lì, “a decidere cosa e in che modo”.D’altra parte il famoso critico ungherese Szondi, ce l’aveva detto nel suo famoso saggio “Teoria del dramma moderno” Che la messa in scena sarebbe stata sempre più contaminata da una mano esterna che pone limiti e paletti.
Questa rappresentazione s’ispira a “Il Trattato dei Manichini” di Bruno Schulz e davanti a noi si aggira sul palcoscenico una bambina, attorniata da visioni, ricordi, sogni, incubi, tutti impersonati da performer dai movimenti frenetici, meccanici. Un’atmosfera onirica è data da un sapiente disegno luci creato da effetti di contrasto bianchi e neri. Lo scenario e i costumi delle attrici danno vita a una scenografia magica e onirica, dove il ritmo offerto dalla musica ci tiene incollati al “teleschermo”, sì, perché più che vedere una rappresentazione teatrale ci sentiamo trasportati dentro la messa in scena da un “effetto - cinema”. Veramente uno spettacolo piacevole, una bella e melanconica unione tra sogno e realtà, delle volte con tentativi da film horror. Quindi “Il Trattato dei Manichini” di Alessandro Serra, con Valentina Salerno, Chiara Casciani, Alessandra Cristiani e Silvia Malandra, è la creazione di un mondo altro, fantastico e tenebroso, dove lo spettatore non può fare a meno di essere catapultato.

Stefano Duranti Poccetti (da ValdichianaOggi, 10 gennaio 2011)

La fine del bene e del male


Due uomini sul palco. Due voci, due entità. Due forze che si contrappongono: la purezza e l’istinto più selvaggio; la ragione e la pazzia; la razionalità e l’impulso naturale. Tutto questo in un dialogo atto a comporre un quadro del malessere del vivere. Parlo della piece teatrale “Insana Opera”, per la prima volta in scena e forse per l’ultima. Si tratta di un pezzo di circa quaranta minuti, tratto liberamente – stravolgendolo – Dal “Caligola” di Camus.
Ciro Gallorano – diplomato alla Libera Accademia del Teatro di Arezzo - interpreta la personificazione di quella parte della vita che ha ancora una speranza, che ha ancora una morale e che cerca di ribellarsi alla bestialità, questa invece interpretata da Luca Bisaccioni – ha studiato presso il Teatro Stabile di Genova - che di questo spettacolo ha curato anche la regia. Una regia che, nella sua essenzialità, ha colto nel segno, con un disegno luci semplice e con una scenografia minimalista, composta praticamente solo da una sedia. Questo ha dato la possibilità di concentrarsi sulla recitazione degli attori e di porre la vicenda in un piano atemporale, dove non sono stati due uomini a confrontarsi, ma due entità, due forze naturali, due filoni dell'umanità. Ben calibrati anche i cambi scena e anche la lunghezza del testo, dove i concetti sono stati espressi a dovere, senza inutili dilungamenti. La punteggiatura del ritmo teatrale è stata perfettamente rispettata e tutti i punti e tutte le virgole sono stati messi con precisione. Da annoverare, accanto a una regia riuscita, la bravura degli attori, indispensabile a una messa in scena incentrata su questa qualità. Mi ha impressionato soprattutto Ciro Gallorano, perfettamente immedesimato nel suo ruolo, dove gli occhi gli si bagnavano nei momenti più lirici e dove la sua tremante ansiosa gestualità entrava in sintonia con la decadenza della sua parte. “Insana Opera” (già dal titolo si capisce il disagio del contenuto), ricorda da vicino il mito letterario del Faust, dove il Diavolo Mefistofele corrompe l’uomo puro e morale. Anche qui è così, con una eterna lotta tra bene e male, ma di un bene vacillante, che contro il male non può niente, e di un male, che forse una volta era stato il bene, mutato poi dalle vicende della vita. Una lotta continua, un dialogo continuo, finito con la morte: solo due colpi di pistola per dare un termine e un sollievo a due anime arrugginite dalla vita, per porre universalmente una simbolica fine al bene e al male.

Stefano Duranti Poccetti (da ValdichianaOggi, 8 febbraio 2011)

La menta sul pavimento di e con Elisabetta di Terlizzi e Francesco Manenti. I quattro movimenti dei Brockenhaus




Così, come una sinfonia romantica è divisa in quattro movimenti, anche lo spettacolo del “Brockenhaus” “La menta sul pavimento”, andato in scena domenica 17 a Sansepolcro nell’Aula Magna di Santa Chiara, segue in qualche modo uno schema analogo. Danza, mimo, musica e poche parole sono stati gl’ingredienti di questo saggio drammaturgico.
Gli spettatori sono stati immessi fin dal loro ingresso in sala all’interno della messa in scena, perché, “accolti” dai due performers, portatori di una cassa di legno, quasi una bara, che hanno obbligato gli astanti a passare sotto quell’arco formato dalla cassa e dalle loro braccia. Tutti si sono messi seduti e lo spettacolo è cominciato senza che i personaggi si trovassero ancora nella zona centrale di fronte allo spettatore, perché, partendo dalla zona d’ingresso, a passo di danza frenetica, solo in un secondo momento la scena si è spostata nella zona “canonica”, ed è così che i due: un uomo e una donna, dipinti di bianco, con parrucche in testa – parevano delle bambole – hanno continuato nel loro “carillon di balli frenetici”, per poi dedicarsi a brillanti giochi mimici. Questo è il “primo movimento”, che io definirei “Frenetico” e contestualizzato da una serie di video, apparsi su un pannello posto sullo sfondo, che hanno fatto comprendere la natura di questo racconto scenico. Il primo video è di retaggio fascista e una voce fuori campo c’informa che chi farà un figlio avrà diritto a delle agevolazioni statali, e che, se il bimbo sarà chiamato Benito, allora sarà ancor meglio. Altro video apparso più volte è connotato da un’altra voce fuori campo: “Signor Presidente, quale sarà il futuro dei nostri bambini?”, il presidente non risponderà mai. Improvvisamente gli attori si spogliano dei loro abiti rimanendo in indumenti intimi (metafora dell’atto amoroso) ed è ben riuscito in questo caso il gioco scenico con l’unico elemento materiale della scenografia: un grande tavolo di legno su cui gli attori danno vita a figurazioni e a geometrici movimenti gestuali e mimici. Si arriva così a quello che potrei definire “secondo movimento”, “Scherzo”, quando l’uomo e la donna si cambiano dei loro abiti e diventano un chirurgo e una paziente in attesa di parto, con tanto di camici verdi e cuffie da medico. In questo caso la donna si trova dentro la cassa, ricoperta appunto dal telo, e da qui il chirurgo cerca di svolgere in suo lavoro, che si delinea in modo comico e divertente, tanto è vero che dalla cassa – quindi dal parto della donna – viene fuori di tutto, tranne il bambino tanto cercato: una miriade di bambolotti neri, Topolino, una corda di bandiere e un grande spago, tutte cose partorite dall’attrice, che in questo frangente intona nota liriche. Da quest’aria di commedia si giunge però improvvisamente ad una completamente diversa, che contrassegna il “terzo movimento”, “Drammatico”, in cui l’uomo, non riuscendo a trovare nulla di sé dentro la sua donna s’irrita a tal punto da dar luogo a degli scatti nervosi che si agitano nell’intero spazio scenico. La donna in questo caso si comporta come una femme fatale, che sembra disinteressarsi dello stato dell’attore, tanto è vero che ella riappare, dopo una rapida uscita scenica, insieme a un “pupazzo - personaggio”: un mostro dalla faccia di cavallo e vestito con un mantello nero – la morte. Egli è forse l’amante della donna, tanto è vero che insieme compiono una danza passionale e, poco dopo, lo stesso mostro serve all’uomo un bicchiere di vino: il “bicchiere della morte”, che l’uomo berrà dopo che la donna abbia cantato delle strofe terrifiche. Sarà il bere quel “veleno” la sua fine, tanto è vero che egli cade a terra da sopra il tavolo morto. L’ “ultimo movimento” è quello che io definisco “Lirico”, perché la donna, presa forse dai sensi di colpa, va ad abbracciare e a coccolare il “suo uomo”, che, dopo che sono stati proiettati dei melanconici video con foto di bambini in bianco e nero ricoperte da foglie, si risveglia dal decesso danzando con la sua donna. Si tratta forse solo di un ricordo di tempi felici? Non saprei, ma queste danze liriche sentimentali segnano la fine di questo percorso drammaturgico.Uno spettacolo sicuramente organico in cui si è distinta la bravura dei costruttori dello messa in scena e degli attori: ottimi danzatori, mimi e anche cantanti, ma è anche uno spettacolo il cui senso rimane in qualche modo un mistero: si tratta forse di una invocazione al rispetto  dell’infanzia? Può darsi; si tratta delle difficili relazioni che intercorrono nell’odierna società tra uomo e donna, dove la donna sembra avere preso il sopravvento? Può darsi; si tratta ancora dell’inevitabilità di perdere la purezza dell’infanzia nell’età adulta? Può darsi. Posso parlare allora di uno spettacolo molto piacevole a livello estetico e tecnico – benché si possa osare ancora di più dal finale, la cui forza non arriva come dovrebbe, trattandosi di una semplice danza di passaggio da cui ci si aspetta uno sviluppo, ma non una chiusura – ma non posso dire altrettanto dell’espressione dei contenuti, non per la loro inesistenza, ma per il loro troppo caotico (ricercato?) pluralismo.


Stefano Duranti Poccetti (da ValdichianaOggi, 26 aprile 2011)

Mayes, Afonso, Ferri, il Tuscan tra pittura e fotografia


Poesia e colore, questi gl'ingredienti di Edward Mayes e di Alberto Alfonso, artisti che in occasione del "Tuscan Sun Festival" espongono le loro opere a "Sant'Agostino". Sono dipinti di grandi dimensioni – perlomeno quelle di Edward Mayes – dai colori fantasia che s'incastonano tra di loro grazie a giochi geometrici, in cui risultano scritte poesie in inglese accompagnate da piccoli ritratti di scrittori (purtroppo in sala non ci sono cartelli con le traduzioni in italiano e questa è una mancanza).
Alberto Alfonso
Sono opere di buon impatto emotivo che nascono anche da una distinta idea di unire Poesia e Arte pittorica; anche Alberto Alfonso compie il medesimo processo creativo rivolgendosi però a un modo di dipingere meno astratto e più figurativo, arrivando in alcune delle sue opere a una concezione classica della figura. In altre creazioni si diletta invece nell'inventare piccole bacheche in cui all'interno poesie si uniscono a giochi di colore simili a quelli di Mayes, con anche un'altra componente aggiuntiva: quella dei giochi di luce naturale, una luce filtrata da delle apposite fessure poste sul lato copritivo della bacheca.
Fabrizio Ferri
Nelle sale del museo MAEC espone invece Fabrizio Ferri, famoso fotografo italiano che intende, tramite la sua fotografia, mettere in risalto l'espressione della personalità umana tramite il gesto, ed è per questo che i suoi soggetti sono ripresi perlopiù dal mondo della danza, dove personaggi come Roberto Bolle e Alessandra Ferri diventano oggetti di espressione emotiva tramite la posa e appunto il gesto. Sono fotografie che paiono quasi dei dipinti. A primo impatto mi sono chiesto se si trattasse di foto o di iperrealismo pittorico e mi hanno veramente attratto quelle tinte cromatiche così emozionali e intense.


Stefano Duranti Poccetti (Tuscan Sun Festival 2011, da ValdichianaOggi)

Schubertiade, al Saloon con gli artisti




Un'atmosfera da saloon: seggiole, poltrone, un tavolo con bottiglie e bicchieri di vino rosso (realmente bevuto dai musicisti). Questo lo scenario di "Schubertiade. La vita di Schubert raccontata e illustrata", uno spettacolo di teatro-musica sulla vita del grande compositore Franz Schubert andato in scena ieri sera al "Tuscan Sun Festival". È stata Greta Scacchi a presentare il tutto che, nei panni della baronessa e scrittrice Madame de Staël, si è dimostrata veramente brava nell'intrattenere il pubblico, parlando un mix di lingue che sono oscillate dall'italiano, all'inglese, al tedesco.
Altro attore era presente, Nicola Bibi Ciammarughi, che ha vestito i panni di Robert Schumann, recitando amabili parole che Schumann spese su Schubert, ritenendolo all'epoca un grandissimo compositore, per certi versi superiore allo stesso Beethoven. Ottimo Frank Braley al pianoforte sia nel brano solistico "Impromtu n. 1 in Do minore, op.90", sia nelle composizioni liederistiche accompagnato dal Baritono Werner van Mechelen ("Der Tod und das Mädchen" – La morte e la fanciulla - è stato veramente interessante), sia nel "Quintetto per pianoforte e archi in La maggiore 'La trota', con Michael Guttman ed Eleonore Darman al violino, Anton Martynov alla viola, Diana Ligeti al violoncello ed Enrico Fagone al contrabbasso, questi ultimi quattro anche artefici di alcuni brani di due quartetti Schubertiani – il "Quartetto n. 14 in Re minore 'Der tod und das Mädchen'. 2°movimento" e il "Quartetto n. 12 in Do minore, o, postuma. 'Quartettsatz'".
A differenza dei quintetti di Schumann e Brahms, di cui ho già parlato in scritti precedenti, in cui i musicisti si "muovono" tutti in modo organico e armonico, cercando appunto di diventare da cinque uno, nei quintetti di Schubert ogni strumento mantiene la sua personalità, tanto è vero che essi si possono distinguere bene tra di loro. Tutti hanno il loro momento di protagonismo e nessuno di loro è lasciato in secondo piano. Sempre chiara e brillante la musica del compositore austriaco, farcita di sentimentale romanticismo, ma scorrevole e ispirata come un pezzo settecentesco.
Non ho molto da dire su questo spettacolo. Mi è piaciuto, tutto ben riuscito e sarebbe inutile scrivere una pagella per ognuno quando per ognuno è positiva, mi limito soltanto a dire: "Complimenti a tutti!".
E così si conclude per quest'anno la mia esperienza del "Festival del sole Toscano", perché degli impegni mi terranno lontano dagli ultimi due spettacoli della rassegna musicale. Spero che le mie recensioni siano state apprezzate. Ammetto che delle volte sono un po' troppo critico, ma, d'altronde, che senso avrebbe essere un critico senza criticare mai, come fanno in molti ai nostri giorni? D'altra parte, quando si ama una cosa, la si vuole perfetta. Io amo l'Arte e non mi stancherò mai di analizzare tutti gli errori che la distolgono dal raggiungimento della perfezione.

Stefano Duranti Poccetti (Tuscan Sun Festival 2011, da ValdichianaOggi)

È Simon Trpčeski il vero protagonista, il “vero” Chopin


Due soli i nomi: quelli di Simon Trpčeski e di un pianoforte, il suo pianoforte. Sono stati loro i veri protagonisti ieri sera, per il tanto atteso spettacolo del "Tuscan Sun Festival" "Seduction, smoke and music. The story of Chopin and George Sand" (Seduzione, fumo e musica. La storia di Chopin e George Sand); un innesto di teatro e di musica sulla vita del grande compositore e pianista polacco. Sinéad Cusack nei panni di George Sand e Jeremy Irons in quelli ci Frédéric Chopin non hanno per nulla entusiasmato.
Si muovevano sul palcoscenico con il copione in mano e stavano più a guardare quello piuttosto che il pubblico e la loro recitazione declamativa, estetica e per niente immedesimativa non è certo arrivata al cuore dei presenti, dove anche quelle battute che avrebbero dovuto avere un tono drammatico sono state fatte diventare ostentate e anche quasi farsesche. Durante la recitazione, per la verità molto noiosa e statica, si sono susseguiti dei brani musicali, in cui si è esibito il bravissimo Simon Trpčeski, capace di arrivare sempre al fulcro della sacra energia e lirica chopeniana, accompagnato delle volte dalla violoncellista Nina Kotova, un po' fredda a dire il vero con il suo strumento, delle volte invece dai bravi ballerini Irina Dvorovenko e Maxim Beloserkovsky, di cui ho apprezzato il talento, pur riconoscendo una certa fatica della musica chopiniana ad entrare in contatto con questa soluzione gestuale artistica e ho visto in certi frangenti anche lo stesso Trpčeski costretto a piegarsi al volere della danza piuttosto che al volere di Chopin, ma quando è stato chiamato in causa da solo ci ha deliziato di alta classe pianistica e tra "preludi", "notturni", "walzer", ha tenuto i nostri cuori inchiodati sulla tastiera, con un'interpretazione fedele, pulita, appassionata. Interessante è stato vedere portare in scena quei pezzi per violoncello e pianoforte non molto famosi del maestro polacco. Esempio è la "sonata per violoncello e pianoforte in sol minore, op. 65", dove i due strumenti dialogano tra di loro con grande leggerezza e sensibilità.
Uno spettacolo che è parso perlopiù improvvisato, messo in scena senza un'idea ben precisa e il nome di un attore famoso non può certo bastare a risollevare le sorti, se il nome non è unito alla qualità. Per fortuna c'è stato Simon Trpčeski, il vero (unico) protagonista della serata. Se prendessimo una bilancia e se ponessimo da una parte il bravo pianista e dall'altra tutti gli altri insieme all'intera concezione dello spettacolo la bilancia penderebbe dalla sua parte: sarebbe lui, da solo, il vincitore e salvatore della serata per uno spettacolo che immagino anche lo stesso Chopin non avrebbe potuto tollerare.

Stefano Duranti Poccetti (Tuscan Sun Festival 2011, da ValdichianaOggi)


La "Zukerman" non delude, cinque per uno, uno per tutti


Cinque i nomi: Pinchas Zukerman, Jessica Linnebach, Jethro Marks, Amanda Forsith e Angela Cheng. Cinque grandi musicisti che ieri sera sono diventati uno. Uno perché si sono trovati tra di loro in un modo tanto armonico da far sembrare che un solo musicista fosse sul palco. Mi resta veramente difficile per questo motivo dare un giudizio a ogni singolo, visto che non mi pare possibile parlare di uno senza l'altro, ma impegnandomi comunque in questa impresa non ho da rilevare niente di negativo in ciascuno, dove tutti sono riusciti a esprimersi al meglio.
La serata è cominciata con il "Duo per violino e viola n. 2 in Si bemolle" di Mozart, in cui Jessica Linnebach al violino e Jehtro Marks alla viola hanno saputo rendere al meglio quella "leggera" (non nel senso superficiale del termine, oserei dire piuttosto nel senso calviniano), spontanea e piacevole gaiezza della musica di corte viennese settecentesca. Per i brani successivi è poi entrata in scena il resto della "compagnia" – Pinchas Zukerman & Zukerman chamber players. Così, per il "Quintetto per pianoforte e archi in Fa minore, op. 34" di Brahms, si sono uniti ai due musicisti il grande maestro Pinchas Zukerman al violino, Amanda Forsith al violoncello e Angela Cheng al pianoforte. L'esecuzione non ha deluso e la musica solenne e precisa del compositore tedesco ha risuonato nel Teatro Signorelli, dove il chiarissimo violinismo di Zukerman, unito all'ottima esibizione del resto dei musicisti, tra cui mi piace ricordare Angela Cheng, sempre pulita sulla tastiera, non ha di certo deluso, ma anzi entusiasmato, rendendo accessibile al pubblico un pezzo piuttosto impegnativo, quale è appunto questo quintetto. Impegnativo anche l'ultimo brano in programma: "Il quintetto per pianoforte in Mi bemolle maggiore, op. 44" di Schumann. Qui la poesia, l'intimità, il romanticismo, l'estro e l'ispirazione del grande maestro romantico hanno regnato, non senza l'aiuto di ancora un'eccellente dimostrazione dei musicisti, sempre attenti alle aspettative dell'autore dello spartito e non sarà inutile allora ancora ricordare le distinte esibizioni di Zukerman e di Angela Cheng e neanche quella di Amanda Forsith, di cui ancora ingiustamente non ho parlato, una colpa la mia, visto che anche lei, come il resto della compagine, non è stata per nulla da meno e il suo violoncello si è amalgamato perfettamente agli altri strumenti. Tanti applausi per questa serata e nessun bis, purtroppo, sicuramente per l'eccessiva lunghezza dei singoli movimenti. Che dire? Una Lode a tutti.

Stefano Duranti Poccetti (Tuscan Sun Festival 2011, da ValdichianaOggi)

Una bella prima ma la stella Argerich non brilla, anzi non può brillare


Il talento di Martha Argerich confuso tra i ritmi del tango; Dov’era Martha Argerich?, Nestor Marconi e Alejandro Petrasso, i veri protagonisti della serata … questi sono alcuni dei titoli che mi sono venuti in mente vedendo lo spettacolo di ieri sera, iniziatore del Tuscan Sun Festival, dove la tanto attesa pianista Martha Argerich si è cimentata in un’esibizione nel segno del tango, con musiche, tra l’altro, di Piazzolla, Marconi, Bacalov e Hubert, questi ultimi tre anche presenti sul palco come esecutori.
Dai titoli che prima ho citato si capirà che non sono rimasto soddisfatto di Martha Argerich, e questo non perché la sua esecuzione non sia stata buona, ma per il semplice fatto che da una delle più grandi pianiste della nostra epoca mi sarei aspettato un repertorio più consistente. Da quello che si è visto ieri sera infatti non è possibile a mio avviso rilevare il vero pregio dell’ Argerich, che è rimasto nascosto dietro i brani del tango, ricchi di ritmie, ma non adatti per intravedere la profondità del vero talento. Sono state tutte musiche dalla grande variazione ritmica, timbrica e cromatica, un tipo di soluzione musicale perlopiù diversa da quella della musica colta, a cui l’Argerich deve la sua fama. La sua esibizione: buona, è stata così sovrastata da “quelli che del tango se ne intendono”, come il bandoneonista Nestor Marconi o come il pianista Alejandro Petrasso, che nei brani per due pianoforti Taquito Militar di Mores e Nueve de julio di Padula – eseguiti insieme alla grande pianista argentina – ha dato prova di una grande qualità interpretativa, energica e dinamica. L’Argerich insomma non è assolutamente da bocciare, ma si può certo dire che la sua prova sia stata offuscata dai suoi “amici” (d’altra parte il gruppo si chiama “Martha Argerich & friends”).
Come ho detto è stata ottima anche la prova di Nestor Marconi, che con il suo bandoneon (uno strumento in qualche modo simile alla fisarmonica), ci ha fatto assaporare tutto il suo talento e la sua esperienza, e ricordo a proposito il brano solista Tributo a Piazzolla, ricco di poliritmia, ma anche di liricità. Buona anche la prova dell’orchestra della “Camerata di Parigi”, diretta da Eduardo Hubert, forse solo un po’ indecisa e disorganica nella Suite Baires di Luis Bacalov, in veste sia di compositore che di pianista, molto meglio nella veste del primo che della seconda, perché nonostante le distinte doti tecniche sembra più attento allo spartito che al piacere di suscitare emozioni. Non mi dimentico neanche di complimentarmi con il bravo violinista Michael Guttman ed è stato veramente piacevole Escualo di Piazzolla, eseguito da lui insieme a Marconi ed Enrico Fagone, ottimo al contrabbasso.
In definitiva un segno positivo per questa prima serata, che è riuscita a immergermi nella magica e melanconica atmosfera del Tango.


Stefano Duranti Poccetti (Tuscan Sun Festival 2011, da ValdichianaOggi)

25 novembre, 2011

La magica sinfonia del Trattato dei manichini



Una bambina si aggira per il palcoscenico; visioni e incubi dal forte impatto emotivo si susseguono ininterrottamente.
E' questo lo scenario de “Il Trattato dei Manichini” di Teatropersona, compagnia di Civitavecchia formatasi nel '99 e vincitrice, nel 2008, del Premio della giuria degli studenti allo Scenario Infanzia con “Il Principe Mezzanotte”.
Questa volta lo spettacolo, anche lui premiato dal Lia Lapini e dal bando Eti di Nuove Creatività, è ispirato al lavoro omonimo dello scrittore polacco Bruno Schulz. L'infanzia è lo spunto per una narrazione d’intensa poesia, dove l'età che dovrebbe essere più spensierata diventa la lente d’ingrandimento di un mondo “ricordato e dimenticato”.
In un concatenarsi di scene e sequenze, quasi cinematografiche, il dramma raggiunge effetti di grande pathos sul pubblico. L’uso del disegno luci è sapiente, e gioca su forti contrasti tra bianco e nero, che, uniti alla forte espressività dei performer, danno vita a un’atmosfera magica, in cui la musica – che scandisce il ritmo come un perfetto direttore d’orchestra – insieme a rumori, silenzi e assenza di parole danno vita a una vera e propria sinfonia.
Tutto è costruito favorendo la forza espressiva ed emozionale dell’immagine. Ma non è solo l’aspetto viscerale il punto centrale dello spettacolo. In questa messa in scena emerge infatti il bisogno di trovare un significato. Cosa sono quei manichini? Cosa rappresenta la bambina? Lo spettatore vuole sapere cosa si nasconde dietro ciò che vede. Ed è qui che allora quelle figure, a tratti irreali, a tratti meccaniche e frenetiche, sembrano rappresentare le visioni, gli incubi, i sogni, i ricordi funesti di una bambina poi diventata donna. E sono proprio quelle visioni, quegli incubi, quei “manichini”, a fare della bambina una donna che sembra essere stata spogliata dell’anima e dello spirito, rimanendo solo corpo: un corpo distrutto, spogliato dell’anima, forse rubata da una società troppo rigida.
 La “sinfonia” di Alessandro Serra, pur nel suo fascino, ha però alcune debolezze. Lo spettacolo risulta a tratti frammentario; e si “gioca” l'effetto suspense, che forse potrebbe essere creato attuando qualche scelta differente. Piccole lacune che in parte danneggiano quell’impatto emotivo per cui il lavoro si contraddistingue.
Ad ogni modo pare di assistere a una proiezione magica, che ingloba lo spettatore dentro di sé: un mondo altro, allo stesso tempo vicino e lontano dalla realtà. E la scena in cui un corpo femminile dialoga, in un gioco lirico e convulso, con i tendaggi resi neri e bianchi dalla luce, sembra quasi un melanconico rapporto tra questi mondi, fraterno eppure così conflittuale.

Stefano Duranti Poccetti (da Krapp's Last Post)

I giochi d'ombre senza parole di Riserva Canini


Come mettendo l’occhio al caleidoscopio, in cui visioni passano imprevedibili e magiche, così in “Talita Kum”, di Valeria Sacco e Marco Ferro, spettacolo che ha debuttato lo scorso 2 aprile al Teatro dei Ricomposti di Anghiari, le immagini sono le vere protagoniste: nessuna parola per l’intera messa in scena, e l’unica altra fonte di comunicazione è la musica.

“Talita Kum” – citazione dal Vangelo secondo Marco che significa: “Fanciulla, io ti dico: alzati!” – è una storia, quasi una favola, in cui i protagonisti sul palcoscenico sono due, anzi tre, anzi uno… e si capirà quest'incertezza nel definirli strada facendo.

Intanto, gli unici abitanti dello spazio scenico appaiono un’inquietante figura vestita e mascherata di nero e una fanciulla, vestita in abito rosso, che oscilla dall’essere una bambola a una creatura in carne e ossa. Ma c'è un altro elemento co-protagonista: come dimenticare, infatti, quella valigia che sta sul palcoscenico e che i due protagonisti non tralasciano mai di portarsi dietro? E’ questo il terzo personaggio, in grado di racchiudere tutta l’essenza della felicità, forse oramai caduta nell’oblio - due ramoscelli di fiori, una mela, un ananas, una brocca di acqua, una sciarpa e delle scarpe eleganti femminili - tutti elementi che ricordano la freschezza della natura, della bellezza e della gioia del vivere.
Ma il finale del dramma ribalterà le apparenze, spingendo a riconsiderare il rapporto tra le due presenze umane, che si riveleranno immagini di un’unica identità. Rieccoci allora ad un solo personaggio: una donna e i suoi incubi.
L’intera pièce si basa su questo, sulla relazione e sul dialogo che la giovane donna ha con questo “mostro nero”, un incubo come la morte o un infausto passato. Un rapporto frenetico e doloroso, come le danze che i due attori ballano all’inizio, dove la donna, ridotta a bambola, sembra essere una vera e propria schiava in balìa del suo “carnefice”.

A poco a poco però la relazione si svilupperà, e i “due” cominceranno a stabilire un equilibrio di pace e tolleranza, fino a giungere al punto di ballare un lieto walzer o di carezzarsi in una candida ninna nanna.
Così, quei fasci di chiara luce proiettati sul buio sfondo nel finale non sono altro che metafore che suggeriscono la fine dell’oscurità, l’uscita dall’incubo, il placarsi della tempesta.

Tolta la maschera nera, la fanciulla riconquisterà la propria integrità, sarà padrona di sé e dei suoi arcani e inquietanti percorsi interiori.
Il finale ricollega passato e incubo alla realtà, l’assoluzione dei tormenti e delle sofferenze è il viatico per rialzarsi.
Valeria Sacco e Marco Ferro, fondatori nel 2004 della compagnia Riserva Canini, superano la prova drammaturgica componendo un’ottima costruzione visionaria dello spettacolo, in una ritmia perfetta d’immagini.
Il disegno luci, sempre sapiente, crea quadri cromatici dal giallo al rosso al glauco, dando vita anche a giochi di ombre cinesi. Proprio questa serie d’effetti, arricchiti da un uso psicologico della musica a rendere la visione avvincente, scatena una forte presa emotiva e una tensione quasi ipnotica.

Stefano Duranti Poccetti (da Krapp's Last Post)

Jane LaFarge Hamill. Il contrasto tra natura e società


Dipinti di donne seminude, o nude completamente; sguardi, corpi, atteggiamenti, movimenti – che nascondono sempre qualcosa di malinconico.  Questo è lo scenario appeso alle pareti della ex chiesa di San Carlo Borromeo, eretta nel 1620 dai Lombardi, per un’ennesima mostra, la cui scadenza è fissata per la fine di settembre, organizzata dalla Galleria Triphè e curata da Maria Laura Perilli. Sono di una giovane artista questi dipinti, di una giovane artista americana nata a Princeton e attiva a New York. Si tratta di Jane LaFarge Hamill, che fin da giovanissima fu interessata all’Arte pittorica e che ora sta cominciando, nonostante la giovane età, a farsi un nome nella grande città americana e, evidentemente, anche fuori. Le sue figure femminili vogliono esprimere melanconia, ma anche speranza; speranza di una non morte della natura. Il significato infatti di quelle donne per metà vestite e per metà nude, va ricercato proprio in una società che cerca di togliere all’essere umano la sua libertà, la sua primordiale natura, ma non può riuscirci completamente! Le donne di Jane infatti si ribellano a questo e delle volte lo fanno con veri e propri fucili in mano, delle volte con atteggiamenti disinteressati, ma, altre  volte si vedono prese dallo sconforto e si ritrovano tristi e rannicchiate per terra. La poetica della pittrice americana ha allora stretto legame con la moderna società di massa e dei consumi, che non permette all’umanità di trovare essenza e individualità, ma, nonostante questo, Jane, con la sua Arte, vuole mostrare tutta la sua volontà di non arrendersi e di continuare a lottare sempre con grande forza e speranza.

Stefano Duranti Poccetti


Luciano Radicati. Il tutto per il tutto

Luciano Radicati è un artista aretino nato nel 1949 che, dopo una vita che l’ ha portato ad aprirsi alle più importanti correnti artistiche, ha deciso ormai da un po’ di tempo di stabilirsi nella provincia natale. Le sue opere sono ora in mostra a Cortona, nel palazzo “La Moderna”, dove saranno fino al 18 agosto. È molto vasta e variegata la produzione artistica di Radicati, non è quindi facile fare un discorso sintetico su di lui. Nei suoi dipinti, quasi tutti a pastello su carte trattate riportate su supporti lignei, rivive intensamente l’intera storia dell’Arte, dal primitivismo alla metafisica, dall’astrattismo al surrealismo. L’autore però compie un processo creativo che supera tutto questo, a favore di un linguaggio personale molto suggestivo, che ha nella forma e nel colore i suoi capisaldi. Le opere di Radicati sono infatti di grande impatto emotivo e spirituale, grazie a un uso del colore sapiente e di una geometrizzazione della forma tramite la quale il pittore raggiunge l’equilibrio del dipinto in tutte le sue parti e una perfetta compattezza materica. Altra produzione dell’artista aretino sono i suoi gioielli fatti per mezzo di un’antica tecnica, la cera persa del tipo a sciacquo, che offre a questi oggetti un sapore quasi arcaico, facendoli sembrare veramente di epoche molto antiche, anche se sono assemblati con materiali e oggetti moderni. È poi importante un’altra produzione del pittore, quella dei “giocattoli”, dove il giocattolo riprende la sua più alta dignità. Questi sono montaggi dell’autore in cui semplici oggetti del quotidiano prendono una struttura artistica, ricordando in qualche modo quei nobili giocattoli futuristi di De Pero, che raggiungono però con Radicati un più alto grado di astrazione. Radicati è quindi un pittore soprattutto spirituale e simbolico. Tutti i suoi disegni, tutte le sue forme rimandano sempre a qualcosa d’irraggiungibile e anche di misterioso, ed è proprio questa ambiguità che lo rende importante nel panorama dell’Arte visiva.    

Stefano Duranti Poccetti (da Il Nuovo Corriere Aretino)

Il maestro dei graffiti a Cortona


Il famoso pittore graffita Daze ha dato prova, durante l’ottava edizione del Tuscan Sun Festival, della sua abilità di pittura, tramite l’utilizzo di maschera e bombolette spray.
Si è potuto assistere alla sua mostra dal 30 luglio al 6 di agosto, nel periodo appunto del Festival. Daze, nome d’Arte di Chris Ellis, è nato a New York nel 1962. Già da teenager se ne andava, di notte, in giro per le stazioni metropolitane della città a colorare le fiancate dei treni e per questo fu uno dei primi “Train Bombers”. Il messaggio di questi artisti era quello di dare un colore in più alla città, creando così un vicino contatto con i giovani, contando anche che questa “corrente” s’inseriva nel contesto musicale di quegli anni: new wave, hip hop e rap. Nella sua vita Daze ha conosciuto altri grandi artisti di valore come Harings e Basquiat, tutti uniti dalla stessa intenzione artistica.
A Cortona il pittore americano ci ha deliziato con una sua bella esposizione di opere molto colorate, formali e, come si usa per i graffiti, con molte scritte. Poi, cosa ancora più interessante, sono state le sue esibizioni dal vivo. In una di queste Daze, davanti a un gruppo di spettatori, in piazza Signorelli, ha dipinto su una tela un volto di donna, stilizzando una fotografia in suo possesso, dandole alla fine quel sapore graffita, tanto ingenuo e grande allo stesso tempo, quando si parla di mani di grandi artisti. Interessante anche la seconda esibizione, in cui l’artista ha dipinto una vespa, potendo così usare un vero supporto da pittori che seguono questa corrente. Va evidenziato di come Daze, con la sua grande umiltà, si sia fatto ben volere da tutti nella città, parlando sempre con piacere con chiunque glielo chiedesse, e questo è un segno da non trascurare e che non si ritrova in tutti. La rassegna musicale del Festival del Sole Toscano non è stata così l’unica nota artistica della manifestazione. Le opere di Daze dimostrano come anche l’Arte della pittura abbia contribuito all’importanza di questo evento.

Stefano Duranti Poccetti (Tuscan Sun Festival 2010)

Pier Augusto Breccia. Il meraviglioso e mistico mondo dei balocchi

Dal 31 maggio al 25 giugno, a Cortona, nel Centro espositivo di S. Agostino, si potranno ammirare le opere di un importante artista italiano. Sto parlando di Pier Augusto Breccia, nato a Trento il 12 aprile 1943, noto, non solo per la sua notevole attività artistica, ma anche per la professione di cardiochirurgo, che ha esercitato fino al 1985, anno in cui decise di dedicarsi esclusivamente alla pittura. 
La mostra è intitolata “Mondo Altro” e quando entriamo all’interno di queste stanze ci troviamo veramente in un altro pianeta, contornati da grandi dipinti che sembrano quasi volerci inglobare al loro interno. I quadri sono molti e diversi tra di loro, ma tutti sono segnati da un disegno pulitissimo, da colori compatti e nitidi e da un disegno geometrico perfetto. Riecheggiano concetti filosofici e mitici, offerti attraverso le immagini o anche da scritte simboliche: il logos, la verità. Breccia ci apre le porte del sogno, dell’essere e dell’intero esistenzialismo. Ogni opera del pittore meriterebbe un discorso a parte, perché anche se tutte simili dal punto di vista formale, sono molto diverse nei contenuti ed eppure, nonostante questo, danno luogo, amalgamate tra di loro, a un perfetto mondo organico e armonioso.
È molto difficile la lettura di queste opere. Ci sono le citazioni di altri artisti, ma non bastano; ci sono la metafisica, il surrealismo, l’astrattismo, l’arcaismo …, ma tutto questo non basta per avere la giusta concezione della pittura di Breccia; potremmo parlare di una grande storia della storia dell’arte, ma anche questo non basterebbe per avere una visione completa dell’Arte brecciana.
Breccia va alla ricerca della verità, di una verità che si sprigiona attraverso il gioco, il mito, il logos. L’arte del pittore trentino è filosofica e anche questo termine non mi sembra appropriato per definirla. L’universalità è comunque il senso di tutto questo, l’universalità della verità. Ed è proprio questo il concetto della “pittura ermeneutica”, invenzione dello stesso artista: è un andare alla ricerca della verità attribuendo alla forma quella sostanza che nell’arco dei secoli aveva perso: il significato e il concetto. Sì, perché per Breccia la forma non può sottrarsi al significato e il significato alla forma ed è così che si giunge, attraverso un “riassunto dell’universo”, alla verità, all’ essenza, alla profondità delle cose, senza peraltro mai cadere nell’oggettivismo, ma lasciando all’individualità di ognuno di perdersi in questo universo. La cosa incredibile è come tutto questo ci risulti da una parte così chiaramente comprensibile, mentre dall’altra così chiaramente incomprensibile, ed è per questo che da una parte ci troviamo estraniati e dall’altra immedesimati davanti a questo meraviglioso e mistico “mondo dei balocchi”.


Stefano Duranti Poccetti



Uno Sting/Schumann

L’atteso Sting arriva finalmente a Cortona in occasione dell’ottava edizione del Tuscan Sun Festival e la sua esibizione di ieri sera è apprezzata dal pubblico. Non si presenta nella veste che tutti conoscono, quella di cantante, ma in qualità di attore, nel Ruolo di Robert Schumann, nella piece teatrale “Twin Spirits”, ideata da John Caird e presentata per la prima volta nel 2005. Questo è uno spettacolo recitativo e musicale che ritrae la vita del grande compositore tedesco (1810-1856) e della moglie Clara Wieck (1819-1896 ), mettendo in luce il loro reciproco e profondo amore. Gli altri attori partecipanti sono Charles Dance, attore britannico, in questo caso nella parte del narratore della vicenda, e Trudie Styler, attrice e moglie di Sting, nel ruolo di Clara. Le narrazioni e i dialoghi teatrali sono inframezzati da brani musicali, quasi tutti tratti dal repertorio schumanniano, eseguiti dagli altri protagonisti della serata: il grande violinista Joshua Bell, la pianista Natasha Paremski, la violoncellista Nina Kotova, la soprano Laura Claycomb, il baritono John Chest, e poi, curiosità della serata, dal direttore del Festival Barrett Wissman in qualità di secondo pianista, tra l’altro artefice di una buona esecuzione. In una bella scenografia, segnata dai due pianoforti contrapposti tra di loro con il narratore Dance al centro, il gruppo maschile a destra, quello femminile a sinistra, con un suggestivo disegno luci tendente al viola, ha luogo questo bel dialogo tra attori e musicisti in una rassegna ininterrotta di note e parole. Tra i brani eseguiti si annovera “Träumerei”, suonato dai due pianoforti, il violino e il violoncello; i lieder - canzoni – dai “Dichterliebe”, in cui si è distinta la voce del Baritono  John Chest, con brani come: “Die rose, die lilie, die taube” o “Ich grolle nicht”; per uscire invece dal repertorio schumanniano si ricorda il duetto “Là ci darem la mano” dal Don Giovanni di Mozart. Molti avrebbero sicuramente preferito vedere Sting in altre vesti, quelle vesti di cantante che l’hanno reso una star internazionale, prima cantando con il famoso gruppo “The Police” e poi intraprendendo una carriera individuale. L’ospite di onore di quest’anno è comunque stato gradito e applaudito e il Teatro Signorelli di Cortona si è visto esaurito per salutare la performance di questo artista internazionale.

Stefano Duranti Poccetti (Tuscan Sun Festival 2010, da Il Nuovo Corriere Aretino)

Il sogno di Nobuyuki Tsujii

Il toccante pianismo di Nobuyuki Tsujii e l’elegante tecnica violinistica dell’appena sedicenne Chad Hoopes danno luogo alla seconda serata dell’ottava edizione del Festival del Sole Toscano.
L’orchestra dei “Sinfonici del Maggio Musicale Fiorentino” è artefice di un’ottima prova, diretta da Julian Kovatchev, capace di guidarla in modo sicuro e fluido. Questo si nota fin dall’inizio, quando nella “Sinfonia in Sol maggiore n. 37” di Mozart tutto risulta ben organizzato e organico. L’orchestra ha eseguito questo brano in maniera pulita, lasciando gli spazi al respiro della composizione. E così continua bene per tutta la serata la direzione del maestro, anche quando deve accompagnare l’atteso pianista giapponese. Egli, cieco fin dalla nascita, nato con la capacità d’imparare pezzi musicali, anche molto complicati, a orecchio, suona in modo brillante, commovente e anche, in qualche modo, romantico il “Concerto in Re Maggiore no.26”, sempre del compositore austriaco. Se chiudiamo gli occhi mentre suona, riusciamo a entrare ancora di più nel suo mondo, nel suo universo di poeticità, di liricità, di particolari sensazioni, nel suo universo posto su un piano superiore a quello umano. Molto interessante l’uso del pedale, usato in modo da sfumare in modo sentimentale l’intero concerto, offrendo quella emotività che spesso è assente nella musica settecentesca. Gli applausi del pubblico sono continui e incessanti, forse si spera in un bis, che purtroppo non arriva. Si chiude così la prima parte dello spettacolo. La seconda è dedicata a “Le quattro stagioni di Vivaldi”, concerto più volte portato al Festival. Quest’anno l’esecuzione solista tocca al giovanissimo violinista Chad Hoopes, accompagnato dalla narrazione dei sonetti, scritti probabilmente dallo stesso Vivaldi per queste musiche, da parte dell’attore Charles Dance. Veramente buona la prova di Chad, sia dal punto di vista interpretativo che tecnico, autoritario sul palco, nonostante la sua giovane età. Egli non ha neanche dimenticato di deliziare il pubblico con due bis, uno da Telemann e uno da Paganini, l’uno lirico, l’altro virtuoso, ma entrambi suonati con efficacia. Dopo l’apertura quindi è andata bene anche questa seconda serata dove è notato anche un aumento degli spettatori, a cui, scrive Vivaldi, il sonno allieterà la piacevolezza passata : “Celebra il Vilanel con balli e Canti/del felice raccolto il bel piacere/ e del liquor de Bacco accesi tanti/ finiscono col Sonno il lor godere”. 

Stefano Duranti Poccetti (Tuscan Sun Festival 2010, da Il Nuovo Corriere Aretino)

Renée Fleming non smentisce le attese

Renée Fleming

L’attesa soprano Renée Fleming offre al pubblico una grande una prova d’Arte e di personalità e se ne va così anche la terza serata del Tuscan Sun, giunto a metà della manifestazione.
Presentandosi sul palco con grande eleganza Renée delizia e commuove l’intero pubblico di Piazza Signorelli. Esegue molto bene l’intero repertorio dello spettacolo, da Bizet a Giordano; da Leoncavallo a Strauss. Riesce a essere lirica in “J’ai versé le poison dans cette coupe d’or”, dalla Cléopatre di Massenet e in “Ah! Je ris de me voir si belle en ce miroir” dal Faust di Gounod, come spensierata e ingenua- nel senso più alto del termine – in “Mimì Pinson, la biondinetta” dalla Boheme di Leoncavallo. Canta con freschezza tutte le arie, dimostrando grandi doti canore, che la portano ad affrontare con facilità tutti i registri. Le sue doti interpretative sono più vicine a quelle di un’attrice piuttosto che di una cantante tanto che la sua sapienza gestuale del corpo e del volto la porta a un vicino contatto emotivo con il pubblico. Tutti i pezzi da lei cantati sono prove magistrali: Massenet, Gounod, Leoncavallo, Strauss, Grusin, Loewe, questo è l’ordine degli autori cantati, senza dimenticare fuori programma quali “O mio babbino caro” da Puccini, che ha fatto letteralmente commuovere gli ascoltatori. Gli applausi per lei sono stati incessanti e si può dire che la sua esibizione sia stata trionfale.
Altra presenza importante alla serata è quella del direttore d’orchestra Alberto Veronesi, alla guida dell’ “Orchestra del Festival Puccini”. Molto buono l’accompagnamento alla voce di Renée e distinte anche le esecuzioni del resto dei brani, tra cui si menzionano “Preludio” da La fanciulla del west di Puccini e “Sinfonia” dal Nabucco di Verdi. C’è poi la partecipazione a questo evento del giovanissimo compositore e direttore d’orchestra Anthony Arcaini, appena quindicenne. La serata inizia proprio con la sua composizione “Dream of Tuscany”, che, tra colorismi russi e poliritmie di stampo americano, è il risultato di un pastiche per la verità un po’ disorganico. La sua prova da direttore di orchestra è un po’ fiacca – si sono molto sentite le differenze di un’orchestra diretta da Veronesi e di una d’Arcaini. Nell’ “Ouverture” del Tannhäuser di Wagner, a esempio, il capolavoro del compositore tedesco, perde tutta la sua energia non riuscendo a trasportare dentro il proprio mondo il pubblico. Il ragazzo è comunque giovane e potrà certamente migliorare. Questa è stata sicuramente la serata di Renée.

Stefano Duranti Poccetti (Tuscan Sun Festival 2010, da Il Nuovo Corriere Aretino)

Bell e Isserlis regalano al Festival del Sole una grande serata



Steven Isserlis
 L’affermato violinista Joshua Bell e il grande violoncellista Steven Isserlis regalano al pubblico del Festival del Sole una serata piacevolissima. Vola via così anche il quarto evento serale della manifestazione, fino ad adesso, quello che ha messo sul palco il più grande valore artistico. Ottima anche la prova della “Orchestra Toscana” diretta da Riccardo Frizza, brava nell’accompagnare i solisti, come nell’eseguire “la settima” di Beethoven nel secondo tempo.
Joshua Bell
La serata si apre con la “Romanza no.2 in Fa maggiore Op. 50 per violino e orchestra” di Beethoven, dove Joshua Bell può dimostrare le sue doti interpretative e tecniche, in cui emerge una grande facilità di fraseggio e di una capacità non comune di fare utilizzo del vibrato. Di conseguenza si aggiungono a Bell, Steven Isserlis e il pianista Dénes Várjon che, nel “Concerto in Do maggiore Op.56 per violino, violoncello e pianoforte”, sempre del compositore tedesco, emozionano il pubblico per la loro abilità. È soprattutto Isserlis che impressiona, per la sua grande dote interpretativa e gestuale e per la sua capacità di fare uscire il suono dallo strumento in modo pulito e fluido. Il violoncello suonato da lui si trasforma quasi in un violino. Finisce il primo tempo. Si riprende con il “Rondò in Sol minore Op. 94 per violoncello e orchestra” di Dvorak, dove Isserlis può dare ancora prova delle sue qualità artistiche, per poi salutare definitivamente il pubblico con simpatia, facendo inchinare il suo strumento verso la platea. Si torna a Beethoven: “Settima sinfonia”. La direzione di Frizza rende bene questa musica così travolgente e a tratti lieve, catturando le orecchie degli ascoltatori e ricavando gli applausi di tutto il teatro. Dopo tutto la musica di Beethoven è questo: è semplicemente la vita, con tutti i suoi cambiamenti, lievi e travolgenti, dove, nonostante tutte le variazioni, quel nucleo centrale, originario e forte, rimane sempre.


Stefano Duranti Poccetti (Tuscan Sun Festival 2010)

Apertura nel segno dell'Opera

La robusta voce del tenore Marcello Giordani e la splendida forza interpretativa di Ekaterina Scherbachenko hanno aperto ieri sera il sipario del Tuscan Sun Festival. Le loro voci hanno vibrato sulle note di Cajkovskij, Cilea, Bizet e Puccini. Tutto è iniziato con la melodica “Polonaise” dell’Eugene Onegin suonata dall’ “Orchestra Toscana”, diretta dalla direttrice Gisèle Ben-Dor; è stato allora il turno della cantante russa, che ha dimostrato delle ottime doti vocali cantando “La scena della lettera” della medesima opera del compositore. Il testimone è passato poi al cantante lirico italiano con il “Lamento di Federico” dall’Arlesiana di Cilea. E così è continuata la serata, sempre in crescendo fino ad arrivare alla chiusura dell’intervallo con un toccante duetto dei due cantanti: “Parle-moi de ma mère”, dalla Carmen di Bizet.
Il repertorio del secondo tempo è stato soprattutto italiano. Gli artisti si sono misurati così con il registro pucciniano, dimostrando di riuscire a entrare benissimo nella parte dell’operista toscano. Brani come “Sì, mi chiamano Mimì” dalla Boheme o “Lucevan le stelle” da Tosca, sono stati cantati in modo molto sentito e credibile. Tutto ha avuto termine con un altro duetto: “O soave fanciulla”, sempre dalla Boheme, e anche qui Marcello Giordani e Ekaterina Scherbachenko hanno dato prova di grande valore e di reciproca affinità. I due cantanti si allontano, e le ultime parole di amore sono cantate da dietro le quinte, l’orchestra va in dissolvenza e la serata sembra concludersi. Ma non è finita, è tempo di bis, e prima Giordani con il “Nessun Dorma”, poi accompagnato dalla Scherbachenko in un duetto dalla Traviata, chiudono questa serata nel migliore dei modi. Si sottolinea la robustezza della voce di Giordani, capace anche di passare con facilità dalle note più acute a quelle più gravi e abile nel dosare con disinvoltura i piano e i forti. Della Scherbachenko si osserva una interpretazione pura e sentita. Sembra che la cantante russa dimostri di sapersi calare con facilità, in un processo empatico, nella mentalità dell’autore musicale. Buona anche la prova dell’ “Orchestra Toscana”, diretta da Gisèle Ben-Dor, soprattutto nell’ “Arlesienne” di Bizet, nell’ “Ouverture” da Don Giovanni di Mozart e nell’ “Intermezzo” da Cavalleria Rusticana di Mascagni. 
Un teatro Signorelli non al completo ha salutato questo primo evento, ma non è stato questo a danneggiare la magica atmosfera di quest’ Opera Gala.

Stefano Duranti Poccetti (Tuscan Sun Festival 2010, da Il Nuovo Corriere Aretino)

24 novembre, 2011

Il Balletto di Mosca al Morlacchi di Perugia. La bella addormentata e i colori dell'universo fiabesco.

Rosso, azzurro, verde, bianco, nero: tanti colori sul palcoscenico, tanti colori che rappresentano una delle fiabe più famose di sempre: "La bella addormentata", con le musiche di Pyotr Ilyich Tchaikovsky e le coreografie di Marius Petipa. È stata allora una Bella Addormentata classica quella messa in scena dalla "Corona del Balletto russo" di Mosca, una Bella addormentata dagli scenari tradizionali, dai fondali dipinti e dalle coreografie istituzionali. 
Il balletto è andato in scena al Teatro Morlacchi di Perugia lunedì 21 novembre e devo dire che ne sono rimasto piacevolmente colpito – benché io non sia un esperto di balletto e benché non abbia apprezzato l'uso della musica registrata che, ahimé, in quasi tutti i teatri è d'obbligo, non essendo tanto grandi da permettersi un'orchestra dal vivo (L'audio sarebbe potuto comunque essere curato con maggiore attenzione). Semplici ma efficaci i costumi e sempre organiche le coreografie, per uno spettacolo che alla fine è risultato armonico e compatto. Tanti colori in scena: quelli dei costumi, e non poteva essere altrimenti, perché solo con il variopinto si può evocare la fantasia e l'universo fiabesco di quella bellissima fiaba che fu scritta da Perrault, a cui il balletto offre anche un omaggio, quando, alla fine, per le danze nel castello, sono proprio i personaggi dello scrittore francese a danzare: Il gatto con gli stivali e la gatta bianca, Cenerentola e il Principe Fortuné, Cappuccetto rosso e il lupo. Mi sono piaciuti anche Aleksander Butrimovich, nei panni del principe, e, soprattutto, Anastasia Kachaeva, nel ruolo della Bella addormentata, sempre armoniosa, delicata, raffinata, perfettamente adatta per un ruolo così nobile, onirico, fiabesco.
Stefano Duranti Poccetti (da ValdichianaOggi, 23 novembre 2011)

Il romanzo delle apparizioni Conversazione con la compagnia Teatro delle Apparizioni



Teatro delle Apparizioni. È solo il nome di una compagnia o anche un modo di fare teatro?
Fabrizio Pallara: Il Teatro delle Apparizioni è una poetica. L’obiettivo è l’incontro tra esseri umani attraverso un percorso di avvicinamento tra il pubblico e le persone che collaborano allo spettacolo.

Il pubblico diventa quindi attore nei vostri spettacoli?
F.P. : Il pubblico è uno degli attori dei nostri spettacoli, attraverso il coinvolgimento che passa per l’estetica della visione. Si vuole far sì che lo sguardo dello spettatore diventi drammaturgico.

È il teatro che viene dalla letteratura o è la letteratura che viene dal teatro? Come rispondete a questo?
Dario Garofalo: La letteratura è per noi fare un teatro che prevede un incontro, e la forma letteraria del romanzo si adatta a questo, perché nasce come popolare, come semplice e come qualcosa di facilmente condivisibile. Nella nostra ricerca abbiamo scoperto che certi romanzieri aiutano questo processo di più rispetto ad altri, soprattutto gli scrittori del 700’ o dell’800’, portano a una condivisione più semplice rispetto a certi autori contemporanei. Noi utilizziamo la letteratura come base di partenza, ma la pensiamo in termini teatrali.

Come fate uso dell’improvvisazione?
Federico Ferrandina: L’idea di questo lavoro fa riferimento al modo in cui improvvisa una jazz band. Un tema, che nel nostro caso è la narrazione del testo prescelto, è all’inizio esposto in modo chiaro. Piano piano si aggiungono gli altri strumenti ed è così che, delle volte, si giunge a una improvvisazione collettiva, a volte individuale.
F.P. : Così andiamo oltre, verso la terza dimensione del testo. La parte conclusiva dello spettacolo non è la fine del libro, non si può concludere il romanzo in uno spettacolo di un’ora. Si conclude l’incontro, il nostro incontro, con un finale aperto.
Paola Calogero: Aggiungerei anche il fatto che l’incontro è qualcosa d’imprevisto che provoca stupore. Non sappiamo niente neanche noi, prima dell’inizio, anche per noi è una sorpresa e una meraviglia.
F.P. : Siamo tutti lettori e questa è un po’ la chiave. Si tratta di libri che nel 99% dei casi non abbiamo mai letto e dunque siamo anche noi spettatori di quello che accade.
Sara Ferazzoli: Questa condizione genera in chi sta fuori la sensazione che anche tu potresti interagire. Tutto quello che vedi si svolge in quel momento per la prima volta e così ti mette nella condizione di essere più attento e ricettivo.

Qual è il vostro metodo di preparazione agli spettacoli?
F.P. : In dieci anni di spettacoli il Teatro delle apparizioni ha sempre attuato una modalità: la scrittura scenica, che prevede un punto di partenza, più o meno strutturato: un testo, un’idea, un incontro con delle persone. Il metodo lo sintetizziamo attraverso la scrittura scenica, ma, per me, a esempio, questo spettacolo nasce dall’incontro con Dario Garofalo e da un accostamento di due mondi differenti. Da lì poi l’incontro con Paola, Valerio e Federico. Incontri che portano a una sintesi che, per la prima volta, sento di dire, non nega il meccanismo di elaborazione dello spettacolo. Si vede in scena come è stato preparato con tutte le incomprensioni e con tutte le tensioni delle individualità interne: quanto più sono visibili quanto più lo spettacolo riesce.

Si può vivere con il teatro?
Valerio Malorni: Il teatro è ricerca di comunicazione e di scambio. Si può vivere laddove il teatro non viene inteso solo come teatro, come spettacolo, ma anche per tutte le cose che gli girano attorno. Economicamente io credo che si possa vivere di teatro.
F.P. : La domanda è complessa. Potrei dire sì, io vivo di teatro, ma va anche detto che il mio stile di vita ha a che fare con il fatto che io sopravvivo di teatro.

Stefano Duranti Poccetti (dal giornale del Kilowatt Festival, 31 luglio 2009)

La polemica quotidiana Conversazione con Paola Vannoni e Roberto Scappin



Cosa ne pensate di questa idea di affiancare a un gruppo di giuria esperta, i Fiancheggiatori, un gruppo di giuria di non addetti ai lavori, i Visionari?
Roberto Scappin: I Visionari sono molto più interessanti dei Fiancheggiatori. I Fiancheggiatori hanno le loro nevrosi intellettuali, le loro manie, i loro pregiudizi, il loro saggistico impegno nello sviluppare un percorso di pensiero che poi alla fine è solo un residuo, è solo un penoso vortice di nulla. Invece i Visionari leggono lo spettacolo con la loro semplicità. Ma va bene stare di fronte a entrambi, è necessario ed è un meccanismo anche innovativo nel panorama del teatro. Comunque c’è più un aspetto di delusione nei confronti dei Fiancheggiatori e più un aspetto di simpatia per i Visionari.

All’incontro è stato detto che nel vostro spettacolo s’individuano degli aspetti cabarettistici. Cosa ne pensate? Sentite vostra questa affermazione?
Paola Vannoni: Assolutamente no.
R. S.: Sì sì, la sentiamo, io voglio fare il cabarettista! Come no, come no! Io vorrei fare anche il cabarettista, ma non ci sono riuscito!
P. V.: Siamo stati scartati a Zelig!
R. S.: No, non è che siamo stati scartati, perché abbiamo fatto un provino, ci siamo dimenticati tutto e abbiamo fatto venti minuti di silenzio ed è per questo che non ci hanno preso. Così abbiamo ripiegato sul Kilowatt.

Ho sentito nel vostro modo di fare teatro un tentativo di cercare di fare parlare l’interiorità dell’uomo, la natura più profonda dell’uomo. È giusto?
P. V.: Esatto, la natura più bassa dell’essere umano.

Quello che tutti pensano, ma che non dicono, si può dire questo?
R. S.: Sì, si può dire. C’è una chiesa qui in cui c’è scritto “Qui il silenzio non è invocare il divino, è la presenza del divino” Solo che noi facciamo teatro, creiamo un dialogo, cerchiamo di rappresentare qualcosa, un umano, un post-umano, e nelle pause ci accorgiamo che veramente non c’è niente, c’è un muro.

È possibile vivere di teatro oggi?
R. S.: Per i ruffiani sì. Noi personalmente non ce la facciamo e forse non vogliamo neanche vivere di teatro. Non vogliamo chiedere l’elemosina dello stato.
P. V.: Per vivere di teatro devi avere il passaporto da parte degli operatori che ti sdoganano in qualche modo e quindi ti legittimano. Pensano di essere loro a legittimarti a circuitare, come se questo fosse l’obiettivo di chi fa teatro, ma non è sempre questo. Loro hanno un’idea commerciale del teatro, noi ne abbiamo un’idea sentimentale.

Stefano Duranti Poccetti (dal giornale del Kilowatt Festival, 25 luglio 2009)