31 luglio, 2012

Il "podio" del "Concorso La Nuova Critica" è firmato Corriere dello Spettacolo


Un'ottima notizia per il Corriere dello Spettacolo, due dei suoi membri della redazione sono stati infatti menzionati tra i migliori critici teatrali del prestigioso "Concorso La Nuova Critica", indetto dalla Fondazione Carlo Terron con il mensile Sipario e il portale sipario.it. Il Direttore Stefano Duranti Poccetti è stato giudicato uno  dei dieci migliori critici di spettacolo, mentre la collaboratrice Sara Bonci è riuscita addirittura a vincere il concorso! Complimenti ragazzi, un onore per il nostro giornale!

“La Bottega del caffè” di Carlo Goldoni. Il caffè come “droga” della comicità…



Teatro Poliziano, Montepulciano. “Cantiere Internazionale d’Arte”, venerdì 27 luglio 2012. “La Bottega del caffè” di Carlo Goldoni

È una bottega del caffè –il locale che oggi chiameremmo presumibilmente “bar”- l’ambiente in cui prendono vita le vicende dei personaggi: e la vicenda del giovane Eugenio, che perde tutto al gioco, rischiando così anche di perdere la propria moglie Vittoria, e la vicenda della pellegrina Placida, alla ricerca di suo marito, scappato da lei per darsi a una ballerina spacciandosi per nobile… accanto alle vicende troviamo gli “architetti” delle vicende, quei “personaggi marionettisti” tramite i quali le azioni prendono vita sul palcoscenico. Ridolfo è il caffettiere della bottega, è il “saggio” della Commedia, colui che riesce a riportare le situazioni alla loro normalità, facendo sì che i personaggi,  partiti da un contesto di disequilibrio interiore, arrivino alla fine del dramma ad acquistare una consapevolezza che innalza anche il loro stato morale, che riporta all’armonia del tutto. Don Marzio è invece il gentiluomo napoletano che, consapevolmente o inconsapevolmente, porta le persone che lo frequentano a perseguire una cattiva strada, quella del gioco –i giovani sono infatti influenzati da questa figura fin dall’inizio del dramma, fino a quando, come detto, non acquisiscono, nel finale, una consapevolezza morale.
La pièce portata con la regia e l’adattamento di Carlo Pasquini è piacevole e, se ci si rende conto di certe pecche, va ricordato che non si tratta di una compagnia formata interamente da professionisti, si tratta in effetti di una compagnia semi-professionale. Nonostante questo il ritmo comico funziona, benché non sia cadenzato in modo perfetto; suggestiva la scenografia, creata con una serie di tavoli posti orizzontalmente sul palco, che scandiscono lo spazio, il tempo, le azioni dei personaggi; distinti anche i costumi, stilizzati, ma in linea con il tempo storico goldoniano. Tra gli attori vanno sicuramente menzionati Gianni Poliziani, abilissimo nel creare la maschera goldoniana, nei panni di Don Marzio, poi anche Mascia Massarelli, che nel ruolo di Ridolfo è brava a immedesimarsi in un ruolo maschile il cui compito è quello di dare sicurezza e fiducia ai personaggi sulla scena. Ricordo anche la performance di Armando Sciabbarrasi nei panni del divertentissimo e frenetico garzone Trappola. Mi piace annoverare, comunque, come di solito è mio uso, anche il resto degli attori, perché il teatro è un “gioco di squadra” e tutti sono importanti per il risultato finale, quindi: Tommaso Ghezzi nei panni di Eugenio, Guido Dispensa nel ruolo di Flaminio, Francesca Fenati nel ruolo di Placida, Maria Carla Generali nei panni di Vittoria, Francesca Lazzeri come Lisaura (la ballerina), Giacomo Testa come Pandolfo, Giulio Fiorani, Rachele Santoni e giuliano Scroppo come garzoni, Camerieri e birri.
Buona la regia di Carlo Pasquini, che fa anche utilizzo delle musiche di Mozart, che sembrano adattarsi bene alla messa in scena.

Stefano Duranti Poccetti

La bottega del caffè
di Carlo Goldoni
Carlo Pasquini, regia
Stefano Mondini - Tiziano Ramera, scene e costumi
Renato Vadalà e Pietro Sperduti, luci
con Mascia Massarelli, Gianni Poliziani, Tommaso Ghezzi, Guido Dispenza, Francesca Fenati, Maria Carla Generali, Francesca Lazzeri, Giacomo Testa, Armando Sciabbarrasi, Giulio Fiorani, Rachele Santoni, Giuliano Scroppo


Una vignetta per un evento: Paolo Rossi al Cortona Mix Festival 2012...


Centro Sant'Agostino, Cortona. "Cortona Mix Festival", domenica 29 luglio 2012. "Il nostro mondiale", con Andrea Scanzi e Paolo Rossi.









30 luglio, 2012

“OMAGGIO A CHARLIE CHAPLIN - TEMPI MODERNI”. L’Era industriale insorge, ma il sogno non morirà mai.



Piazza Signorelli, Cortona. “Cortona Mix Festival”, sabato 28 luglio 2012

Apertura in grande stile per il nuovissimo "CORTONA MIX FESTIVAL", che ha scelto di affidare al genio di Charlie Chaplin ed al suo capolavoro "TEMPI MODERNI" il compito di celebrare degnamente la propria serata inaugurale. Ad impreziosire un evento già di per sé succoso (soprattutto per i cinefili) ha contribuito la presenza dell' "ORCHESTRA DELLA TOSCANA" che, sotto la direzione del Maestro statunitense Timothy Brock, ha accompagnato il film dal vivo eseguendo le musiche originali composte dallo stesso Chaplin; il tutto, nella suggestiva cornice di Piazza Signorelli, tradizionale sede di spettacoli all'aperto nelle estati cortonesi.
Un esperimento decisamente riuscito e gradevole, soddisfacente sia sul versante visivo -il film è stato riproposto nell'edizione recentemente restaurata- che sonoro -esecuzioni impeccabili ed in pieno spirito chapliniano (indimenticabile e sempre commovente il tema di "SMILE"), perfetta fusione tra immagini e temi musicali, degna dell'edizione originale-; in merito a questo secondo aspetto tecnico, è opportuno aggiungere che, per prepararsi degnamente all'evento, il maestro Brock ha proceduto ad un accurato e rigoroso studio "filologico" delle partiture originali, accedendo direttamente ai prestigiosi Archivi Chaplin.
Molto incoraggiante, in ottica festival, la risposta a questa prima chiamata da parte di un pubblico anagraficamente variegato e partecipe, il cui entusiasmo riapre il dibattito, innescato dal fenomeno "THE ARTIST" -Premio OSCAR come miglior film 2012-, circa l'attualità del cinema muto e le potenzialità ancora inespresse da un genere, o piuttosto da un modo di fare cinema, considerato ufficialmente estinto dalla fine degli anni '20 circa (salvo eccezioni, come lo stesso Chaplin, che porterà avanti la bandiera del muto fino ai tardi anni '30, e sporadici ripescaggi nel corso dei decenni successivi). Fa davvero riflettere il fatto che, nell'epoca del bluff ( Sì! ) del cinema 3D, ultima trovata per ravvivare un panorama cinematografico asfittico e stagnante, ci siano ancora così tante persone (tra cui molti giovani) disposte a fare la fila per assistere alla proiezione di un muto del 1936... forse, dopotutto, i sostenitori del cinema di sostanza rispetto a quello dell'apparenza (dove l'orgia rutilante di effetti speciali da capogiro e i brividi tridimensionali fungono soltanto da specchietti per le allodole piazzati per mascherare sceneggiature a dir poco inconsistenti) non sono così pochi come il mercato vorrebbe far credere.
Che dire poi della freschezza e dell'attualità di un gigante come Chaplin, passato indenne attraverso le ingiurie del tempo, capace ancora di far ridere e commuovere anche a distanza di decenni, generazione dopo generazione... cos'è l'eternità anelata da un artista, se non questo?

Due parole sul film.
Charlot, alle prese con il lavoro disumano alla catena di montaggio, impazzisce e finisce ricoverato in ospedale. Appena il tempo di uscirne, guarito ma disoccupato, che la polizia lo arresta nel corso di una retata contro un gruppo di manifestanti. In carcere, sventa una rivolta e si riguadagna la libertà; una volta fuori, si innamora di una giovane orfanella che salva da un arresto per furto, tenta senza successo vari lavori combinando un disastro dietro l'altro, entra ed esce di prigione in continuazione, finché sembra arrivare finalmente l'occasione giusta: i due fidanzati vengono assunti come cantanti in un ristorante-dancing (imperdibile l'esibizione di Charlot che si mette a improvvisare cantando in una lingua inesistente, una specie di francese maccheronico e dadaista) facendo furore, ma l'arrivo delle forze dell'ordine li costringe ad una precipitosa fuga. Nonostante tutto, si può tentare ancora: il futuro è una lunga e faticosa strada da percorrere a piedi partendo all'alba, possibilmente col sorriso sulle labbra, verso un orizzonte forse irraggiungibile.

Tempi moderni, ovvero l'uomo di fronte al progresso ed alle sue "meraviglie": il fordismo, lo stress quotidiano, le lotte operaie, la disoccupazione, gli scioperi, l'emarginazione e, sì, perfino la droga (divertentissima la scena in cui un Charlot sballato marcia verso la cella girando su se stesso). Ridere pensando e pensare ridendo: dietro il paravento della consueta dose di gags comiche che fanno di quest'opera un film inequivocabilmente comico (sì, ma non solo, come accade sempre con Chaplin), il regista piazza una critica aspra ed irridente della società industriale e si interroga sull'incidenza della tecnologia nella vita dell'uomo, guardando al progresso con lo stesso scetticismo-pessimismo che sarà poi di Kubrick, Tati e Pasolini; il tutto, rinunciando  quasi completamente al sonoro -per essere precisi, più che di film muto dovremmo parlare di un "ibrido", dato il ricorso qua e là ad effetti sonori utilizzati sia in funzione narrativa che per ottenere l'effetto comico (come nella scena del tè)-, per affidare ancora una volta alla potenza delle immagini il compito di veicolare le proprie idee.
Evidente, in chiusura, l'esortazione alla speranza e all'ottimismo contro rassegnazione e scoramento: solo continuando a sognare si può trovare la forza per andare avanti.

Francesco Vignaroli

29 luglio, 2012

Valentina, una donna di scomposta libertà e sensualità. Sognando tra le immagini della mostra romana “Valentina Movie”, a Palazzo Incontro fino al 30 settembre.



Mi trovo in un parco giochi per adulti, mi aggiro come in trance tra i chioschi, le giostre, leggo le scritte, i messaggi, guardo le foto, ascolto voci e musiche, non so decidermi dove entrare.
Tutto mi attrae, m’incuriosisce, sento l’aroma inebriante del proibito, dell’eros, del peccato: è il luna park più strano che io abbia mai visto.
Sto forse sognando?
 Poi, dalle pareti di un’attrazione, la struttura è di un palazzo barocco in una stradina della vecchia Roma, la gigantografia del viso di una bella donna dai capelli neri tagliati a caschetto e gli occhi marcati di eye-liner, assomiglia all’attrice degli anni venti Louise Brooks, silenziosamente ma con decisione, con uno sguardo ammiccante e malizioso, m’invita a entrare…
Non ci penso due volte, ogni lasciata è persa, diceva qualcuno, e poi quella maschietta è troppo intrigante per passare oltre.
Entro e di nuovo il suo volto, sembra proprio che mi guardi. Mi ha forse fatto l’occhiolino?
Così comincia il mio viaggio tra i sogni di Valentina, personaggio uscito nel 1965 dalla penna di Guido Crepax e messo in mostra con il titolo “Valentina Movie” nelle sale di Palazzo Incontro nella Capitale fino al 30 settembre.
E se i suoi sogni fossero anche i miei? I nostri?
Vediamo che succede…
La bocca, il naso, gli occhi, un piede, i sandali, la schiena e il fondo schiena, le mani, i seni, uno slip, i pezzi scomposti del corpo e della personalità di Valentina, mi stanno davanti, sono come i fotogrammi di un film di cui lei è la protagonista, tra Parigi, Milano, New York, Amsterdam, Roma, Venezia. Sono viaggi immaginari perché Crepax diceva “Non mi piace viaggiare, sono un viaggiatore immobile”. Eppure, vignetta dopo vignetta Valentina si aggira per le calli di Venezia o gli Champs- Elysées tenendo in mano la sua macchina fotografica. Perché lei è una fotografa di moda, così è scritto sulla sua carta d’identità, ma nello stesso tempo modella e musa ispiratrice.
La vedo in posa sexy nel pannello a grandezza naturale che sta in mezzo alla sala, indossa lunghi stivali di vinile con zip laterale, tre cinture intorno alla vita, e le macchine fotografiche appese al collo le coprono a mala pena il seno nudo. Tutto normale per Valentina. E ci chiede anche di posare: “Fermi così!”.
Poco dopo è lei a passare con disinvoltura al ruolo di modella e allora le pose non sono più di chi possiede ma di chi è posseduto: languidamente distesa su una chaise longue, accarezzando un gatto, o accarezzando se stessa, facendo le fusa a sua volta, specchiandosi e cambiandosi d’abito, spogliandosi e lasciando cadere le mutandine di pizzo. Valentina è irriverente e libertina, le piace provare tutto, soprattutto i sogni.
Continuo a sognare anch’io mentre passo tra le sale della mostra.
In un video Valentina a cavallo di una scopa, rigorosamente nuda, si lancia da una finestra e vola nel cielo di città immaginarie, di cui a volte riconosciamo uno scorcio, una piazza, una fontana.
Schiava e padrona, modella e art director, dolce e aggressiva, individualista e feticista, non perde mai l’eleganza e la carica erotica. Le sue antitesi si compongono e scompongono secondo le situazioni, con disinvoltura Valentina mette e toglie maschere, come mette e toglie un vestito.
Ogni sogno è diverso, ogni incubo pure. Assapora ogni sensazione, vive ogni storia, camminando con passo sicuro su sandali vertiginosi, avvolta in pellicce lunghe fino ai piedi,  indossando tute che le aderiscono al corpo come una seconda pelle oppure hot pants che le lasciano scoperte le gambe mozzafiato.  Sembra che tutto quello che tocca le appartenga e lo sappia usare e dominare con bellezza e sicurezza, senza sentimentalismi o cadute di stile. Anche quando scompostamente si siede divaricando le gambe con una camicetta aperta sul seno, in attesa del prossimo round.
Crepax disegnava con un sottofondo di musica jazz, forse perché è la musica più simile a Valentina, una musica nata da spiriti liberi, o che anelavano a esserlo, che si può improvvisare nei locali o per le strade, che tocca la pelle, che ama il sogno e anche la realtà, proprio come la nostra eroina.
Che tenga in mano un obbiettivo o una pistola o una scopa o un cannocchiale, Valentina ci attira nei suoi sogni di donna libera. indipendente, coraggiosa, sensuale.  Prima di lei i cartoon non avevano donne come protagoniste, ma con la sua esuberanza e intelligenza si è fatta spazio in un mondo di maschi super eroi e per decenni ha vissuto non solo sulla carta ma anche nelle fantasie dei suoi lettori.
Non so più nemmeno io se sto sognando o se le stradine del centro storico di Roma e poi il Tevere che scorre lento e verde sotto il ponte dell’Ara Pacis siano parte di una storia di Valentina, al di fuori di quel magico luna park che è il nostro inconscio.
Ma il gelato che mi rinfresca in una caldissima giornata d’estate mi riporta alla realtà.
Eppure sto ancora pensando a Valentina…




Daria D. 








26 luglio, 2012

FASCINOSO ASTOR - Omaggio al tango di Astor Piazzolla



Teatro Giuseppe Verdi, Monte San Savino – Orienteoccidente, Festival delle Musiche. Lunedì 23 luglio 2012

FOUR FOR TANGO :

MASSIMILIANO PITOCCO      Bandoneon

ROSARIO MASTROSERIO        Pianoforte

ALESSANDRO VAVASSORRI  Violino

GIOVANNI RINALDI                 Contrabbasso

Astor Piazzolla sta al Tango argentino come Antonio Carlos Jobim sta alla Bossa Nova brasiliana: due geni, due pionieri nei rispettivi ambiti musicali e probabilmente i due più grandi compositori sudamericani del '900. Se il Maestro carioca è riuscito a far incontrare jazz e samba, tradizione nordamericana e MPB (Musica Popular Brasileira) inventandosi la Bossa Nova, altrettanto rivoluzionario e innovativo è stato il percorso artistico del grande Astor (origini italiane: nonni di Trani, Puglia), l'uomo capace di ripensare e reinventare il Tango fino ad elevarlo al rango di genere "colto": non più (o perlomeno non soltanto) musica d'evasione da ballare nei locali notturni (ad inizio '900, il Tango veniva addirittura eseguito quasi esclusivamente in bettole e postriboli!), bensì impegnative composizioni da eseguire nei teatri e seguite in religioso silenzio da un pubblico attento e preparato (non si contano ormai più le riletture classiche del repertorio piazzolliano, pubblicate dalle grandi etichette specializzate nel settore). Piazzolla ha plasmato la materia espandendone i limiti oltre ogni immaginazione, dando forma e sostanza ad una musica potenzialmente infinita, tuttora in grado di stupire ed emozionare grazie alla sapiente fusione di ragione e sentimento, virtuosismi armonici e struggenti melodie, tecnica europea (evidenti influenze classiche soprattutto nel ricorrente uso del contrappunto) e passionalità latina.

Di tutto ciò ci (a noi fortunati presenti, e non eravamo in pochi) hanno dato un'efficace dimostrazione gli ottimi FOUR FOR TANGO, invitati al FESTIVAL MUSICALE SAVINESE per ricordare Piazzolla a venti anni esatti dalla sua scomparsa, attingendo dallo sterminato repertorio del Maestro alcune tra le sue composizioni più celebri - la famosissima "OBLIVION", ma anche la "MILONGA DEL ANGEL", "ADIOS NONINO" e "MICHELANGELO '70"- accanto alla gradita sorpresa di temi meno noti ma comunque molto apprezzati dal pubblico presente -"EL PENULTIMO", "JEANNE Y PAUL" e il meraviglioso "CONCIERTO", decisamente il momento clou della serata-, per arrivare alla chiusura con l'immancabile "LIBERTANGO", il tema piazzolliano in assoluto più conosciuto nel mondo (ancorché non il migliore, almeno a parer mio). Esecuzioni impeccabili, rispettose ed emozionanti quanto basta per non deludere un appassionato incallito come il sottoscritto; gradevole la presenza della coppia di ballerini di tango professionisti Tania Grisostomi e Luigi Bisello, (già campioni italiani di tango 2004 nonché vice-campioni del mondo, sempre 2004), impegnati a sottolineare delicitatamente l'atmosfera di alcuni brani o di parti di essi. Peccato solo per la mancata esecuzione della "RESURRECCION DEL ANGEL", la parte conclusiva della "SUITE DEL ANGEL" iniziata qui dalla "MILONGA" (anche se in realtà ci sarebbe prima una "INTRODUCCION", neanch'essa proposta in questa serata) e proseguita dalla "MUERTE", ma si tratta di un rammarico puramente soggettivo...

A beneficio dei curiosi, ecco la scaletta completa del concerto:

Prima parte

VERANO PORTENO
REGRESO AL AMOR
EL PENULTIMO
OBLIVION
PRIMAVERA PORTENA
FRACANAPA
JEANNE Y PAUL

Seconda parte

MICHELANGELO '70
MILONGA DEL ANGEL
MUERTE DEL ANGEL
ESCUALO
ADIOS NONINO
CONCIERTO
LIBERTANGO

Richiamati a forza da un prolungato e caloroso applauso del pubblico, i quattro musicisti e i due ballerini si sono concessi per un breve ma gustoso bis "giocoso".

Francesco Vignaroli

25 luglio, 2012

Tra Wagner, Glanert, Wolf e Haydn, le candele si spengono, gli applausi si accendono



Ex Macelli, Montepulciano, Cantiere Internazionale d’Arte. Domenica 22 luglio 2012
Il direttore Roland Böer e il pianista Markus Bellheim
con l’Orchestra del Royal Northern College of Music di Manchester

Il concerto sinfonico si apre sulle note de “L’Idillio di Sigfrido” di Wagner, dove l’orchestra di Manchester, guidata dal direttore Böer, dimostra di essere pienamente all’altezza di un brano così intenso, carico di forte emotività. “L’Idillio”, com’è tipico nella musica wagneriana, è caratterizzato da una grande liricità, una liricità che si trasforma sovente in forza, forza d’intensità, un’intensità trasmessa attraverso le “melodie lunghe”, portando gli strumenti al massimo della loro estensione. Tutto questo è stato sviluppato ottimamente dall’orchestra, veramente calda, pulita, tecnicamente abilissima nel fare ascoltare in sala un “vero Wagner”, un Wagner che arriva direttamente al cuore dell’astante.
La serata musicale continua con il “Concerto per pianoforte ed orchestra n. 1 op. 27” di Detlev Glanert,  composto nel 1994. Anche in questo nulla si può dire sull’orchestra e sul punto di vista del direttore, come niente si può dire sull’eccellente interpretazione pianistica di Markus Bellheim, che riesce a dare un senso a uno spartito pianistico a cui il senso è difficile da trovare. La composizione di Glanert è infatti veramente pesante: troppo lunga, troppe false chiusure, una composizione faticosa sia da suonare che da ascoltare. La prima parte del brano non è neanche male, almeno finché non si comincia a giocare con esagerazione con gli effetti orchestrali –l’uso troppo variegato delle percussioni ne è forse il più palese esempio-, che rendono il tutto troppo appesantito e caotico. Altre caratteristiche del brano –che a mio avviso diventano un limite- sono i suoi passaggi da scale atonali a scale tonali, dove questi passaggi si attuano in modo anche rocambolesco e casuale. Non mi sembra insomma che il compositore abbia voluto attribuire un ruolo preciso alle singole parti della sua creazione, ma, anzi, sembra che abbia attaccato le diverse parti “ad libitum”, casualmente, perdendo così la sostanza del brano.
Nel secondo tempo s’inizia con la “Serenata Italiana in Sol Maggiore” di Hugo Wolf, un bel pezzo, in cui emergono i caldi toni italiani, delle volte lirici, delle volte danzanti, anche in questo caso resi con accuratezza dai musicisti.
Ultima composizione in programma è la “Sinfonia n. 45 in Fa# minore Hob.L:45”, di Franz Joseph Haydn, meglio conosciuta come la “Sinfonia degli addii”, dove Roland Böer, dimostrando anche le sue eccellenti doti da clavicembalista, propone di questa un’interpretazione in linea con la tradizione, con i musicisti che, nel quarto e ultimo movimento, si alzano dalle sedie spegnendo le candele dei loro leggii, andando via dal palcoscenico. Sono solo due violiniste che rimangono a suonare nel finale e la composizione termina sulle loro note in sordina.
Siamo a Eszterhaza, nel 1772, alla corte del principe Nikolaus Esterházy, quando Haydn scrive questa sinfonia attribuendole un significato ben preciso. Ai musicisti era infatti stato vietato di lasciare la città per rivedere le proprie famiglie, così il compositore austriaco, unito da un legame, oltreché professionale, affettivo con i suoi musicisti, scrive una sinfonia di protesta, che mette in evidenza l’eccessiva rigidezza del principe, proprio facendo sì che i membri dell’orchestra escano dal palcoscenico, come simbolo del ritorno a casa dalle famiglie.
Una serata musicale piacevolissima, in tutti i suoi aspetti, e il loro “addio” i musicisti ce lo hanno dato proprio nel migliore dei modi.

Stefano Duranti Poccetti




22 luglio, 2012

Tullio Barrecchia, il ri-inventore della Commedia dell’Arte! (all’inglese)…



Tullio Barrecchia si definisce un pazzarello, ma sarà forse grazie a questa sua caratteristica che ha potuto realizzare sempre i suoi sogni e che adesso può realizzare un nuovo e ambizioso progetto: “The New Comedy of Art”? Ci parla proprio Tullio, che racconta di sé e della Nuova Commedia dell’Arte…

Sono una persona sempre positiva e con una gran voglia di LUCE, una persona molto gioiosa insomma! (così mi definiscono i miei amici). Tutto quello che faccio lo faccio con molta passione. Amo il teatro, sia in quanto ballerino (formatomi da Renato Greco) sia come attore (dividendo il palcoscenico per esempio con Ottavia Piccolo e Renato De Carmine e lavorando sotto la direzione di un grande regista come Jerome Savary). Sono anche coreografo, campione sportivo FISAF, avendo lavorato a Canale 5 con Maria Teresa Ruta (nel programma Vivere Bene, affascinando con lezioni di fitness il pubblico italiano) e regista, firmando tre mie produzioni: "AAA musical offresi" andato in scena prima al teatro La Scaletta, di conseguenza al Flaiano, poi "Se non ci fosse la luna" con Harold Bradley al teatro Anfitrione a Roma. Da sempre vivo tra la realtà e un mondo MISTERIOSO! Da una vita ero in cerca di qualcosa che sentivo mancare e finalmente l’ho trovata a LONDRA, incredibile!
Forse, a dire la verità, una GRANDE GUIDA INVISIBILE MI HA GUIDATO DA SEMPRE E MI HA ACCOMPAGNATO IN QUESTO MIO INCREDIBILE VIAGGIO: LA MIA VITA. UNA MANO INVISIBILE CHE NEL 2000 MI HA LETTERALMENTE CATAPULTATO QUI A LONDRA. ED ECCO LA MAGIA, qui a LONDRA ritrovo una parte di me: IL CUORE e "ricordo" che ho "un lavoro" da portare a termine. A Londra insomma riscopro il MONDO MISTICO, SENSAZIONALE, E NON STO SCHERZANDO; ho ritrovato il MIO CUORE IN UNA LONDRA DEL NORD DEL 20tesimo SECOLO. RICERCANDO NEL CUORE riscopro l`ANTICA ESPERIENZA DEL CUORE (tra yoga, meditazione, audaci pratiche spirituali e la magia di ALBIONE: la terra DEI DRUIDI, DI KING ARTHUR, DEGLI IPERBOREI, DELLA PRIMA CHIESA CRISTIANA, GLASTONBURY, LA TERRA DELLA GODDESS, dove si dice risieda il CUORE DI GAIA, il cuore DEL NOSTRO PIANETA e come dimenticare STONEHENGE! Mi immergo profondamente, corpo ed anima, in questo nuovo sogno ASCOLTANDO LA TERRA E IL CIELO… AND TURNING THE LIGHT AROUND ( "LA VIA DEL TAO") così familiare. Comprendo ALLORA che l`esperienza del cuore tanto antica può essere anche tanto nuova: WE ARE EVOLVING! QUESTO è QUELLO CHE SCOPRO! Io sono pronto per condividere QUESTA MAGIA e sembra che questa sia proprio LA MIA MISSIONE. LA RISPOSTA ALLE TANTE DOMANDE SULLA MIA VITA ALLE QUALI NEL PASSATO AVEVO CERCATO SEMPRE DI DARE RISPOSTA, MA INVANO, ORA LA CONOSCO. Per il mondo intero sto preparando una grossa sorpresa CON UN GRANDE ENTUSIASMO: "THE NEW COMEDY OF ART", UNA INCREDIBILE COMPAGNIA TEATRALE che metterà sul palco il mio linguaggio teatrale! Alcuni qui a Londra mi definiscono un nuovo Shakespeare, perché il mio Teatro è un Teatro Trascendentale, di Rivelazione, che smaschererà la Maschera, ma al tempo stesso ne creerà un`altra: l` ARLECCHINO DELLA TRADIZIONALE COMMEDIA DELL`ARTE “diventa un ARLECCHINO LUMINOSO, per manifestarsi poi come un ARLECCHINO” -qui la sorpresa… SARO` COSI`AUDACE DA CAMBIARE IL COSTUME DI ARLECCHINO. ROMPERÒ GLI SCHEMI DEL TEATRO TRADIZIONALE E I MIEI ARTISTI SEGUIRANNO LA LUCE INVECE DI ESSERE SEGUITI DALLA LUCE. Insomma che ve devo di`? UNA GRANDE AVVENTURA E CHE FORTUNA CI ASSISTA. Ho costruito un Microscopio incredibilmente potente per portare alla LUCE LE FONDAMENTA DELLA VITA.

Curato da Stefano Duranti Poccetti

P.s. Per chi volesse continuare a leggere esiste anche un manifesto della New Comedy, ed è stato curato da Alexandra Celia. Il titolo è “Un Veliero nel Cielo” e il Corriere dello Spettacolo lo riporta per intero.


Un Veliero nel Cielo. “Il sogno e la realtà di Tullio Barrecchia e della sua The New Comedy of Art”.

Londra 2012 Solstizio d'Estate, “il Sogno trasforma la realtà... Il Sipario si alzi... Tutti in scena! Timore, trepidazione, ma cuore!

Anno Domini 2000. Un giovane promettente atleta, ballerino, coreografo, regista osserva dall'alto, con umidi occhi - quasi un puntino nel nulla - per un'ultima volta l'eterna città Roma! Un volo per Londra lo proietta verso altri orizzonti, sogni, mille scenari, propositi artistici.

"Se Dio potesse muovere il Suo dito di tra le rocce del Cielo, i regni terreni sarebbero fulminati, e le divine fiamme incenerirebbero l'intera umanità. Così penserebbe un saggio, antico profeta e filosofo che elevando la sua mente, il suo contemplativo intelletto verso l'alto, scoprirebbe d'intuire, percepire l'ira eccelsa di Dio.

Si, perché l'umanità si è corrotta, dimentica degli antichi insegnamenti, come ai tempi di Sodoma e Gomorra - di biblica memoria - e la delicatezza, la purezza cordis s'è smarrita per via, in un fiume di amarezze. E' pur vero che, forse, nei nostri dilaniati tempi male non farebbe l'eco furioso di un novello Savonarola, di un terrificante Torquemada, di un redivivo Martin Lutero.

Osservando il mondo, l'umanità, dalle innevate vette del Tibet quello che risalterebbe agli occhi di colui che “prega”, dell'Avatar ritrovato è la miseria umana, l'essersi dimenticati della grandezza divina nella persona umana. Una condizione che - in termini di povertà dello Spirito - consente il soffocamento del genere umano. Cosa si potrebbe fare per ristabilire gli equilibri delle culture, spesso millenarie, del rivalutare i “valori” degli uomini tutti.

Presumibilmente nulla, o piuttosto, molto si può fare, realizzare concretamente, edificare, costruire, strutturare un nuovo spazio per nuove “menti”.

Pensiamo la “questione”, in una dimensione ridotta in una sfera - microcosmo - ma che, come un sasso gettato in un lago viene a muover infiniti cerchi! Avendo, così di fatto, ottenuto il 'Macrocosmo. Riflettiamo sulle potenzialità di un solo essere umano, di una persona che offre su di un piatto d'oro - non la testa del Battista - bensì una “speranza” che genera, come una nuova “creazione” della fede, speranza, carità una compassionevole forma di tendere la mano all'altro, il nostro prossimo.

Penso, ancora alla grandezza dell'Arte nelle sue manifestazioni più gloriose, arte come genialità di Leonardo, delicatezza di Botticelli, imperativo di Michelangelo Buonarroti.

Ulteriormente all'Arte come movimento, movenza, espressione coreografica. Arte in quanto forma e dimensione dello spettacolo teatrale, una Nuova Commedia dell'Arte, nello specifico la The N. C. of Art, il cui padre fondatore, creatore, ideatore è lo stimato Tullio Barrecchia di Londra, che con la sua compagnia di ballerini, attori mette in campo - non una battaglia - bensì la Nuova Arte, il pionieristico spettacolo scenografico.

Tullio Barrecchia è un giovane regista, coreografo, ballerino - spesso creatore di originali costumi di scena dallo stesso disegnati, e sviluppati.

La città londinese lo accolse come figlio nel 2000, lasciando così, il suo cuore rivolto alla patria, l'Italia, alla sua amata città Roma.

Londra, la si osserva in questi giorni protagonista delle imminenti Olimpiadi 2012, tutto è in fermento, un sussulto di pensieri organizzativi. In questo grande marasma viene a collocarsi, distendersi la genialità espressiva teatrale di Tullio regista, idee sottili come linfa che foglia alimenta per un infinito albero, muovendo il profondo spirito di Shakespeare e delle sue note commedie teatrali. Come un grido di trionfo nella notte che precede una nuova alba di una nuovissima Era.

In quanto regista severo, meticoloso Tullio Barrecchia spende l'impossibile in energie per il suo gruppo di ballo, la sua Compagnia d'Arte che forma scrupolosamente. Prove estenuanti, attenzione e cura per i particolari sono il “cuore” di tutto il proscenio teatrale. Sotto le coltri di porpora, tuttavia, aleggia un sentimento imperativo: il dramma di Colombina, Arlecchino, Pantalone celano ben altre nascoste visioni/verità.

Verità sottili come lamine di platino, lampi di echi cantati e danzati per esprimere un nuovo/innovativo tema dell'Amore - quasi un velo d'Amor Cortese - compassionevole, universale, del Divino che, di Lux, discende - umanizzandosi - dai Cieli paralleli, per unirsi sponsalmente con Madonna Povertà, e Madonna Compassione.

Barrecchia, alimenta, con la sua The N. C. of Art, il “Fuoco Sacro” per una nuova generazione/consapevolezza, come buona novella ripenserà all'episodio evangelico di Gesù che risuscita Lazzaro - Gv 11, 1-57 Giotto Cappella degli Scrovegni Padova. Caravaggio, Museo Reg., Messina - dal suo sonno tombale, "to be or not to be" - e... lacrime, dolore fu speso dal Figlio dell'Altissimo - Tullio è un regista pionieristico, singolare, mette l'accento sui colori accesi che si trasmutano in suoni, e suoni vibranti in colori solari, sontuosi.

La The N. C. of Art, intende esprimere, edificare una forma/dimensionalità, artistica/teatrale quasi fuori dal tempo ordinario, contemplando il futuro e mantenendo - di fatto - fermo il baricentro con il grande trascorso commediografico.

"Si illuminano le stelle del Cielo, il Sole è, ormai, nella culla notturna. Silenzio in sala: va in scena la The N. C. of Art, vedremo, osserveremo, comprenderemo la grandezza ed il 'Mistero' quasi magico del messaggio artistico nascosto.

... Notte fonda al Covent Garden di Londra, le luci si offuscano, tutto è in penombra, s’eleva il sipario, e la polvere del tempo: "S'ode una strepitosa voce in campo: Tutti in scena, emozione, trepidazione del cor' sospeso nei mille pensieri, tutto si proietta nella folgorante Luna sorella. Il veliero nel cielo dipinge spirali d'arcobaleno nella volta Stellata!

18 luglio, 2012

Paolo Preite, il giovane cantautore che, ancora emergente, collaborò con Fernando Saunders e Kenny Aronoff!



Paolo Preite alla chitarra

Per fortuna, andando ad ascoltare concerti qua e là e andando a scovare gli artisti in quello che oggi è il territorio più vasto: internet, ci si rende conto che esistono dei bravissimi musicisti italiani che avranno di certo la possibilità di rendere, a loro modo, grande la musica italiana nel prossimo futuro.
Credo sia questo il caso di Paolo Preite, un giovane cantautore di 26 anni. L’ho conosciuto su Facebook e sono stato subito incuriosito ad ascoltare i suoi brani, di cui ho notato una certa impronta rock e country, ma, soprattutto, ho notato, e questa è la cosa più importante, un segno originale, un segno solo suo, un segno che rende la sua arte solo sua: la musica di Paolo Preite e basta.
Paolo è un musicista autodidatta. Questo gli ha permesso sicuramente di trovare con più facilità la sua strada, senza essere troppo condizionato dagli ambienti accademici. Nonostante questo ha studiato la musica a fondo, e non solo quella, visto che la sua vasta cultura l’ha portato a scrivere addirittura dei testi in latino! Va detto comunque che la lingua che predilige è l’inglese, anche se Paolo crede che, in fin dei conti, la lingua è solo una forma, poi l’importante è quello che si vuole trasmettere, la sostanza delle cose e non la loro apparenza.
Il cantautore è giovane, ma ha già ottenuto molti consensi, se si pensa che tra non molto pubblicherà il suo primo album, prodotto da un personaggio speciale: Fernando Saunders, storico bassista e produttore di Lou Reed (che ha lavorato anche con Jeff Beck, Ian Hammer, Jimmy Page e molti altri), e vedrà la partecipazione di Kenny Aronoff, uno dei più richiesti batteristi della musica rock, che ha suonato con artisti come Bob Dylan, John Fogerty, Satriani… si tratta di un trampolino di lancio importantissimo per Preite, che vede così appagare i suoi sogni, il suo talento e il suo grande impegno.
Sono molti gli artisti e i generi di cui l’ascolto ha contribuito alla formazione del giovane musicista: dal Soul di Al Green ai Pink Floyd, Queen, Beatles, Rolling Stones, The Who, Jimi Hendrix, Bruce Springsteen… Paolo apprezza anche alcuni cantautori e gruppi italiani come Battisti, Celentano, Rino Gaetano e band come il Banco del Mutuo Soccorso. In ogni caso, come accennavo all’inizio, il suo stile è del tutto personale, uno stile che, certo, ha inglobato in sé un immenso repertorio culturale, ma che alla fine esce come qualcosa di nuovo, influenzato da tutto e da niente. Si tratta di una musica molto emotiva, spontanea, sotto certi aspetti mistica, e sempre capace di entrare con facile complicità nelle corde dell’uditore.
Per gli amici del Corriere dello Spettacolo due brani di Paolo Preite:







17 luglio, 2012

“Concerto per Cortona”, si apprezza l’impegno, ma il giovane Arcaini deve fermarsi a riflettere!



Teatro Signorelli, Cortona. Domenica 15 luglio 2012
Anthony Arcaini con l’Orchestra Sinfonica Guido d'Arezzo e la Corale F. Coradini.

Non è semplice per un’orchestra relazionarsi con un giovane direttore d’orchestra di appena 17 anni, qual è Anthony Arcaini, e questa difficile relazione tra le due parti porta a una sorta d’incomunicabilità che certo non può favorire la riuscita del brano musicale. Arcaini ha diretto L’ Overture da “Le nozze di Figaro” di Mozart e la “Sinfonia n. 7” di Beethoven (senza parlare poi della sua composizione “Inno a Cortona” di cui spenderò parole più tardi), in cui in entrambe è emerso un grosso limite: la mancanza di energia, la mancanza di vigore, la mancanza di forza, di “forza” intesa sia come potenza beethoveniana, sia come vivacità mozartiana. Tutto troppo piatto per Arcaini, che rende queste composizioni troppo formali, prive di spinta spontanea, perché il direttore non approfondisce i ritmi orchestrali e sembra rinunciare del tutto a giocare tra i “piano” e i “forte”… se quindi a un certo punto una voce dalla platea ha gridato: “Che noia!”, non aveva torto nel sentire così frantumare la vivacità orchestrale mozartiana. Di Mozart era anche in programma un altro pezzo: “Ave Verum Corpus”, un mottetto in cui, certo, il rapporto tra il coro e l’orchestra poteva essere reso con maggior efficacia, visto che paiono due corpi isolati che non dialogano tra di loro.
Ma, dopo aver parlato dell’Arcaini direttore, posso parlare dell’Arcaini compositore, in cui il musicista propone un inno dedicato alla città etrusca: “Inno a Cortona”. Mi ricordo di aver assistito qualche anno fa a un’esecuzione di un’altra sua composizione, in occasione del Tuscan Sun Festival, e i limiti che io trovai allora in quella composizione li ritrovo ora in questa: il tutto risulta alquanto disorganico, le tonalità attribuite alle diverse parti orchestrali non interagiscono bene tra di loro; non esiste, anche in questo caso, alcuna intenzione di giocare tra i “piano” e i “forte”, benché ci sia l’ambizione di giocare con i diversi timbri strumentali, senza peraltro che i diversi motivi che escono dagli strumenti siano in qualche modo collegati tra di loro; anche nella relazione tra coro e orchestra si sente che ci sono dei nessi tonali che non funzionano…Tutto pare casuale, disordinato e credo che, allora, al Tuscan Sun Festival, scrissi proprio la stessa cosa.
Non ho notato allora dei miglioramenti nel giovane Maestro Arcaini, ma questo non pregiudica certo le speranze per il suo futuro, purché intenda veramente riflettere sui suoi odierni limiti.

Cortona, terra cinta
Di secolare storia
Sempre sarai nel cuore
Sempre ti avrà lo sguardo
Di chi il tuo suolo sfiorò.
Città più antica non c’è
Città più bella di te.

Queste le parole dell’inno, scritte dal professore, scrittore e giornalista Nicola Caldarone, che ha prestato il suo lavoro per dare alla creazione di Arcaini le parole, belle parole che certo un cortonese accetta e in cui si può riconoscere volentieri; la stessa cosa, credo, non si può dire per la musica che le parole accompagna.

Stefano Duranti Poccetti


15 luglio, 2012

"Vuoto del Tempo", poesia di Francesco Cesareo



Albrecht Dürer, Melencolia
In un’epoca senza tempo, in un’epoca d’incertezza, che rende il futuro incomprensibile, si colloca questa poesia di Francesco Cesareo, un giovane poeta di Salerno molto attento alla realtà che lo circonda e capace d’interiorizzare questa realtà per renderla Poesia…


Vuoto del Tempo

Se il tempo passato è un tempo, che rumore ha?
Alcuni lo chiamano memoria
altri solo ricordi
altri ancora il tic tac dell’ orologio.
Ognuno ha il suo tempo fatto di memoria, tic tac e ricordi.
Lui è immutabile solo agli occhi del distratto.
Al viandante è l’ incedere del passo.
Il tempo non ha tempo
È attimo

Francesco Cesareo

14 luglio, 2012

Quella luce che hanno le donne. Mostra: “L’odore della luce. Il mondo femminile nella pittura dell’ '800 e del primo ‘900”



Ettore Tito, Pagine d'Amore

Donne che aspettano, che cuciono, che vangano, che piangono, che passeggiano, che dipingono, che cavalcano, che raccolgono le olive, e tante altre occupazioni e stati d’animo, possono essere osservate e apprezzate nella mostra “L’odore della luce. Il mondo femminile nella pittura dell’ '800 e del primo ‘900” a Palazzo della Marra di Barletta, fino al 19 agosto.
Chi si trovasse durante le vacanze in quella parte d’Italia così ricca di arte romanica che è la Puglia, non dovrebbe mancare di fare una visita all’imponente Palazzo rinascimentale sede innanzitutto della Pinacoteca Giuseppe De Nittis, l’eccellente pittore cui Barletta diede i natali nel 1846, per un tuffo, non nel bel mare del Gargano ma, per cambiare, nell’atmosfera raffinata e seducente della Belle Epoque.
Il titolo della mostra è forzatamente originale e troppo vasto per riferirsi a una pittura prettamente italiana, a volte provinciale e secondaria, sebbene non meno piacevole ed espressiva. Una volta a tu per tu con i quadri, par di sentire, forse suggestionati dal titolo, l’ odore del fieno, dei fiori, delle lettere d’amore, delle essenze sui cappelli, della pelle, del muschio, in quelle atmosfere solari, così italiane, delle campagne, dei giardini, dei parchi, delle cucine, delle stanze dove creano e amano le donne.
Da una finestra del palazzo scosto la tenda e vedo in lontananza il mare azzurro, la ruota di un Luna Park ferma nel pomeriggio silenzioso e afoso, una grande struttura industriale il cui metallo brilla sotto il sole.
Ritorno ai quadri, anche qui ci sono il mare e il sole del pomeriggio, la penombra di una stanza, le luci della sera, il cielo terso, visi di donne che si stagliano nel colore nitido e preciso, o che sfumano nella tela perdendo consistenza, non l’anima.
Pio Joris, Vanità campestre
Pittori come Giovanni Boldini, Giuseppe De Nittis, Telemaco Signorini, Silvestro Lega, Pellizza Da Volpedo, Odoardo  Borrani, Giovanni Giani,Vincenzo  Irolli, Francesco Paolo Michetti, Pio Joris e tanti altri, dipingono ritratti delicati e commossi delle donne che hanno popolato il loro mondo e la loro epoca. Omaggiano l’universo femminile lasciando ai posteri quei documenti inestimabili che sono le opere pittoriche, attraverso le quali possiamo ripercorrere, come in questo caso, la storia della donna nella società e nel privato.
Colpisce di Silvestro Lega “Il primo dolore” in cui una giovanetta vestita di bianco tiene tra le palme aperte, come fossero un nido, un uccellino morto e lo guarda, senza lacrime, ma soffrendo, appunto, il suo primo dolore.
Anche Pellizza  Da Volpedo messa da parte la sua natura di cronista pittorico delle schiere contadine e delle lotte di classe, entra in punta di piedi in una stanza spoglia e monocromatica per cogliere il “Ricordo di un dolore” di una donna seduta, dall’età indefinita che, con lo sguardo fisso nel vuoto, tiene in grembo quello che presumibilmente appare un diario. E tra le pagine Pellizza  Da Volpedo ci lascia una primula seccata, quasi svanita, ma di cui è ancora possibile riconoscere il giallo e il viola dei petali. Come gialla è la cintura che le cinge la vita.  Non c’è dubbio che quel dolore sia dovuto a una pena d’amore.  E se così non fosse, ci piace pensarlo lo stesso.
Di Torello Ancillotti vediamo tre quadri: “La pittrice”, “En revant” e “Rougeur du soir”, che ci trasportano come fanno Vittorio Corcos con “Istitutrici ai Campi Elisi”, De Nittis con “Signora in giardino” e Boldini con “Signora con l’ombrellino” in atmosfere parigine, romantiche e sensuali.
Giovanni Boldini, Signora con l'ombrellino
Invece Angiolo Tommasi, pittore livornese, intinge i pennelli nelle zolle di terra e dipinge “Ultime vangate”, quadro di grandi dimensioni dove alcune contadine affondano con forza le vanghe nel suolo, ma sembrano farlo con delicatezza e generosità tutta femminile, come se tenessero tra le mani i loro bambini.
E l’altro Tommasi, Adolfo, cugino di Angiolo, dipinge un quadro soave e romantico di un “Idillio”, dove una giovane coppia elegantemente vestita, a ridosso di una staccionata che divide un campo di frumento da una strada di campagna, conversa d’amore lontano da sguardi indiscreti ma sotto la luce del sole di un pomeriggio estivo toscano.
La conversazione e la lettura sotto il pergolato, sulla riva, sono il tema del quadro di Ettore Tito, in cui donne sognanti, attente, curiose, ascoltano leggere una “Lettera d’amore”.
Sposto lo sguardo dalle tele alle bianche pareti e mi colpisce una bella scelta di poesie di Neruda, D’Annunzio, Campana e brani tratti dalla Serao, Verga, Capuana.

In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose.
Dino Campana a Sibilla Aleramo

Subito associo questa poesia al quadro di Giovanni Giani “Il mattino delle rose. L’attesa” .

Tutto questo vasto mondo femminile, cui anch’io appartengo, e qui dipinto esclusivamente da mani maschili, mi gira intorno colorato, gioioso, sofferente, prezioso, irripetibile. E penso a tutto quello che è successo dopo, i progressi fatti, le lotte, la nostra emancipazione, e quello che ancora rimane da conquistare.  Eppure se riguardo la donna intenta a cucire, quella che lavora la terra, la signora che si ripara sotto all’ombrello, la contadinella del quadro di Pio Joris che si vanta della sua bellezza, la madre al capezzale, la giovane in attesa dell’amore, ho la sensazione che le donne non siano mai cambiate, eppure in silenzio e con generosità hanno la forza di cambiare il mondo e di rischiararlo.
Sarà per via di quella luce…

Daria D.

12 luglio, 2012

TRISTI TROPICI. Da Lévi-Strauss a Virgilio Sieni, "Addio selvaggi! Dove siete finiti?"



Mi chiama il selvaggio dentro di me
la sua eco si scontra con l’uomo mascherato fuori di me

Mi chiama e piange
mi chiama e ride
mi chiama e scoppia

Urlo animale del selvaggio
bisbiglia un verbo primordiale
e richiama la pura e dolce età dell’oro.

Selvaggio”, di S.D.P.



Buio in scena, ma non è il buio di un finale, ma di un inizio, un inizio in cui lo spettatore vede un pavone, formato dalla coppia di due danzatrici, che rotola solennemente verso il fondo della scena, finché non s’infrange contro il sipario, che cade letteralmente sotto lo sguardo del pubblico.
Si tratta dell’esordio dello spettacolo di danza contemporanea “Tristi Tropici”, della Compagnia Virgilio Sieni. Dal titolo si capisce subito il palese riferimento al celebre omonimo libro che Claude Lévi-Strauss pubblicò nel 1955. Questo è un testo in cui l’antropologo francese ricorda, quasi con una nostalgia del non ritorno, le tribù indigene del Brasile, conosciute nella sua gioventù, e di queste spiega la cultura, le tradizioni, i riti del villaggio.
A dire il vero, se il riferimento è tanto ovvio nel titolo dell’esibizione, non lo è altrettanto per quanto riguarda il suo pratico svolgimento. Se non conoscessimo il nome della performance riusciremmo ad assimilarla alla pubblicazione dell’inventore dell’antropologia strutturale? Di sicuro molto difficilmente. Rimangono comunque vari elementi che congiungono i “Tristi Tropici” di Lévi-Strauss a quelli di Virgilio Sieni -regista, coreografo, creatore della messa in scena- e scopo di questo studio è proprio quello di metterli in relazione tra di loro.
Ma andiamo per ordine e cominciamo a parlare dello spettacolo per poi, trasversalmente, parlare di tutto il resto. “Tristi Tropici” è una rappresentazione della durata di circa cinquanta minuti ed è diviso in tre parti ben strutturate e bilanciate tra di loro (che prossimamente tratterò una ad una), come accade spesso nelle creazioni di Sieni. Si tratta di un equilibrio sia per quanto riguarda la lunghezza temporale sia per quanto riguarda l’intensità delle scene e dei loro contenuti, create dalla gestualità delle performers -si tratta di uno spettacolo tutto al femminile- e dagli effetti cromatici delle luci, che danno luogo ad atmosfere immaginifiche.
Ho già parlato dell’incipit, della “introduzione” del “Tristi Tropici” portato in scena, in cui già emerge un elemento che porta con sé una grande forza simbolica ed evocativa: il pavone.
Il pavone rappresenta l’elemento trasfigurante, meraviglioso, tentacolare del mondo asiatico. Vedo la prima parte dello spettacolo come un’uscita. C’è un animale lungo e umano, colto nel momento in cui esce di scena, strisciando, già un po’ in agonia[1].
Sono le parole dello stesso Virgilio Sieni, che pone questo elemento come un benvenuto verso il meraviglioso, quel meraviglioso che rischia di andare perduto, se non lo è già, anche per lo stesso Lévi-Strauss:

Capisco allora la passione, la follia, l’inganno dei racconti di viaggio. Essi danno l’illusione di cose che non esistono più e che dovrebbero esistere ancora per farci sfuggire alla desolante certezza che ventimila anni di storia sono andati perduti. Non c’è più nulla da fare: la civiltà non è più quel fragile fiore che, per svilupparsi a fatica, occorreva preservare in angoli riparati di terreni ricchi di specie selvatiche, indubbiamente minacciose per il loro rigoglio, ma che permettevano anche di variare e rinvigorire le sementi. L’umanità si cristallizza nella monocultura, si prepara a produrre la civiltà in massa, come la barbabietola. La sua mensa non offrirà ormai più che questa vivanda.[2]

Il senso del meraviglioso perduto sembra quindi essere uno dei temi portanti sia del libro di Strauss che della rappresentazione del coreografo fiorentino e non è un caso che, subito dopo l’uscita di scena del pavone e la caduta del sipario, ci sia spazio per una brevissima sequenza, quasi un flash, in cui si notano in lontananza, in mezzo a un gioco di luci azzurre, due figure umane appena visibili che, tenendo le braccia alzate, sembrano dei totem. Pare un po’ l’immagine di una civiltà perduta, non più presente nella realtà, ma possibile da evocare solo grazie al filtro dell’immaginazione e del ricordo.
Non c’è una vera e propria musica che accompagna lo spettacolo, quelli che l’accompagnano sono invece rumori, echi -anche questi lontani, quasi immaginari- che creano un’atmosfera di sospensione che ci catapulta fuori della realtà e ci fa cadere dentro il mondo dello spettacolo: il meraviglioso mondo delle civiltà lontane.
Solo dopo il flash di cui abbiamo parlato si può dire che la parte introduttiva è stata superata e che siamo arrivati al primo capitolo del nostro percorso, quando vediamo due danzatrici in primo piano –Simona Bertozzi e Michela Minguzzi- disposte inizialmente inginocchiate a terra, che, abbracciate tra di loro, formano una sorta piramide, come accade sovente nelle rappresentazioni dei quadri rinascimentali -quella dell’arte visiva è una cultura molto cara al coreografo Sieni.
Le performers cominciano a ondulare braccia e mani, dando vita a una gestualità solenne e anche “affettuosa”, perché nel fare questi movimenti si sfiorano, si accarezzano a vicenda, muovendosi in un modo tale da farci pensare a una tecnica: la contact improvisation, di cui lo stesso regista non nasconde l’importanza che ha rivestito nella sua formazione professionale:

La contact improvisation aiuta a lavorare sulle gravità esistenti ed effettive e tutto sta nel darle e nell’accoglierle. È come quando lasci cadere una bottiglia, non cade lentamente, cade come deve cadere. E così anche il corpo. Come disattivare allora tutta una serie di resistenze? Una volta che il corpo cade, però, sorge un nuovo problema. Non si tratta solo di far cadere. A volte ci si ferma lì. Si tratta, invece, di percepire il momento in cui tu sei capace di trasmettere questa tua caduta a un altro movimento o muscolatura o articolazione o quello che vuoi. È in quel momento che si origina la dinamica. La caduta di per sé ti porta a cadere in terra e a rimanere fermo.[3]

 Continuano così le danzatrici, in questa ieratica danza, una danza di “sospensione” che sembra non volere mai smuoversi dalla ripetitività delle immagini figurali –non figurative- create. Si accarezzano ancora, cominciando a giocare anche con le proprie vesti, si mettono distese a terra, per poi riportarsi ancora accovacciate; continua così questa sequenza, con gli stessi “movimenti a onda”, eleganti e solenni, quasi sacri e “affettuosi”, fino a quando qualcosa non si smuove: le danzatrici trovano qualcosa, si tratta di due strisce di carta e cominciano, ciascuna con la sua, a dare loro una forma. Lavorano a specchio, dove le due si “copiano” a vicenda con una precisione accurata, fino a quando l’opera non si è conclusa… hanno composto una particolare figura geometrica composta dalla sagoma di tre gocce d’acqua, pare un arabesco questo oggetto, un oggetto che le due protagoniste della scena si mettono davanti al volto: è una maschera, una di quelle maschere (più precisamente si parla di pitture del volto) di cui lo stesso Lévi-Strauss parla analizzando la tribù dei Caduvei:

[…] Alle donne sono riservate la decorazione della ceramica e delle pelli, e le pitture corporali che vengono eseguite da alcune con raro virtuosismo.
Il loro viso, e a volte il loro intero corpo, è coperto da una rete di arabeschi asimmetrici alternati a motivi di una sottile geometria. […] Mi ero proposto in principio di fotografare i visi, ma le esigenze finanziarie delle belle della tribù avrebbero presto esaurito le mie risorse. Provai allora a tracciare dei visi su fogli di carta suggerendo alle donne di dipingerli come se fossero i loro propri volti; il successo fu tale che rinunciai presto ai miei goffi disegni. Le disegnatrici non erano per nulla sconcertate da quei fogli bianchi, il che dimostra l’indifferenza della loro arte per l’architettura naturale del volto umano. Oggi i Caduvei si dipingono soltanto per essere più piacenti; ma un tempo quest’uso aveva un significato più profondo. Dalle testimonianze di Sanchez Labrador, le caste nobili si dipingevano solo la fronte, mentre il volgo si ornava tutto il viso.[4]
[…] A che cosa, dunque, serve l’arte caduvea?
Abbiamo risposto parzialmente alla domanda, o piuttosto gli indigeni l’hanno fatto per noi. Le pitture del viso conferiscono anzitutto all’individuo la sua dignità di essere umano; esprimono il passaggio dalla natura alla cultura, dall’animale “stupido” all’uomo civilizzato. Inoltre, diverse quanto a stile e a composizione secondo la casta, esprimono in una società complessa la gerarchia delle leggi, e possiedono così una funzione sociologica.[5]

Finito questo le danzatrici si alzano, prendono le loro vesti e sembrano andarsene, mentre cala il buio in scena. È forse simbolo di una comunità costretta a fuggire a causa dell’insediamento della nostra civiltà incapace di capire e di tutelare l’altra? –come, l’abbiamo già visto, sembra emergere dal punto di vista dell’antropologo francese- Può darsi, e pare anche che questa comunità cerchi un altro luogo dove esprimersi, se, non appena le luci si riaccendono, troviamo in scena ancora le due performers che, stavolta, non si cimentano più nella “danza delle onde”, ma, anzi, sembrano proporre una danza animalesca (d’altra parte è chiara la vicinanza, per queste popolazioni, tra animale e uomo e della naturalezza del loro rapporto ce ne parla anche Lévi-Strauss: “A volte il silenzio era rotto da animali per nulla spaventati dall’uomo: un veado, capriolo attonito a coda bianca: bande di imu, piccoli struzzi, o un volo di gazze bianche radente la superficie dell’acqua[6].), una danza libera, che possa restituire la libertà perduta. Si tratta di una danza frenetica, ma che è anche, in qualche modo, controllata dalle performers; poi ancora un abbassamento delle luci e ancora un cambiamento quando vengono rialzate: le due danzatrici non sono più in atteggiamenti animaleschi, ma perfettamente verticali, umane –è forse l’evoluzione della specie quella che ci sta manifestando Sieni? Può essere, è un’ipotesi che non può essere esclusa- e cominciano a muoversi anche qui con frenesia, continuando a mantenere la verticalità, ma con delle cadute verso il suolo che le fanno tornare al piano animalesco. Su questo tema, sul rapporto tra danzatore, linee corporee e come queste si relazionano allo spazio (uno spazio che diventa veramente un protagonista della scena) sono utili le parole di Sieni.

Lo spazio è l’origine e il corpo del danzatore inizialmente non è un corpo che agisce ma un corpo che comprende. È un corpo che ha degli organi e che quindi considera il fatto di un galleggiamento interno e di una sospensione verso gli organi, nelle acque. Ci sono allora due sospensioni, quella dello spazio e quella del corpo interno del danzatore, due sospensioni che cercano di compenetrarsi tra di loro senza agire. Non si deve pressare il corpo per fargli iniziare un’azione, lo spazio non deve essere occupato. Spazio e corpo interno si devono lasciare compenetrare e chi riuscirà a dare maggiore soffio metterà in moto la prima articolazione, la prima cosa apparirà ma sempre in una forma sospesa.[7]

Il rapporto con la terra si fa forte in questo ultimo frangente della prima scena, in cui le danzatrici continuano a muoversi con agitazione, ricominciando a farsi forte lo spirito bestiale, ma è inaspettato lo ieratico finale, in cui vengono alzati al cielo dalle performers due grandi tondi, simboli di totem divini, forse i mariddo della cultura Bororo:

Tre giorni dopo le cerimonie s’interruppero, per poter preparare il secondo atto: la danza del mariddo. Squadre di uomini andarono nella foresta a raccogliere palme verdi che furono anzitutto sfogliate e poi sezionate in tronconi di circa trenta centimetri. Con legature grossolane di frasche secche, gli indigeni unirono quei tronconi in gruppi di due o tre, alla maniera delle sbarre di una scala pieghevole, lunga diversi metri. Fecero così due scale ineguali, che in seguito arrotolarono per formare due dischi pieni, del diametro di circa un metro e mezzo per il più grande e di un metro e trenta centimetri per l’altro. I fianchi vennero decorati di foglie trattenute da una rete ci cordicelle di capelli intrecciati. Questi due oggetti furono solennemente trasportati in mezzo alla piazza, uno accanto all’altro. Sono i mariddo, rispettivamente maschio e femmina, la cui confezione spettava al clan di Ewagudda.[8]

Riprendendo con la mise en scène, sembra che siamo passati dal piano animalesco a quello umano, e da quello umano al piano della credenza nel divino (o a quello dell’immaginazione). Il percorso umano sembra essersi concluso, ma il tutto si è svolto sotto un velo di mistero, dove le performers hanno danzato confuse in una luce spettrale: il tutto pare così un sogno, un ricordo, una rievocazione passata, in cui i movimenti delle protagoniste sono stati prima ondulati, poi frenetici, poi ancora ondulati, poi di nuovo frenetici, come se l’iter corporeo sembri sempre costretto a “sfarsi e disfarsi”, senza poter raggiungere mai la sua completezza, come del resto afferma il filosofo Giorgio Agamben, amico e collaboratore del coreografo fiorentino, a cui si rivolge scrivendo:

Forse è questo che avevi in mente quando nei tuoi appunti scrivevi del “danzatore che perde il suo gesto afferrandolo solo nell’atto della sua scomparsa”. O quando parli del corpo come di un evento in cui tutto incessantemente “accade e decade”. O, ancora, di un “percorso dell’energia”, dalle vertebre alla zona pelvica, fatto di “pressioni e ondulazioni”. Ed è questa intima difonia che fa uscire la tua danza dal canone della danza contemporanea.

La prima parte dello spettacolo è compiuta e, prima di arrivare alla seconda, passiamo attraverso un breve intermezzo in cui vediamo una piccola tribù, formata da donne e da bambine (tutte con al collo carcasse di animali), che escono di scena. Sul palco rimangono solo due danzatrici che si riprendono le fasce di carta (le maschere), lasciate prima, ed escono a loro volta immerse in un’atmosfera formata cromaticamente da una calda luce arancione. Si tratta forse delle tribù dei Bororo, dei Caduvei, dei Nambikwara, dei Tupi Kawahib? Di quelle tribù, di cui parla Lévi-Strauss, costrette ad abbandonare i loro luoghi nativi insediati ora dalla mano incurante di una cultura irrispettosa della diversità? Se ne vanno ed escono di scena, rammaricati, come costretti a lasciare un posto da loro amato; se ne vanno e rimangono alla vista degli spettatori solo le due protagoniste della seconda parte dello spettacolo, quella che vede come tematica l’iniziazione di uno Sciamano a opera di uno che Sciamano lo è già. Questa figura è una delle più emblematiche della tribù. Allo Sciamano sono riconosciute doti magiche, poteri in grado di curare le persone, sia fisicamente che spiritualmente. Lo Sciamano è colui che, tramite i suoi viaggi mentali, fa visita agli “altri mondi”, quelli Divini, per poi tornare con le risposte ai problemi del mondo terreno; lo Sciamano è anche colui che ha sofferto, colui che tramite il dolore è arrivato al grado di sapienza e di saggezza più grande, ed per questo che anche i suoi iniziati devono giungere a ricoprire questo ruolo dopo gravi sofferenze, spesso dopo gravi malattie, e attraverso una rigida disciplina. Di questo parla lo stesso Lévi-Strauss, ma non su “Tristi Tropici”, ma nell’altra sua pubblicazione “Antropologia strutturale”.

Curando il suo malato, lo Sciamano offre al suo uditorio uno spettacolo. Che spettacolo? A rischio di generalizzare imprudentemente certe osservazioni, diremo che questo spettacolo è sempre quello di una replica, da parte dello Sciamano, della “chiamata”, ossia della crisi iniziale che gli ha procurato la rivelazione del suo stato. Ma la parola spettacolo non deve trarre in inganno; lo Sciamano non si contenta di riprodurre o di mimare certi avvenimenti; li rivive effettivamente in tutta la loro vivacità, originalità e violenza. E siccome, al termine della seduta, egli ritorna allo stato normale, possiamo dire, prendendo a prestito dalla psicanalisi il termine essenziale, che egli abreagisce. È noto che la psicanalisi chiama abreazione quel momento decisivo della cura in cui il malato rivive intensamente la situazione iniziale che è all’origine del suo squilibrio, prima di superarlo definitivamente. In questo senso, lo Sciamano è un abreatore professionale. [9]

Ritornando allo spettacolo, inizialmente notiamo le performers di profilo, non sono molto visibili, ma immerse sempre all’interno della calda atmosfera creata dalla luce arancione. Elsa De Fanti (lo Sciamano) comincia a dare luogo a una serie di gesti e movimenti, a tratti composti, a tratti scattosi (straordinaria la vitalità di questa danzatrice, anziana per l’anagrafe, ma dotata, nella realtà, di un corpo giovane e dinamico), imitati dalla sua iniziata (Ramona Caia) –si capisce palesemente quindi che lo “Stregone” sta impartendo lezioni al suo allievo (parliamo al maschile, ma sappiamo che le protagoniste della scena sono donne). Le luci cadono e ritroviamo il Maestro a terra e in preda a una rapida gestualità, è forse caduto in trance? La possessione è un fenomeno importante nella vita dello Sciamano, perché è tramite questa che può entrare in contatto con il Divino. La danzatrice si rialza e compie dei veloci movimenti con le braccia, movenze imitate a specchio dal suo iniziato, disposto davanti a lei. Poi si rialzano, l’iniziato scompare e lo Stregone comincia a danzare passi lenti per poi accelerarli pian piano, accompagnandoli anche con gesti delle braccia che danno luogo a imitazioni animali,  fin quando, sulla destra, in secondo piano, non appare una sorta di totem: una danzatrice che regge in alto una figura geometrica, un rombo: si tratta di una visione, della visione dello Sciamano che sta facendo visita alle Divinità. Le luci si abbassano in dissolvenza e, quando torna la luce in scena, le due danzatrici sono sdraiate e a terra; il Maestro si rialza, l’iniziato rimane al suolo e sembra come posseduto, come prima lo era stato lo Sciamano, ed è proprio quest’ultimo che si avvicina allo Stregone cadetto e gli bisbiglia qualcosa all’orecchio -è la prima volta che la comunicazione avviene tramite il verbo. Lo Stregone continua a impartire le sue lezioni: sale sopra il suo allievo e lo indirizza nei movimenti. I due quasi lottano, per infine ritrovarsi in una particolare posizione: lo Stregone nella posizione di una donna che sta per partorire e l’allievo compie un movimento a terra con il corpo come se sia stato appena partorito dal Maestro: un nuovo Sciamano è nato! È nato ed è in trance, sta visitando anche lui i mondi Divini, tanto è vero che, ancora una volta, riappare il totem, la visione –stavolta al posto di un rombo c’è un tondo, una sorta di mariddo. Le due danzatrici uniscono le loro teste a terra, come a farci capire che finalmente possono “viaggiare insieme”, stanno per raggiungere una dimensione paritaria. Ma ancora il percorso dell’allievo non è terminato: si rialzano e lo Stregone continua a impartire le sue lezioni in posizione verticale, mentre l’iniziato si trova ancora a terra. Solo pian piano si alzerà, tramite una serie di “dolorosi” movimenti e riuscirà a ritrovarsi nella posizione verticale, proprio come lo Stregone, e Ramona Caia non si limita a questo, ma si ritaglia anche una porzione di spazio scenico per un assolo, una danza, la danza del nuovo Sciamano. Una danza frenetica, disarticolata, controllabile e incontrollabile allo stesso tempo, in cui, nonostante le evidenti frantumazioni corporali, la danzatrice riesce a ottenere la massima fluidità. La performer continua con il suo bellissimo assolo, finché lo Stregone, ancora una volta, non le sussurra qualcosa all’orecchio. Qui Ramona cade a terra, senza sensi e stravolta: è duro il percorso per diventare Sciamani, ma sembra che lei ci sia riuscita.
Il finale della seconda parte dello spettacolo è contrassegnato dal ritorno in scena della tribù di donne e bambine che l’avevano lasciata. Le due danzatrici protagoniste sono inglobate nel gruppo sopraggiunto e qui si abbassano nuovamente le luci e si rialzano sugli spettatori, perché è in questa parte del teatro che si svolge la terza e ultima scena dello spettacolo.
La protagonista stavolta è soltanto una, Dorina Meta, una danzatrice non vedente. Si aggira per le scale della platea alla ricerca di qualcosa, con fare incerto, “semplice”, per nulla accademico ed è lo stesso Sieni a dire:

Nella scena con Dorina, in seguito sostituita da un’altra danzatrice non vedente, Filippa, il gesto è più imperfetto ma, guarda caso, più sacro. Non è più realistico, non ci sono sovrastrutture, il gesto è semplicemente più innocente, Dorina e Filippa lo donano a noi completamente senza avere codificato una serie di passaggi per renderlo bello secondo certi canoni. Il loro gesto è attraente per questo. Sono totalmente concentrate in quello che fanno.[10]

È un gesto non codificato allora quello di Dorina, che si muove come spaesata; s’inginocchia vicino alle poltrone degli spettatori, dove, sotto, sono nascosti degli insetti –finti ovviamente- che la performer raccoglie. Dorina è alla ricerca della sua cultura, della sua tribù, sembra essere stata catapultata in un mondo non suo, in una civiltà non sua. C’è poi un altro elemento importante, il più importante, da menzionare: la danzatrice ha il viso dipinto con motivi neri, che si rifanno a quella tradizione Bororo per cui, in occasione di certe onoranze funebri, i danzatori si dipingono di questo colore, ponendosi sul volto degli occhiali di paglia a montatura vuota, quegli occhiali che garantiscono “l’invisibilità”:

Il Personaggio principale che incarnava l’anima appariva in due differenti tenute secondo i momenti: ora vestito di foglie verdi con in testa l’enorme acconciatura già descritta, portando, a mo’ di strascico di corte, una pelle di giaguaro che un paggio sosteneva dietro di lui adesso nudo e dipinto di nero, ornato unicamente da un oggetto di paglia simile a un enorme occhiale vuoto intorno agli occhi. Questo particolare è specialmente interessante per l’analogo motivo che si ritrova in Tlaloc, divinità della pioggia dell’Antico Messico. I pueblo dell’Arizona e del Nuovo Messico posseggono probabilmente la chiave dell’enigma; presso di loro, le anime dei morti si trasformano in divinità della pioggia; ed essi hanno inoltre credenze relative a oggetti magici che proteggono gli occhi e permettono ai loro possessori di rendersi invisibili.[11]

Dorina è allora visibile per tutti noi, ma per lei tutti noi siamo invisibili, la donna e la sua cecità sono così trasformate da Sieni nella danzatrice che si è messa i Divini/magici occhiali vuoti di paglia e si è resa così invisibile. Lei avanza, cammina, convinta che nessuno possa vederla, è indecisa, perché è stata allontanata dalla sua casa, dalla sua tribù, dalla sua famiglia. Solo in un secondo momento giunge sul palcoscenico, dove finalmente sembra ottenere sicurezza in sé stessa (forse ha ritrovato il suo ambiente congeniale?) e dove danza sciolta con Elsa De Fanti, sopraggiunta in scena. Ma poi, subito dopo, rimane nuovamente da sola, fino a quando non arriva un grande uccello –è un’attrice travestita- che si relaziona con Dorina. Le due instaurano un legame di affetto, di vicinanza fisica e spirituale, vicinanza che sarà ancora più forte quando gli uccelli diverranno due. Lo spettacolo termina proprio così, con l’immagine che accentua il positivo rapporto tra uomo e animale, un rapporto che, purtroppo, la nostra società ha perduto e, commettendo questo errore, se ne commette un altro ancora più grave, quello di toglierci una parte di umanità, proprio perché l’animale è inscindibile dall’essere umano, non solo a livello fisico, ma anche spirituale, dove si è andata a perdere anche la sacralità della bestia, riducendola a essere inferiore all’uomo, cosa che non sarebbe mai dovuta accadere. Sembra questo il tema centrale di “Tristi Tropici” di Lévi-Strauss, se nel finale del suo libro, lo stesso antropologo vede il suo gatto come un amico con cui poter scambiare cenni di comprensione:

Come l’individuo non è solo nel gruppo e ogni società non è sola fra le altre, così l’uomo non è solo nell’universo. Quando l’arcobaleno delle culture umane si sarà inabissato nel vuoto scavato dal nostro furore; finché noi ci saremo ed esisterà un mondo –questo tenue arco che ci lega all’inaccessibile resisterà: e mostrerà la via inversa a quella della nostra schiavitù, la cui contemplazione, non potendola percorrere, procura all’uomo l’unico bene che sappia meritare: sospendere il cammino; trattenere l’impulso che lo costringe a chiudere una dopo l’altra le fessure aperte nel muro della necessità e a compiere la sua opera nello stesso tempo che chiude la sua prigione; questo bene che tutte le società agognano, qualunque siano le loro credenze, il loro regime politico e il loro livello di civiltà; in cui esse pongono i loro piaceri e i loro ozi, il loro riposo e la loro libertà; possibilità, vitale per la vita, di distaccarsi e che consiste –addio selvaggi! Addio selvaggi!- durante i brevi intervalli in cui la nostra specie sopporta d’interrompere il suo lavoro da alveare, nell’afferrare l’essenza di quello che essa fu e continua a essere, al di qua del pensiero e al di là della società; nella contemplazione di un minerale più bello di tutte le nostre opere; nel profumo, più sapiente dei nostri libri, respirato nel cavo di un giglio; o nella strizzatina d’occhio, carica di pazienza, di serenità e di perdono reciproco che un’intesa volontaria permette a volte di scambiare con un gatto.[12]

Uno spettacolo completamente al femminile quello di Sieni (d’altra parte la Natura non è donna?) in cui le protagoniste della scena sono tutte danzatrici che fanno del loro corpo l’elemento fondamentale del palcoscenico; un corpo inserito all’interno di atmosfere create con suggestivi giochi di luce, che sembrano come sospendere la dimensione spazio-temporale. Dove siamo? In che epoca? Non possiamo rispondere… si tratta di un ricordo, di un’epoca che forse c’è stata, forse no, di sicuro di un’epoca che si è persa, di un’epoca sospesa all’interno del “silenzio della foresta”. Era un’epoca in cui gli uomini veneravano la Natura e l’Animale e in cui vigeva un pacifico equilibrio armonizzante. Scrive Vito Di Bernardi, in un saggio pubblicato sul programma di sala di “Tristi Tropici”, di cui non tarderò a parlare:

Il pensiero selvaggio infatti non è “il pensiero dei selvaggi” ma è qualcosa che ci appartiene, è una modalità del pensiero dell’uomo. Più che primitivo esso è primario: è il pensiero delle origini, una scienza del concreto che utilizza per significare, costruire, modificare il mondo, una lingua di segni incarnata nella realtà fisica, naturale. Il pensiero selvaggio è un pensiero-corpo molto vicino a quel confine tra naturale e cultura, tra animale e umano, tra sensibile e intellegibile, il cui passaggio ha segnato l’inizio della storia dell’uomo.[13]

Non sempre è facile trovare i riferimenti dello spettacolo sulla pubblicazione dell’antropologo francese, ma per questo può essere di aiuto anche lo stesso programma di sala, accennato poc’anzi, un programma completo in cui, in diciotto punti, vengono evidenziate le tematiche della messa in scena e i collegamenti con Lévi-Strauss, e credo proprio che questo studio possa essere completato con uno di questi punti, il quarto, che dovrebbe farci riflettere: “In queste tribù visitate da Lévi-Strauss è sedimentato il seme dell’uomo proiettato verso la trascrizione di un sistema sociale adatto a viverci nella grandezza indefinibile degli inizi, nell’infanzia dei popoli, e che pone noi occidentali come responsabili della loro distruzione[14].

Stefano Duranti Poccetti




Bibliografia generale:


Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1978

Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008

AA.VV. Tristi Tropici, Artout Maschietto Editore, Firenze, 2010

Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos, 2011
























[1] Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos, 2011, p.48
[2] Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008, p.31
[3] Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos, 2011,p. 27
[4] Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008, p. 160
[5] ibidem, p.164
[6] ibidem, p.145
[7] Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos, 2011, p.17
[8] Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008, p.201
[9] Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1978, p.204
[10] Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos, 2011, p.50
[11] Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008, p.200
[12] Ibidem, 357
[13] AA.VV. Tristi Tropici, Artout Maschietto Editore, Firenze, 2010, p.11
[14] AA.VV. Tristi Tropici, Artout Maschietto Editore, Firenze, 2010, p.26