
31 luglio, 2012
Il "podio" del "Concorso La Nuova Critica" è firmato Corriere dello Spettacolo

“La Bottega del caffè” di Carlo Goldoni. Il caffè come “droga” della comicità…
Teatro Poliziano,
Montepulciano. “Cantiere Internazionale d’Arte”, venerdì 27 luglio 2012. “La
Bottega del caffè” di Carlo Goldoni
È una bottega del
caffè –il locale che oggi chiameremmo presumibilmente “bar”- l’ambiente in cui
prendono vita le vicende dei personaggi: e la vicenda del giovane Eugenio, che
perde tutto al gioco, rischiando così anche di perdere la propria moglie
Vittoria, e la vicenda della pellegrina Placida, alla ricerca di suo marito,
scappato da lei per darsi a una ballerina spacciandosi per nobile… accanto alle
vicende troviamo gli “architetti” delle vicende, quei “personaggi
marionettisti” tramite i quali le azioni prendono vita sul palcoscenico.
Ridolfo è il caffettiere della bottega, è il “saggio” della Commedia, colui che
riesce a riportare le situazioni alla loro normalità, facendo sì che i
personaggi, partiti da un contesto di
disequilibrio interiore, arrivino alla fine del dramma ad acquistare una consapevolezza
che innalza anche il loro stato morale, che riporta all’armonia del tutto. Don
Marzio è invece il gentiluomo napoletano che, consapevolmente o
inconsapevolmente, porta le persone che lo frequentano a perseguire una cattiva
strada, quella del gioco –i giovani sono infatti influenzati da questa figura
fin dall’inizio del dramma, fino a quando, come detto, non acquisiscono, nel
finale, una consapevolezza morale.
La pièce portata con
la regia e l’adattamento di Carlo Pasquini è piacevole e, se ci si rende conto
di certe pecche, va ricordato che non si tratta di una compagnia formata
interamente da professionisti, si tratta in effetti di una compagnia
semi-professionale. Nonostante questo il ritmo comico funziona, benché non sia cadenzato
in modo perfetto; suggestiva la scenografia, creata con una serie di tavoli
posti orizzontalmente sul palco, che scandiscono lo spazio, il tempo, le azioni
dei personaggi; distinti anche i costumi, stilizzati, ma in linea con il tempo
storico goldoniano. Tra gli attori vanno sicuramente menzionati Gianni
Poliziani, abilissimo nel creare la maschera goldoniana, nei panni di Don
Marzio, poi anche Mascia Massarelli, che nel ruolo di Ridolfo è brava a
immedesimarsi in un ruolo maschile il cui compito è quello di dare sicurezza e
fiducia ai personaggi sulla scena. Ricordo anche la performance di Armando
Sciabbarrasi nei panni del divertentissimo e frenetico garzone Trappola. Mi
piace annoverare, comunque, come di solito è mio uso, anche il resto degli
attori, perché il teatro è un “gioco di squadra” e tutti sono importanti per il
risultato finale, quindi: Tommaso Ghezzi nei panni di Eugenio, Guido Dispensa
nel ruolo di Flaminio, Francesca Fenati nel ruolo di Placida, Maria Carla
Generali nei panni di Vittoria, Francesca Lazzeri come Lisaura (la ballerina),
Giacomo Testa come Pandolfo, Giulio Fiorani, Rachele Santoni e giuliano Scroppo
come garzoni, Camerieri e birri.
Buona la regia di
Carlo Pasquini, che fa anche utilizzo delle musiche di Mozart, che sembrano
adattarsi bene alla messa in scena.
Stefano Duranti
Poccetti
La bottega del caffè
di Carlo Goldoni
Carlo Pasquini, regia
Stefano Mondini -
Tiziano Ramera, scene e costumi
Renato Vadalà e Pietro
Sperduti, luci
con
Mascia Massarelli, Gianni Poliziani, Tommaso Ghezzi, Guido Dispenza, Francesca
Fenati, Maria Carla Generali, Francesca Lazzeri, Giacomo Testa, Armando
Sciabbarrasi, Giulio Fiorani, Rachele Santoni, Giuliano Scroppo
Una vignetta per un evento: Paolo Rossi al Cortona Mix Festival 2012...
Centro Sant'Agostino, Cortona. "Cortona Mix Festival", domenica 29 luglio 2012. "Il nostro mondiale", con Andrea Scanzi e Paolo Rossi.
30 luglio, 2012
“OMAGGIO A CHARLIE CHAPLIN - TEMPI MODERNI”. L’Era industriale insorge, ma il sogno non morirà mai.
Piazza Signorelli,
Cortona. “Cortona Mix Festival”, sabato 28 luglio 2012
Apertura in grande
stile per il nuovissimo "CORTONA MIX FESTIVAL", che ha scelto di
affidare al genio di Charlie Chaplin ed al suo capolavoro "TEMPI
MODERNI" il compito di celebrare degnamente la propria serata inaugurale.
Ad impreziosire un evento già di per sé succoso (soprattutto per i cinefili) ha
contribuito la presenza dell' "ORCHESTRA DELLA TOSCANA" che, sotto la
direzione del Maestro statunitense Timothy Brock, ha accompagnato il film dal
vivo eseguendo le musiche originali composte dallo stesso Chaplin; il tutto,
nella suggestiva cornice di Piazza Signorelli, tradizionale sede di spettacoli
all'aperto nelle estati cortonesi.
Un esperimento
decisamente riuscito e gradevole, soddisfacente sia sul versante visivo -il
film è stato riproposto nell'edizione recentemente restaurata- che sonoro
-esecuzioni impeccabili ed in pieno spirito chapliniano (indimenticabile e
sempre commovente il tema di "SMILE"), perfetta fusione tra immagini
e temi musicali, degna dell'edizione originale-; in merito a questo secondo
aspetto tecnico, è opportuno aggiungere che, per prepararsi degnamente
all'evento, il maestro Brock ha proceduto ad un accurato e rigoroso studio
"filologico" delle partiture originali, accedendo direttamente ai
prestigiosi Archivi Chaplin.
Molto incoraggiante,
in ottica festival, la risposta a questa prima chiamata da parte di un pubblico
anagraficamente variegato e partecipe, il cui entusiasmo riapre il dibattito,
innescato dal fenomeno "THE ARTIST" -Premio OSCAR come miglior film
2012-, circa l'attualità del cinema muto e le potenzialità ancora inespresse da
un genere, o piuttosto da un modo di fare cinema, considerato ufficialmente
estinto dalla fine degli anni '20 circa (salvo eccezioni, come lo stesso
Chaplin, che porterà avanti la bandiera del muto fino ai tardi anni '30, e
sporadici ripescaggi nel corso dei decenni successivi). Fa davvero riflettere
il fatto che, nell'epoca del bluff ( Sì! ) del cinema 3D, ultima trovata per
ravvivare un panorama cinematografico asfittico e stagnante, ci siano ancora
così tante persone (tra cui molti giovani) disposte a fare la fila per
assistere alla proiezione di un muto del 1936... forse, dopotutto, i
sostenitori del cinema di sostanza rispetto a quello dell'apparenza (dove
l'orgia rutilante di effetti speciali da capogiro e i brividi tridimensionali
fungono soltanto da specchietti per le allodole piazzati per mascherare
sceneggiature a dir poco inconsistenti) non sono così pochi come il mercato
vorrebbe far credere.
Che dire poi della
freschezza e dell'attualità di un gigante come Chaplin, passato indenne
attraverso le ingiurie del tempo, capace ancora di far ridere e commuovere
anche a distanza di decenni, generazione dopo generazione... cos'è l'eternità
anelata da un artista, se non questo?
Due parole sul film.
Charlot, alle prese
con il lavoro disumano alla catena di montaggio, impazzisce e finisce
ricoverato in ospedale. Appena il tempo di uscirne, guarito ma disoccupato, che
la polizia lo arresta nel corso di una retata contro un gruppo di manifestanti.
In carcere, sventa una rivolta e si riguadagna la libertà; una volta fuori, si
innamora di una giovane orfanella che salva da un arresto per furto, tenta
senza successo vari lavori combinando un disastro dietro l'altro, entra ed esce
di prigione in continuazione, finché sembra arrivare finalmente l'occasione
giusta: i due fidanzati vengono assunti come cantanti in un ristorante-dancing
(imperdibile l'esibizione di Charlot che si mette a improvvisare cantando in
una lingua inesistente, una specie di francese maccheronico e dadaista) facendo
furore, ma l'arrivo delle forze dell'ordine li costringe ad una precipitosa
fuga. Nonostante tutto, si può tentare ancora: il futuro è una lunga e faticosa
strada da percorrere a piedi partendo all'alba, possibilmente col sorriso sulle
labbra, verso un orizzonte forse irraggiungibile.
Tempi moderni, ovvero
l'uomo di fronte al progresso ed alle sue "meraviglie": il fordismo,
lo stress quotidiano, le lotte operaie, la disoccupazione, gli scioperi,
l'emarginazione e, sì, perfino la droga (divertentissima la scena in cui un
Charlot sballato marcia verso la cella girando su se stesso). Ridere pensando e
pensare ridendo: dietro il paravento della consueta dose di gags comiche che
fanno di quest'opera un film inequivocabilmente comico (sì, ma non solo, come accade
sempre con Chaplin), il regista piazza una critica aspra ed irridente della
società industriale e si interroga sull'incidenza della tecnologia nella vita
dell'uomo, guardando al progresso con lo stesso scetticismo-pessimismo che sarà
poi di Kubrick, Tati e Pasolini; il tutto, rinunciando quasi completamente al sonoro -per essere
precisi, più che di film muto dovremmo parlare di un "ibrido", dato
il ricorso qua e là ad effetti sonori utilizzati sia in funzione narrativa che
per ottenere l'effetto comico (come nella scena del tè)-, per affidare ancora
una volta alla potenza delle immagini il compito di veicolare le proprie idee.
Evidente, in
chiusura, l'esortazione alla speranza e all'ottimismo contro rassegnazione e
scoramento: solo continuando a sognare si può trovare la forza per andare
avanti.
Francesco Vignaroli
29 luglio, 2012
Valentina, una donna di scomposta libertà e sensualità. Sognando tra le immagini della mostra romana “Valentina Movie”, a Palazzo Incontro fino al 30 settembre.
Mi trovo in un parco
giochi per adulti, mi aggiro come in trance tra i chioschi, le giostre, leggo le
scritte, i messaggi, guardo le foto, ascolto voci e musiche, non so decidermi dove
entrare.
Tutto mi attrae, m’incuriosisce,
sento l’aroma inebriante del proibito, dell’eros, del peccato: è il luna park
più strano che io abbia mai visto.
Sto forse sognando?
Poi, dalle pareti di un’attrazione, la
struttura è di un palazzo barocco in una stradina della vecchia Roma, la
gigantografia del viso di una bella donna dai capelli neri tagliati a caschetto
e gli occhi marcati di eye-liner, assomiglia all’attrice degli anni venti Louise
Brooks, silenziosamente ma con decisione, con uno sguardo ammiccante e
malizioso, m’invita a entrare…
Non ci penso due
volte, ogni lasciata è persa, diceva qualcuno, e poi quella maschietta è troppo
intrigante per passare oltre.
Entro e di nuovo il
suo volto, sembra proprio che mi guardi. Mi ha forse fatto l’occhiolino?
Così comincia il mio
viaggio tra i sogni di Valentina, personaggio uscito nel 1965 dalla penna di Guido
Crepax e messo in mostra con il titolo “Valentina Movie” nelle sale di Palazzo
Incontro nella Capitale fino al 30 settembre.
E se i suoi sogni
fossero anche i miei? I nostri?
Vediamo che succede…
La vedo in posa sexy nel
pannello a grandezza naturale che sta in mezzo alla sala, indossa lunghi
stivali di vinile con zip laterale, tre cinture intorno alla vita, e le
macchine fotografiche appese al collo le coprono a mala pena il seno nudo.
Tutto normale per Valentina. E ci chiede anche di posare: “Fermi così!”.
Poco dopo è lei a
passare con disinvoltura al ruolo di modella e allora le pose non sono più di
chi possiede ma di chi è posseduto: languidamente distesa su una chaise longue,
accarezzando un gatto, o accarezzando se stessa, facendo le fusa a sua volta,
specchiandosi e cambiandosi d’abito, spogliandosi e lasciando cadere le
mutandine di pizzo. Valentina è irriverente e libertina, le piace provare
tutto, soprattutto i sogni.
Continuo a sognare
anch’io mentre passo tra le sale della mostra.
In un video Valentina
a cavallo di una scopa, rigorosamente nuda, si lancia da una finestra e vola
nel cielo di città immaginarie, di cui a volte riconosciamo uno scorcio, una
piazza, una fontana.
Schiava e padrona,
modella e art director, dolce e aggressiva, individualista e feticista, non
perde mai l’eleganza e la carica erotica. Le sue antitesi si compongono e
scompongono secondo le situazioni, con disinvoltura Valentina mette e toglie
maschere, come mette e toglie un vestito.
Ogni sogno è diverso,
ogni incubo pure. Assapora ogni sensazione, vive ogni storia, camminando con
passo sicuro su sandali vertiginosi, avvolta in pellicce lunghe fino ai piedi, indossando tute che le aderiscono al corpo
come una seconda pelle oppure hot pants che le lasciano scoperte le gambe
mozzafiato. Sembra che tutto quello che
tocca le appartenga e lo sappia usare e dominare con bellezza e sicurezza,
senza sentimentalismi o cadute di stile. Anche quando scompostamente si siede
divaricando le gambe con una camicetta aperta sul seno, in attesa del prossimo
round.
Crepax disegnava con
un sottofondo di musica jazz, forse perché è la musica più simile a Valentina,
una musica nata da spiriti liberi, o che anelavano a esserlo, che si può
improvvisare nei locali o per le strade, che tocca la pelle, che ama il sogno e
anche la realtà, proprio come la nostra eroina.
Non so più nemmeno io
se sto sognando o se le stradine del centro storico di Roma e poi il Tevere che
scorre lento e verde sotto il ponte dell’Ara Pacis siano parte di una storia di
Valentina, al di fuori di quel magico luna park che è il nostro inconscio.
Ma il gelato che mi
rinfresca in una caldissima giornata d’estate mi riporta alla realtà.
Eppure sto ancora
pensando a Valentina…
Daria D.
26 luglio, 2012
FASCINOSO ASTOR - Omaggio al tango di Astor Piazzolla
Teatro Giuseppe Verdi,
Monte San Savino – Orienteoccidente, Festival delle Musiche. Lunedì 23 luglio
2012
FOUR FOR TANGO :
MASSIMILIANO
PITOCCO Bandoneon
ROSARIO MASTROSERIO Pianoforte
ALESSANDRO
VAVASSORRI Violino
GIOVANNI RINALDI Contrabbasso

Di tutto ciò ci (a
noi fortunati presenti, e non eravamo in pochi) hanno dato un'efficace
dimostrazione gli ottimi FOUR FOR TANGO, invitati al FESTIVAL MUSICALE SAVINESE
per ricordare Piazzolla a venti anni esatti dalla sua scomparsa, attingendo
dallo sterminato repertorio del Maestro alcune tra le sue composizioni più
celebri - la famosissima "OBLIVION", ma anche la "MILONGA DEL
ANGEL", "ADIOS NONINO" e "MICHELANGELO '70"- accanto
alla gradita sorpresa di temi meno noti ma comunque molto apprezzati dal
pubblico presente -"EL PENULTIMO", "JEANNE Y PAUL" e il
meraviglioso "CONCIERTO", decisamente il momento clou della serata-,
per arrivare alla chiusura con l'immancabile "LIBERTANGO", il tema
piazzolliano in assoluto più conosciuto nel mondo (ancorché non il migliore, almeno
a parer mio). Esecuzioni impeccabili, rispettose ed emozionanti quanto basta
per non deludere un appassionato incallito come il sottoscritto; gradevole la
presenza della coppia di ballerini di tango professionisti Tania Grisostomi e
Luigi Bisello, (già campioni italiani di tango 2004 nonché vice-campioni del
mondo, sempre 2004), impegnati a sottolineare delicitatamente l'atmosfera di
alcuni brani o di parti di essi. Peccato solo per la mancata esecuzione della
"RESURRECCION DEL ANGEL", la parte conclusiva della "SUITE DEL
ANGEL" iniziata qui dalla "MILONGA" (anche se in realtà ci
sarebbe prima una "INTRODUCCION", neanch'essa proposta in questa
serata) e proseguita dalla "MUERTE", ma si tratta di un rammarico puramente
soggettivo...
A beneficio dei curiosi,
ecco la scaletta completa del concerto:
Prima parte
VERANO PORTENO
REGRESO AL AMOR
EL PENULTIMO
OBLIVION
PRIMAVERA PORTENA
FRACANAPA
JEANNE Y PAUL
Seconda parte
MICHELANGELO '70
MILONGA DEL ANGEL
MUERTE DEL ANGEL
ESCUALO
ADIOS NONINO
CONCIERTO
LIBERTANGO
Richiamati a forza da
un prolungato e caloroso applauso del pubblico, i quattro musicisti e i due
ballerini si sono concessi per un breve ma gustoso bis "giocoso".
Francesco Vignaroli
25 luglio, 2012
Tra Wagner, Glanert, Wolf e Haydn, le candele si spengono, gli applausi si accendono
Ex
Macelli, Montepulciano, Cantiere Internazionale d’Arte. Domenica 22 luglio 2012
Il
direttore Roland Böer e il pianista Markus Bellheim
con
l’Orchestra del Royal Northern College of Music di Manchester
La serata musicale
continua con il “Concerto per pianoforte ed orchestra n. 1 op. 27” di Detlev
Glanert, composto nel 1994. Anche in
questo nulla si può dire sull’orchestra e sul punto di vista del direttore,
come niente si può dire sull’eccellente interpretazione pianistica di Markus
Bellheim, che riesce a dare un senso a uno spartito pianistico a cui il senso è
difficile da trovare. La composizione di Glanert è infatti veramente pesante:
troppo lunga, troppe false chiusure, una composizione faticosa sia da suonare
che da ascoltare. La prima parte del brano non è neanche male, almeno finché
non si comincia a giocare con esagerazione con gli effetti orchestrali –l’uso
troppo variegato delle percussioni ne è forse il più palese esempio-, che
rendono il tutto troppo appesantito e caotico. Altre caratteristiche del brano
–che a mio avviso diventano un limite- sono i suoi passaggi da scale atonali a
scale tonali, dove questi passaggi si attuano in modo anche rocambolesco e
casuale. Non mi sembra insomma che il compositore abbia voluto attribuire un ruolo
preciso alle singole parti della sua creazione, ma, anzi, sembra che abbia
attaccato le diverse parti “ad libitum”, casualmente, perdendo così la sostanza
del brano.
Nel secondo tempo
s’inizia con la “Serenata Italiana in Sol Maggiore” di Hugo Wolf, un bel pezzo,
in cui emergono i caldi toni italiani, delle volte lirici, delle volte
danzanti, anche in questo caso resi con accuratezza dai musicisti.

Siamo a Eszterhaza,
nel 1772, alla corte del principe Nikolaus Esterházy, quando Haydn scrive
questa sinfonia attribuendole un significato ben preciso. Ai musicisti era
infatti stato vietato di lasciare la città per rivedere le proprie famiglie,
così il compositore austriaco, unito da un legame, oltreché professionale,
affettivo con i suoi musicisti, scrive una sinfonia di protesta, che mette in
evidenza l’eccessiva rigidezza del principe, proprio facendo sì che i membri
dell’orchestra escano dal palcoscenico, come simbolo del ritorno a casa dalle
famiglie.
Una serata musicale
piacevolissima, in tutti i suoi aspetti, e il loro “addio” i musicisti ce lo hanno
dato proprio nel migliore dei modi.
Stefano Duranti
Poccetti
22 luglio, 2012
Tullio Barrecchia, il ri-inventore della Commedia dell’Arte! (all’inglese)…
Tullio
Barrecchia si definisce un pazzarello, ma sarà forse grazie a questa sua
caratteristica che ha potuto realizzare sempre i suoi sogni e che adesso può
realizzare un nuovo e ambizioso progetto: “The New Comedy of Art”? Ci parla
proprio Tullio, che racconta di sé e della Nuova Commedia dell’Arte…
Sono una persona
sempre positiva e con una gran voglia di LUCE, una persona molto gioiosa
insomma! (così mi definiscono i miei amici). Tutto quello che faccio lo faccio con
molta passione. Amo il teatro, sia in quanto ballerino (formatomi da Renato
Greco) sia come attore (dividendo il palcoscenico per esempio con Ottavia
Piccolo e Renato De Carmine e lavorando sotto la direzione di un grande regista
come Jerome Savary). Sono anche coreografo, campione sportivo FISAF, avendo
lavorato a Canale 5 con Maria Teresa Ruta (nel programma Vivere Bene,
affascinando con lezioni di fitness il pubblico italiano) e regista, firmando
tre mie produzioni: "AAA musical offresi" andato in scena prima al
teatro La Scaletta, di conseguenza al Flaiano, poi "Se non ci fosse la
luna" con Harold Bradley al teatro Anfitrione a Roma. Da sempre vivo tra
la realtà e un mondo MISTERIOSO! Da una vita ero in cerca di qualcosa che
sentivo mancare e finalmente l’ho trovata a LONDRA, incredibile!
Forse, a dire la
verità, una GRANDE GUIDA INVISIBILE MI HA GUIDATO DA SEMPRE E MI HA
ACCOMPAGNATO IN QUESTO MIO INCREDIBILE VIAGGIO: LA MIA VITA. UNA MANO
INVISIBILE CHE NEL 2000 MI HA LETTERALMENTE CATAPULTATO QUI A LONDRA. ED ECCO
LA MAGIA, qui a LONDRA ritrovo una parte di me: IL CUORE e "ricordo"
che ho "un lavoro" da portare a termine. A Londra insomma riscopro il
MONDO MISTICO, SENSAZIONALE, E NON STO SCHERZANDO; ho ritrovato il MIO CUORE IN
UNA LONDRA DEL NORD DEL 20tesimo SECOLO. RICERCANDO NEL CUORE riscopro l`ANTICA
ESPERIENZA DEL CUORE (tra yoga, meditazione, audaci pratiche spirituali e la
magia di ALBIONE: la terra DEI DRUIDI, DI KING ARTHUR, DEGLI IPERBOREI, DELLA
PRIMA CHIESA CRISTIANA, GLASTONBURY, LA TERRA DELLA GODDESS, dove si dice
risieda il CUORE DI GAIA, il cuore DEL NOSTRO PIANETA e come dimenticare
STONEHENGE! Mi immergo profondamente, corpo ed anima, in questo nuovo sogno ASCOLTANDO
LA TERRA E IL CIELO… AND TURNING
THE LIGHT AROUND ( "LA VIA DEL TAO") così familiare. Comprendo
ALLORA che l`esperienza del cuore tanto antica può essere anche tanto nuova: WE
ARE EVOLVING! QUESTO è QUELLO CHE SCOPRO! Io sono pronto per condividere QUESTA
MAGIA e sembra che questa sia proprio LA MIA MISSIONE. LA RISPOSTA ALLE TANTE
DOMANDE SULLA MIA VITA ALLE QUALI NEL PASSATO AVEVO CERCATO SEMPRE DI DARE
RISPOSTA, MA INVANO, ORA LA CONOSCO. Per il mondo intero sto preparando una
grossa sorpresa CON UN GRANDE ENTUSIASMO: "THE
NEW COMEDY OF ART", UNA INCREDIBILE COMPAGNIA TEATRALE che metterà sul
palco il mio linguaggio teatrale! Alcuni qui a Londra mi definiscono un nuovo
Shakespeare, perché il mio Teatro è un Teatro Trascendentale, di Rivelazione,
che smaschererà la Maschera, ma al tempo stesso ne creerà un`altra: l`
ARLECCHINO DELLA TRADIZIONALE COMMEDIA DELL`ARTE “diventa un ARLECCHINO
LUMINOSO, per manifestarsi poi come un ARLECCHINO” -qui la sorpresa… SARO`
COSI`AUDACE DA CAMBIARE IL COSTUME DI ARLECCHINO. ROMPERÒ GLI SCHEMI DEL TEATRO
TRADIZIONALE E I MIEI ARTISTI SEGUIRANNO LA LUCE INVECE DI ESSERE SEGUITI DALLA
LUCE. Insomma che ve devo di`? UNA GRANDE AVVENTURA E CHE FORTUNA CI ASSISTA. Ho
costruito un Microscopio incredibilmente potente per portare alla LUCE LE
FONDAMENTA DELLA VITA.
Curato da Stefano
Duranti Poccetti
P.s.
Per chi volesse continuare a leggere esiste anche un manifesto della New
Comedy, ed è stato curato da Alexandra Celia. Il titolo è “Un Veliero nel
Cielo” e il Corriere dello Spettacolo lo riporta per intero.
Un
Veliero nel Cielo. “Il sogno e la realtà di Tullio Barrecchia e della sua The
New Comedy of Art”.
Londra 2012 Solstizio
d'Estate, “il Sogno trasforma la realtà... Il Sipario si alzi... Tutti in
scena! Timore, trepidazione, ma cuore!
Anno Domini 2000. Un
giovane promettente atleta, ballerino, coreografo, regista osserva dall'alto,
con umidi occhi - quasi un puntino nel nulla - per un'ultima volta l'eterna
città Roma! Un volo per Londra lo proietta verso altri orizzonti, sogni, mille
scenari, propositi artistici.
"Se Dio potesse
muovere il Suo dito di tra le rocce del Cielo, i regni terreni sarebbero
fulminati, e le divine fiamme incenerirebbero l'intera umanità. Così penserebbe
un saggio, antico profeta e filosofo che elevando la sua mente, il suo
contemplativo intelletto verso l'alto, scoprirebbe d'intuire, percepire l'ira
eccelsa di Dio.
Si, perché l'umanità
si è corrotta, dimentica degli antichi insegnamenti, come ai tempi di Sodoma e
Gomorra - di biblica memoria - e la delicatezza, la purezza cordis s'è smarrita
per via, in un fiume di amarezze. E' pur vero che, forse, nei nostri dilaniati
tempi male non farebbe l'eco furioso di un novello Savonarola, di un
terrificante Torquemada, di un redivivo Martin Lutero.
Osservando il mondo,
l'umanità, dalle innevate vette del Tibet quello che risalterebbe agli occhi di
colui che “prega”, dell'Avatar ritrovato è la miseria umana, l'essersi
dimenticati della grandezza divina nella persona umana. Una condizione che - in
termini di povertà dello Spirito - consente il soffocamento del genere umano.
Cosa si potrebbe fare per ristabilire gli equilibri delle culture, spesso
millenarie, del rivalutare i “valori” degli uomini tutti.
Presumibilmente
nulla, o piuttosto, molto si può fare, realizzare concretamente, edificare,
costruire, strutturare un nuovo spazio per nuove “menti”.
Pensiamo la
“questione”, in una dimensione ridotta in una sfera - microcosmo - ma che, come
un sasso gettato in un lago viene a muover infiniti cerchi! Avendo, così di
fatto, ottenuto il 'Macrocosmo. Riflettiamo sulle potenzialità di un solo
essere umano, di una persona che offre su di un piatto d'oro - non la testa del
Battista - bensì una “speranza” che genera, come una nuova “creazione” della
fede, speranza, carità una compassionevole forma di tendere la mano all'altro,
il nostro prossimo.
Penso, ancora alla
grandezza dell'Arte nelle sue manifestazioni più gloriose, arte come genialità
di Leonardo, delicatezza di Botticelli, imperativo di Michelangelo Buonarroti.
Ulteriormente
all'Arte come movimento, movenza, espressione coreografica. Arte in quanto
forma e dimensione dello spettacolo teatrale, una Nuova Commedia dell'Arte,
nello specifico la The N. C. of Art, il cui padre fondatore, creatore, ideatore
è lo stimato Tullio Barrecchia di Londra, che con la sua compagnia di
ballerini, attori mette in campo - non una battaglia - bensì la Nuova Arte, il
pionieristico spettacolo scenografico.
Tullio Barrecchia è
un giovane regista, coreografo, ballerino - spesso creatore di originali
costumi di scena dallo stesso disegnati, e sviluppati.
La città londinese lo
accolse come figlio nel 2000, lasciando così, il suo cuore rivolto alla patria,
l'Italia, alla sua amata città Roma.
Londra, la si osserva
in questi giorni protagonista delle imminenti Olimpiadi 2012, tutto è in
fermento, un sussulto di pensieri organizzativi. In questo grande marasma viene
a collocarsi, distendersi la genialità espressiva teatrale di Tullio regista,
idee sottili come linfa che foglia alimenta per un infinito albero, muovendo il
profondo spirito di Shakespeare e delle sue note commedie teatrali. Come un
grido di trionfo nella notte che precede una nuova alba di una nuovissima Era.
In quanto regista
severo, meticoloso Tullio Barrecchia spende l'impossibile in energie per il suo
gruppo di ballo, la sua Compagnia d'Arte che forma scrupolosamente. Prove
estenuanti, attenzione e cura per i particolari sono il “cuore” di tutto il
proscenio teatrale. Sotto le coltri di porpora, tuttavia, aleggia un sentimento
imperativo: il dramma di Colombina, Arlecchino, Pantalone celano ben altre
nascoste visioni/verità.
Verità sottili come
lamine di platino, lampi di echi cantati e danzati per esprimere un
nuovo/innovativo tema dell'Amore - quasi un velo d'Amor Cortese -
compassionevole, universale, del Divino che, di Lux, discende - umanizzandosi -
dai Cieli paralleli, per unirsi sponsalmente con Madonna Povertà, e Madonna
Compassione.
Barrecchia, alimenta,
con la sua The N. C. of Art, il “Fuoco Sacro” per una nuova
generazione/consapevolezza, come buona novella ripenserà all'episodio
evangelico di Gesù che risuscita Lazzaro - Gv 11, 1-57 Giotto Cappella degli Scrovegni
Padova. Caravaggio, Museo Reg., Messina - dal suo sonno tombale, "to be or
not to be" - e... lacrime, dolore fu speso dal Figlio dell'Altissimo -
Tullio è un regista pionieristico, singolare, mette l'accento sui colori accesi
che si trasmutano in suoni, e suoni vibranti in colori solari, sontuosi.

"Si illuminano
le stelle del Cielo, il Sole è, ormai, nella culla notturna. Silenzio in sala:
va in scena la The N. C. of Art, vedremo, osserveremo, comprenderemo la
grandezza ed il 'Mistero' quasi magico del messaggio artistico nascosto.
... Notte fonda al
Covent Garden di Londra, le luci si offuscano, tutto è in penombra, s’eleva il
sipario, e la polvere del tempo: "S'ode una strepitosa voce in campo:
Tutti in scena, emozione, trepidazione del cor' sospeso nei mille pensieri,
tutto si proietta nella folgorante Luna sorella. Il veliero nel cielo dipinge
spirali d'arcobaleno nella volta Stellata!
18 luglio, 2012
Paolo Preite, il giovane cantautore che, ancora emergente, collaborò con Fernando Saunders e Kenny Aronoff!
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Paolo Preite alla chitarra |
Per fortuna, andando
ad ascoltare concerti qua e là e andando a scovare gli artisti in quello che
oggi è il territorio più vasto: internet, ci si rende conto che esistono dei
bravissimi musicisti italiani che avranno di certo la possibilità di rendere, a
loro modo, grande la musica italiana nel prossimo futuro.
Credo sia questo il
caso di Paolo Preite, un giovane cantautore di 26 anni. L’ho conosciuto su
Facebook e sono stato subito incuriosito ad ascoltare i suoi brani, di cui ho
notato una certa impronta rock e country, ma, soprattutto, ho notato, e questa
è la cosa più importante, un segno originale, un segno solo suo, un segno che
rende la sua arte solo sua: la musica di Paolo Preite e basta.
Paolo è un musicista
autodidatta. Questo gli ha permesso sicuramente di trovare con più facilità la
sua strada, senza essere troppo condizionato dagli ambienti accademici.
Nonostante questo ha studiato la musica a fondo, e non solo quella, visto che
la sua vasta cultura l’ha portato a scrivere addirittura dei testi in latino!
Va detto comunque che la lingua che predilige è l’inglese, anche se Paolo crede
che, in fin dei conti, la lingua è solo una forma, poi l’importante è quello
che si vuole trasmettere, la sostanza delle cose e non la loro apparenza.
Il cantautore è
giovane, ma ha già ottenuto molti consensi, se si pensa che tra non molto
pubblicherà il suo primo album, prodotto da un personaggio speciale: Fernando
Saunders, storico bassista e produttore di Lou Reed (che ha lavorato anche con
Jeff Beck, Ian Hammer, Jimmy Page e molti altri), e vedrà la partecipazione di
Kenny Aronoff, uno dei più richiesti batteristi della musica rock, che ha
suonato con artisti come Bob Dylan, John Fogerty, Satriani… si tratta di un
trampolino di lancio importantissimo per Preite, che vede così appagare i suoi
sogni, il suo talento e il suo grande impegno.
Sono molti gli
artisti e i generi di cui l’ascolto ha contribuito alla formazione del giovane
musicista: dal Soul di Al Green ai Pink Floyd, Queen, Beatles, Rolling Stones,
The Who, Jimi Hendrix, Bruce Springsteen… Paolo apprezza anche alcuni
cantautori e gruppi italiani come Battisti, Celentano, Rino Gaetano e band come
il Banco del Mutuo Soccorso. In ogni caso, come accennavo all’inizio, il suo
stile è del tutto personale, uno stile che, certo, ha inglobato in sé un
immenso repertorio culturale, ma che alla fine esce come qualcosa di nuovo,
influenzato da tutto e da niente. Si tratta di una musica molto emotiva,
spontanea, sotto certi aspetti mistica, e sempre capace di entrare con facile
complicità nelle corde dell’uditore.
Per gli amici del
Corriere dello Spettacolo due brani di Paolo Preite:
17 luglio, 2012
“Concerto per Cortona”, si apprezza l’impegno, ma il giovane Arcaini deve fermarsi a riflettere!
Teatro
Signorelli, Cortona. Domenica 15 luglio 2012
Anthony
Arcaini con l’Orchestra Sinfonica Guido d'Arezzo e la Corale F. Coradini.
Non è semplice per
un’orchestra relazionarsi con un giovane direttore d’orchestra di appena 17
anni, qual è Anthony Arcaini, e questa difficile relazione tra le due parti
porta a una sorta d’incomunicabilità che certo non può favorire la riuscita del
brano musicale. Arcaini ha diretto L’ Overture da “Le nozze di Figaro” di
Mozart e la “Sinfonia n. 7” di Beethoven (senza parlare poi della sua
composizione “Inno a Cortona” di cui spenderò parole più tardi), in cui in
entrambe è emerso un grosso limite: la mancanza di energia, la mancanza di
vigore, la mancanza di forza, di “forza” intesa sia come potenza beethoveniana,
sia come vivacità mozartiana. Tutto troppo piatto per Arcaini, che rende queste
composizioni troppo formali, prive di spinta spontanea, perché il direttore non
approfondisce i ritmi orchestrali e sembra rinunciare del tutto a giocare tra i
“piano” e i “forte”… se quindi a un certo punto una voce dalla platea ha
gridato: “Che noia!”, non aveva torto nel sentire così frantumare la vivacità
orchestrale mozartiana. Di Mozart era anche in programma un altro pezzo: “Ave
Verum Corpus”, un mottetto in cui, certo, il rapporto tra il coro e l’orchestra
poteva essere reso con maggior efficacia, visto che paiono due corpi isolati
che non dialogano tra di loro.
Ma, dopo aver parlato
dell’Arcaini direttore, posso parlare dell’Arcaini compositore, in cui il
musicista propone un inno dedicato alla città etrusca: “Inno a Cortona”. Mi
ricordo di aver assistito qualche anno fa a un’esecuzione di un’altra sua
composizione, in occasione del Tuscan Sun Festival, e i limiti che io trovai allora
in quella composizione li ritrovo ora in questa: il tutto risulta alquanto
disorganico, le tonalità attribuite alle diverse parti orchestrali non
interagiscono bene tra di loro; non esiste, anche in questo caso, alcuna
intenzione di giocare tra i “piano” e i “forte”, benché ci sia l’ambizione di
giocare con i diversi timbri strumentali, senza peraltro che i diversi motivi
che escono dagli strumenti siano in qualche modo collegati tra di loro; anche
nella relazione tra coro e orchestra si sente che ci sono dei nessi tonali che
non funzionano…Tutto pare casuale, disordinato e credo che, allora, al Tuscan
Sun Festival, scrissi proprio la stessa cosa.
Non ho notato allora
dei miglioramenti nel giovane Maestro Arcaini, ma questo non pregiudica certo
le speranze per il suo futuro, purché intenda veramente riflettere sui suoi
odierni limiti.
Cortona,
terra cinta
Di
secolare storia
Sempre
sarai nel cuore
Sempre
ti avrà lo sguardo
Di
chi il tuo suolo sfiorò.
Città
più antica non c’è
Città
più bella di te.
Queste le parole
dell’inno, scritte dal professore, scrittore e giornalista Nicola Caldarone,
che ha prestato il suo lavoro per dare alla creazione di Arcaini le parole,
belle parole che certo un cortonese accetta e in cui si può riconoscere
volentieri; la stessa cosa, credo, non si può dire per la musica che le parole
accompagna.
Stefano Duranti
Poccetti
15 luglio, 2012
"Vuoto del Tempo", poesia di Francesco Cesareo
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Albrecht Dürer, Melencolia
|
In un’epoca senza
tempo, in un’epoca d’incertezza, che rende il futuro incomprensibile, si
colloca questa poesia di Francesco Cesareo, un giovane poeta di Salerno molto
attento alla realtà che lo circonda e capace d’interiorizzare questa realtà per
renderla Poesia…
Vuoto del Tempo
Se il tempo passato è
un tempo, che rumore ha?
Alcuni lo chiamano
memoria
altri solo ricordi
altri ancora il tic
tac dell’ orologio.
Ognuno ha il suo
tempo fatto di memoria, tic tac e ricordi.
Lui è immutabile solo
agli occhi del distratto.
Al viandante è l’
incedere del passo.
Il tempo non ha tempo
È attimo
Francesco Cesareo
14 luglio, 2012
Quella luce che hanno le donne. Mostra: “L’odore della luce. Il mondo femminile nella pittura dell’ '800 e del primo ‘900”
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Ettore Tito, Pagine d'Amore |
Donne che aspettano,
che cuciono, che vangano, che piangono, che passeggiano, che dipingono, che
cavalcano, che raccolgono le olive, e tante altre occupazioni e stati d’animo,
possono essere osservate e apprezzate nella mostra “L’odore della luce. Il mondo
femminile nella pittura dell’ '800 e del primo ‘900” a Palazzo della Marra di
Barletta, fino al 19 agosto.
Chi si trovasse
durante le vacanze in quella parte d’Italia così ricca di arte romanica che è
la Puglia, non dovrebbe mancare di fare una visita all’imponente Palazzo
rinascimentale sede innanzitutto della Pinacoteca Giuseppe De Nittis,
l’eccellente pittore cui Barletta diede i natali nel 1846, per un tuffo, non
nel bel mare del Gargano ma, per cambiare, nell’atmosfera raffinata e seducente
della Belle Epoque.
Il titolo della
mostra è forzatamente originale e troppo vasto per riferirsi a una pittura
prettamente italiana, a volte provinciale e secondaria, sebbene non meno
piacevole ed espressiva. Una volta a tu per tu con i quadri, par di sentire,
forse suggestionati dal titolo, l’ odore del fieno, dei fiori, delle lettere
d’amore, delle essenze sui cappelli, della pelle, del muschio, in quelle
atmosfere solari, così italiane, delle campagne, dei giardini, dei parchi,
delle cucine, delle stanze dove creano e amano le donne.
Da una finestra del
palazzo scosto la tenda e vedo in lontananza il mare azzurro, la ruota di un
Luna Park ferma nel pomeriggio silenzioso e afoso, una grande struttura
industriale il cui metallo brilla sotto il sole.
Ritorno ai quadri,
anche qui ci sono il mare e il sole del pomeriggio, la penombra di una stanza,
le luci della sera, il cielo terso, visi di donne che si stagliano nel colore
nitido e preciso, o che sfumano nella tela perdendo consistenza, non l’anima.
![]() |
Pio Joris, Vanità campestre |
Pittori come Giovanni
Boldini, Giuseppe De Nittis, Telemaco Signorini, Silvestro Lega, Pellizza Da
Volpedo, Odoardo Borrani, Giovanni
Giani,Vincenzo Irolli, Francesco Paolo
Michetti, Pio Joris e tanti altri, dipingono ritratti delicati e commossi delle
donne che hanno popolato il loro mondo e la loro epoca. Omaggiano l’universo
femminile lasciando ai posteri quei documenti inestimabili che sono le opere
pittoriche, attraverso le quali possiamo ripercorrere, come in questo caso, la
storia della donna nella società e nel privato.
Colpisce di Silvestro
Lega “Il primo dolore” in cui una giovanetta vestita di bianco tiene tra le
palme aperte, come fossero un nido, un uccellino morto e lo guarda, senza
lacrime, ma soffrendo, appunto, il suo primo dolore.
Anche Pellizza Da Volpedo messa da parte la sua natura di
cronista pittorico delle schiere contadine e delle lotte di classe, entra in
punta di piedi in una stanza spoglia e monocromatica per cogliere il “Ricordo
di un dolore” di una donna seduta, dall’età indefinita che, con lo sguardo
fisso nel vuoto, tiene in grembo quello che presumibilmente appare un diario. E
tra le pagine Pellizza Da Volpedo ci
lascia una primula seccata, quasi svanita, ma di cui è ancora possibile
riconoscere il giallo e il viola dei petali. Come gialla è la cintura che le
cinge la vita. Non c’è dubbio che quel
dolore sia dovuto a una pena d’amore. E
se così non fosse, ci piace pensarlo lo stesso.
Di Torello Ancillotti
vediamo tre quadri: “La pittrice”, “En revant” e “Rougeur du soir”, che ci
trasportano come fanno Vittorio Corcos con “Istitutrici ai Campi Elisi”, De
Nittis con “Signora in giardino” e Boldini con “Signora con l’ombrellino” in
atmosfere parigine, romantiche e sensuali.
![]() |
Giovanni Boldini, Signora con l'ombrellino |
Invece Angiolo
Tommasi, pittore livornese, intinge i pennelli nelle zolle di terra e dipinge
“Ultime vangate”, quadro di grandi dimensioni dove alcune contadine affondano
con forza le vanghe nel suolo, ma sembrano farlo con delicatezza e generosità
tutta femminile, come se tenessero tra le mani i loro bambini.
E l’altro Tommasi,
Adolfo, cugino di Angiolo, dipinge un quadro soave e romantico di un “Idillio”,
dove una giovane coppia elegantemente vestita, a ridosso di una staccionata che
divide un campo di frumento da una strada di campagna, conversa d’amore lontano
da sguardi indiscreti ma sotto la luce del sole di un pomeriggio estivo
toscano.
La conversazione e la
lettura sotto il pergolato, sulla riva, sono il tema del quadro di Ettore Tito,
in cui donne sognanti, attente, curiose, ascoltano leggere una “Lettera
d’amore”.
Sposto lo sguardo
dalle tele alle bianche pareti e mi colpisce una bella scelta di poesie di
Neruda, D’Annunzio, Campana e brani tratti dalla Serao, Verga, Capuana.
In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime
facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del
mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i
rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose.
Dino
Campana a Sibilla Aleramo
Subito associo questa
poesia al quadro di Giovanni Giani “Il mattino delle rose. L’attesa” .
Tutto questo vasto
mondo femminile, cui anch’io appartengo, e qui dipinto esclusivamente da mani
maschili, mi gira intorno colorato, gioioso, sofferente, prezioso,
irripetibile. E penso a tutto quello che è successo dopo, i progressi fatti, le
lotte, la nostra emancipazione, e quello che ancora rimane da conquistare. Eppure se riguardo la donna intenta a cucire,
quella che lavora la terra, la signora che si ripara sotto all’ombrello, la
contadinella del quadro di Pio Joris che si vanta della sua bellezza, la madre
al capezzale, la giovane in attesa dell’amore, ho la sensazione che le donne
non siano mai cambiate, eppure in silenzio e con generosità hanno la forza di
cambiare il mondo e di rischiararlo.
Sarà per via di
quella luce…
Daria D.
12 luglio, 2012
TRISTI TROPICI. Da Lévi-Strauss a Virgilio Sieni, "Addio selvaggi! Dove siete finiti?"
Mi
chiama il selvaggio dentro di me
la
sua eco si scontra con l’uomo mascherato fuori di me
Mi
chiama e piange
mi
chiama e ride
mi
chiama e scoppia
Urlo
animale del selvaggio
bisbiglia
un verbo primordiale
e
richiama la pura e dolce età dell’oro.
“Selvaggio”, di S.D.P.

Si
tratta dell’esordio dello spettacolo di danza contemporanea “Tristi Tropici”,
della Compagnia Virgilio Sieni. Dal titolo si capisce subito il palese
riferimento al celebre omonimo libro che Claude Lévi-Strauss pubblicò nel 1955.
Questo è un testo in cui l’antropologo francese ricorda, quasi con una
nostalgia del non ritorno, le tribù indigene del Brasile, conosciute nella sua
gioventù, e di queste spiega la cultura, le tradizioni, i riti del villaggio.
A
dire il vero, se il riferimento è tanto ovvio nel titolo dell’esibizione, non
lo è altrettanto per quanto riguarda il suo pratico svolgimento. Se non
conoscessimo il nome della performance riusciremmo ad assimilarla alla
pubblicazione dell’inventore dell’antropologia strutturale? Di sicuro molto
difficilmente. Rimangono comunque vari elementi che congiungono i “Tristi Tropici”
di Lévi-Strauss a quelli di Virgilio Sieni -regista, coreografo, creatore della
messa in scena- e scopo di questo studio è proprio quello di metterli in
relazione tra di loro.
Ma
andiamo per ordine e cominciamo a parlare dello spettacolo per poi, trasversalmente,
parlare di tutto il resto. “Tristi Tropici” è una rappresentazione della durata
di circa cinquanta minuti ed è diviso in tre parti ben strutturate e bilanciate
tra di loro (che prossimamente tratterò una ad una), come accade spesso nelle
creazioni di Sieni. Si tratta di un equilibrio sia per quanto riguarda la
lunghezza temporale sia per quanto riguarda l’intensità delle scene e dei loro
contenuti, create dalla gestualità delle performers -si tratta di uno
spettacolo tutto al femminile- e dagli effetti cromatici delle luci, che danno
luogo ad atmosfere immaginifiche.
Ho
già parlato dell’incipit, della “introduzione” del “Tristi Tropici” portato in
scena, in cui già emerge un elemento che porta con sé una grande forza
simbolica ed evocativa: il pavone.
“Il pavone rappresenta l’elemento
trasfigurante, meraviglioso, tentacolare del mondo asiatico. Vedo la prima
parte dello spettacolo come un’uscita. C’è un animale lungo e umano, colto nel
momento in cui esce di scena, strisciando, già un po’ in agonia”[1].
Sono
le parole dello stesso Virgilio Sieni, che pone questo elemento come un
benvenuto verso il meraviglioso, quel meraviglioso che rischia di andare
perduto, se non lo è già, anche per lo stesso Lévi-Strauss:
Capisco allora la passione, la follia,
l’inganno dei racconti di viaggio. Essi danno l’illusione di cose che non
esistono più e che dovrebbero esistere ancora per farci sfuggire alla desolante
certezza che ventimila anni di storia sono andati perduti. Non c’è più nulla da
fare: la civiltà non è più quel fragile fiore che, per svilupparsi a fatica,
occorreva preservare in angoli riparati di terreni ricchi di specie selvatiche,
indubbiamente minacciose per il loro rigoglio, ma che permettevano anche di
variare e rinvigorire le sementi. L’umanità si cristallizza nella monocultura,
si prepara a produrre la civiltà in massa, come la barbabietola. La sua mensa
non offrirà ormai più che questa vivanda.[2]
Il
senso del meraviglioso perduto sembra quindi essere uno dei temi portanti sia
del libro di Strauss che della rappresentazione del coreografo fiorentino e non
è un caso che, subito dopo l’uscita di scena del pavone e la caduta del
sipario, ci sia spazio per una brevissima sequenza, quasi un flash, in cui si
notano in lontananza, in mezzo a un gioco di luci azzurre, due figure umane
appena visibili che, tenendo le braccia alzate, sembrano dei totem. Pare un po’
l’immagine di una civiltà perduta, non più presente nella realtà, ma possibile
da evocare solo grazie al filtro dell’immaginazione e del ricordo.
Non
c’è una vera e propria musica che accompagna lo spettacolo, quelli che
l’accompagnano sono invece rumori, echi -anche questi lontani, quasi
immaginari- che creano un’atmosfera di sospensione che ci catapulta fuori della
realtà e ci fa cadere dentro il mondo dello spettacolo: il meraviglioso mondo
delle civiltà lontane.
Solo
dopo il flash di cui abbiamo parlato si può dire che la parte introduttiva è
stata superata e che siamo arrivati al primo capitolo del nostro percorso,
quando vediamo due danzatrici in primo piano –Simona Bertozzi e Michela
Minguzzi- disposte inizialmente inginocchiate a terra, che, abbracciate tra di
loro, formano una sorta piramide, come accade sovente nelle rappresentazioni
dei quadri rinascimentali -quella dell’arte visiva è una cultura molto cara al
coreografo Sieni.
Le
performers cominciano a ondulare braccia e mani, dando vita a una gestualità
solenne e anche “affettuosa”, perché nel fare questi movimenti si sfiorano, si
accarezzano a vicenda, muovendosi in un modo tale da farci pensare a una
tecnica: la contact improvisation, di
cui lo stesso regista non nasconde l’importanza che ha rivestito nella sua
formazione professionale:
La contact
improvisation aiuta a lavorare sulle gravità esistenti ed effettive e tutto
sta nel darle e nell’accoglierle. È come quando lasci cadere una bottiglia, non
cade lentamente, cade come deve cadere. E così anche il corpo. Come disattivare
allora tutta una serie di resistenze? Una volta che il corpo cade, però, sorge
un nuovo problema. Non si tratta solo di far cadere. A volte ci si ferma lì. Si
tratta, invece, di percepire il momento in cui tu sei capace di trasmettere
questa tua caduta a un altro movimento o muscolatura o articolazione o quello
che vuoi. È in quel momento che si origina la dinamica. La caduta di per sé ti
porta a cadere in terra e a rimanere fermo.[3]
Continuano così le danzatrici, in questa
ieratica danza, una danza di “sospensione” che sembra non volere mai smuoversi
dalla ripetitività delle immagini figurali –non figurative- create. Si
accarezzano ancora, cominciando a giocare anche con le proprie vesti, si
mettono distese a terra, per poi riportarsi ancora accovacciate; continua così
questa sequenza, con gli stessi “movimenti a onda”, eleganti e solenni, quasi
sacri e “affettuosi”, fino a quando qualcosa non si smuove: le danzatrici
trovano qualcosa, si tratta di due strisce di carta e cominciano, ciascuna con
la sua, a dare loro una forma. Lavorano a specchio, dove le due si “copiano” a
vicenda con una precisione accurata, fino a quando l’opera non si è conclusa…
hanno composto una particolare figura geometrica composta dalla sagoma di tre
gocce d’acqua, pare un arabesco questo oggetto, un oggetto che le due
protagoniste della scena si mettono davanti al volto: è una maschera, una di
quelle maschere (più precisamente si parla di pitture del volto) di cui lo
stesso Lévi-Strauss parla analizzando la tribù dei Caduvei:
[…] Alle donne sono riservate la
decorazione della ceramica e delle pelli, e le pitture corporali che vengono
eseguite da alcune con raro virtuosismo.
Il loro viso, e a volte il loro intero corpo, è coperto
da una rete di arabeschi asimmetrici alternati a motivi di una sottile
geometria. […] Mi ero proposto in principio di fotografare i visi, ma le
esigenze finanziarie delle belle della tribù avrebbero presto esaurito le mie
risorse. Provai allora a tracciare dei visi su fogli di carta suggerendo alle
donne di dipingerli come se fossero i loro propri volti; il successo fu tale
che rinunciai presto ai miei goffi disegni. Le disegnatrici non erano per nulla
sconcertate da quei fogli bianchi, il che dimostra l’indifferenza della loro
arte per l’architettura naturale del volto umano. Oggi i Caduvei si dipingono
soltanto per essere più piacenti; ma un tempo quest’uso aveva un significato
più profondo. Dalle testimonianze di Sanchez Labrador, le caste nobili si
dipingevano solo la fronte, mentre il volgo si ornava tutto il viso.[4]
[…] A che cosa, dunque, serve l’arte
caduvea?
Abbiamo risposto parzialmente alla domanda, o piuttosto
gli indigeni l’hanno fatto per noi. Le pitture del viso conferiscono anzitutto
all’individuo la sua dignità di essere umano; esprimono il passaggio dalla
natura alla cultura, dall’animale “stupido” all’uomo civilizzato. Inoltre,
diverse quanto a stile e a composizione secondo la casta, esprimono in una
società complessa la gerarchia delle leggi, e possiedono così una funzione
sociologica.[5]
Finito
questo le danzatrici si alzano, prendono le loro vesti e sembrano andarsene,
mentre cala il buio in scena. È forse simbolo di una comunità costretta a
fuggire a causa dell’insediamento della nostra civiltà incapace di capire e di
tutelare l’altra? –come, l’abbiamo già visto, sembra emergere dal punto di
vista dell’antropologo francese- Può darsi, e pare anche che questa comunità
cerchi un altro luogo dove esprimersi, se, non appena le luci si riaccendono,
troviamo in scena ancora le due performers che, stavolta, non si cimentano più
nella “danza delle onde”, ma, anzi, sembrano proporre una danza animalesca
(d’altra parte è chiara la vicinanza, per queste popolazioni, tra animale e
uomo e della naturalezza del loro rapporto ce ne parla anche Lévi-Strauss: “A volte il silenzio era rotto da animali per
nulla spaventati dall’uomo: un veado, capriolo attonito a coda bianca: bande di
imu, piccoli struzzi, o un volo di gazze bianche radente la superficie
dell’acqua”[6].), una
danza libera, che possa restituire la libertà perduta. Si tratta di una danza
frenetica, ma che è anche, in qualche modo, controllata dalle performers; poi
ancora un abbassamento delle luci e ancora un cambiamento quando vengono
rialzate: le due danzatrici non sono più in atteggiamenti animaleschi, ma
perfettamente verticali, umane –è forse l’evoluzione della specie quella che ci
sta manifestando Sieni? Può essere, è un’ipotesi che non può essere esclusa- e
cominciano a muoversi anche qui con frenesia, continuando a mantenere la
verticalità, ma con delle cadute verso il suolo che le fanno tornare al piano
animalesco. Su questo tema, sul rapporto tra danzatore, linee corporee e come
queste si relazionano allo spazio (uno spazio che diventa veramente un
protagonista della scena) sono utili le parole di Sieni.
Lo spazio è l’origine e il corpo del
danzatore inizialmente non è un corpo che agisce ma un corpo che comprende. È
un corpo che ha degli organi e che quindi considera il fatto di un
galleggiamento interno e di una sospensione verso gli organi, nelle acque. Ci
sono allora due sospensioni, quella dello spazio e quella del corpo interno del
danzatore, due sospensioni che cercano di compenetrarsi tra di loro senza
agire. Non si deve pressare il corpo per fargli iniziare un’azione, lo spazio
non deve essere occupato. Spazio e corpo interno si devono lasciare
compenetrare e chi riuscirà a dare maggiore soffio metterà in moto la prima
articolazione, la prima cosa apparirà ma sempre in una forma sospesa.[7]
Il
rapporto con la terra si fa forte in questo ultimo frangente della prima scena,
in cui le danzatrici continuano a muoversi con agitazione, ricominciando a
farsi forte lo spirito bestiale, ma è inaspettato lo ieratico finale, in cui
vengono alzati al cielo dalle performers due grandi tondi, simboli di totem
divini, forse i mariddo della cultura
Bororo:
Tre giorni dopo le cerimonie s’interruppero,
per poter preparare il secondo atto: la danza del mariddo. Squadre di uomini andarono nella foresta a raccogliere
palme verdi che furono anzitutto sfogliate e poi sezionate in tronconi di circa
trenta centimetri. Con legature grossolane di frasche secche, gli indigeni
unirono quei tronconi in gruppi di due o tre, alla maniera delle sbarre di una
scala pieghevole, lunga diversi metri. Fecero così due scale ineguali, che in
seguito arrotolarono per formare due dischi pieni, del diametro di circa un
metro e mezzo per il più grande e di un metro e trenta centimetri per l’altro.
I fianchi vennero decorati di foglie trattenute da una rete ci cordicelle di
capelli intrecciati. Questi due oggetti furono solennemente trasportati in
mezzo alla piazza, uno accanto all’altro. Sono i mariddo, rispettivamente maschio e femmina, la cui confezione
spettava al clan di Ewagudda.[8]
Riprendendo
con la mise en scène, sembra che siamo passati dal piano animalesco a quello
umano, e da quello umano al piano della credenza nel divino (o a quello
dell’immaginazione). Il percorso umano sembra essersi concluso, ma il tutto si
è svolto sotto un velo di mistero, dove le performers hanno danzato confuse in
una luce spettrale: il tutto pare così un sogno, un ricordo, una rievocazione passata,
in cui i movimenti delle protagoniste sono stati prima ondulati, poi frenetici,
poi ancora ondulati, poi di nuovo frenetici, come se l’iter corporeo sembri
sempre costretto a “sfarsi e disfarsi”, senza poter raggiungere mai la sua
completezza, come del resto afferma il filosofo Giorgio Agamben, amico e
collaboratore del coreografo fiorentino, a cui si rivolge scrivendo:
Forse è questo che avevi in mente
quando nei tuoi appunti scrivevi del “danzatore che perde il suo gesto
afferrandolo solo nell’atto della sua scomparsa”. O quando parli del corpo come
di un evento in cui tutto incessantemente “accade e decade”. O, ancora, di un
“percorso dell’energia”, dalle vertebre alla zona pelvica, fatto di “pressioni
e ondulazioni”. Ed è questa intima difonia che fa uscire la tua danza dal
canone della danza contemporanea.
La
prima parte dello spettacolo è compiuta e, prima di arrivare alla seconda,
passiamo attraverso un breve intermezzo in cui vediamo una piccola tribù,
formata da donne e da bambine (tutte con al collo carcasse di animali), che
escono di scena. Sul palco rimangono solo due danzatrici che si riprendono le
fasce di carta (le maschere), lasciate prima, ed escono a loro volta immerse in
un’atmosfera formata cromaticamente da una calda luce arancione. Si tratta
forse delle tribù dei Bororo, dei Caduvei, dei Nambikwara, dei Tupi Kawahib? Di
quelle tribù, di cui parla Lévi-Strauss, costrette ad abbandonare i loro luoghi
nativi insediati ora dalla mano incurante di una cultura irrispettosa della
diversità? Se ne vanno ed escono di scena, rammaricati, come costretti a
lasciare un posto da loro amato; se ne vanno e rimangono alla vista degli
spettatori solo le due protagoniste della seconda parte dello spettacolo,
quella che vede come tematica l’iniziazione di uno Sciamano a opera di uno che
Sciamano lo è già. Questa figura è una delle più emblematiche della tribù. Allo
Sciamano sono riconosciute doti magiche, poteri in grado di curare le persone,
sia fisicamente che spiritualmente. Lo Sciamano è colui che, tramite i suoi
viaggi mentali, fa visita agli “altri mondi”, quelli Divini, per poi tornare
con le risposte ai problemi del mondo terreno; lo Sciamano è anche colui che ha
sofferto, colui che tramite il dolore è arrivato al grado di sapienza e di
saggezza più grande, ed per questo che anche i suoi iniziati devono giungere a
ricoprire questo ruolo dopo gravi sofferenze, spesso dopo gravi malattie, e
attraverso una rigida disciplina. Di questo parla lo stesso Lévi-Strauss, ma
non su “Tristi Tropici”, ma nell’altra sua pubblicazione “Antropologia
strutturale”.
Curando il suo malato, lo Sciamano
offre al suo uditorio uno spettacolo. Che spettacolo? A rischio di
generalizzare imprudentemente certe osservazioni, diremo che questo spettacolo
è sempre quello di una replica, da parte dello Sciamano, della “chiamata”,
ossia della crisi iniziale che gli ha procurato la rivelazione del suo stato.
Ma la parola spettacolo non deve trarre in inganno; lo Sciamano non si contenta
di riprodurre o di mimare certi avvenimenti; li rivive effettivamente in tutta
la loro vivacità, originalità e violenza. E siccome, al termine della seduta,
egli ritorna allo stato normale, possiamo dire, prendendo a prestito dalla
psicanalisi il termine essenziale, che egli abreagisce.
È noto che la psicanalisi chiama abreazione quel momento decisivo della cura in
cui il malato rivive intensamente la situazione iniziale che è all’origine del
suo squilibrio, prima di superarlo definitivamente. In questo senso, lo
Sciamano è un abreatore professionale. [9]
Ritornando
allo spettacolo, inizialmente notiamo le performers di profilo, non sono molto
visibili, ma immerse sempre all’interno della calda atmosfera creata dalla luce
arancione. Elsa De Fanti (lo Sciamano) comincia a dare luogo a una serie di gesti
e movimenti, a tratti composti, a tratti scattosi (straordinaria la vitalità di
questa danzatrice, anziana per l’anagrafe, ma dotata, nella realtà, di un corpo
giovane e dinamico), imitati dalla sua iniziata (Ramona Caia) –si capisce
palesemente quindi che lo “Stregone” sta impartendo lezioni al suo allievo
(parliamo al maschile, ma sappiamo che le protagoniste della scena sono donne).
Le luci cadono e ritroviamo il Maestro a terra e in preda a una rapida
gestualità, è forse caduto in trance? La possessione è un fenomeno importante
nella vita dello Sciamano, perché è tramite questa che può entrare in contatto
con il Divino. La danzatrice si rialza e compie dei veloci movimenti con le
braccia, movenze imitate a specchio dal suo iniziato, disposto davanti a lei.
Poi si rialzano, l’iniziato scompare e lo Stregone comincia a danzare passi
lenti per poi accelerarli pian piano, accompagnandoli anche con gesti delle
braccia che danno luogo a imitazioni animali,
fin quando, sulla destra, in secondo piano, non appare una sorta di
totem: una danzatrice che regge in alto una figura geometrica, un rombo: si
tratta di una visione, della visione dello Sciamano che sta facendo visita alle
Divinità. Le luci si abbassano in dissolvenza e, quando torna la luce in scena,
le due danzatrici sono sdraiate e a terra; il Maestro si rialza, l’iniziato
rimane al suolo e sembra come posseduto, come prima lo era stato lo Sciamano,
ed è proprio quest’ultimo che si avvicina allo Stregone cadetto e gli bisbiglia
qualcosa all’orecchio -è la prima volta che la comunicazione avviene tramite il
verbo. Lo Stregone continua a impartire le sue lezioni: sale sopra il suo
allievo e lo indirizza nei movimenti. I due quasi lottano, per infine
ritrovarsi in una particolare posizione: lo Stregone nella posizione di una
donna che sta per partorire e l’allievo compie un movimento a terra con il
corpo come se sia stato appena partorito dal Maestro: un nuovo Sciamano è nato!
È nato ed è in trance, sta visitando anche lui i mondi Divini, tanto è vero
che, ancora una volta, riappare il totem, la visione –stavolta al posto di un
rombo c’è un tondo, una sorta di mariddo.
Le due danzatrici uniscono le loro teste a terra, come a farci capire che
finalmente possono “viaggiare insieme”, stanno per raggiungere una dimensione
paritaria. Ma ancora il percorso dell’allievo non è terminato: si rialzano e lo
Stregone continua a impartire le sue lezioni in posizione verticale, mentre
l’iniziato si trova ancora a terra. Solo pian piano si alzerà, tramite una
serie di “dolorosi” movimenti e riuscirà a ritrovarsi nella posizione
verticale, proprio come lo Stregone, e Ramona Caia non si limita a questo, ma
si ritaglia anche una porzione di spazio scenico per un assolo, una danza, la
danza del nuovo Sciamano. Una danza frenetica, disarticolata, controllabile e
incontrollabile allo stesso tempo, in cui, nonostante le evidenti frantumazioni
corporali, la danzatrice riesce a ottenere la massima fluidità. La performer
continua con il suo bellissimo assolo, finché lo Stregone, ancora una volta,
non le sussurra qualcosa all’orecchio. Qui Ramona cade a terra, senza sensi e
stravolta: è duro il percorso per diventare Sciamani, ma sembra che lei ci sia
riuscita.
Il
finale della seconda parte dello spettacolo è contrassegnato dal ritorno in
scena della tribù di donne e bambine che l’avevano lasciata. Le due danzatrici
protagoniste sono inglobate nel gruppo sopraggiunto e qui si abbassano
nuovamente le luci e si rialzano sugli spettatori, perché è in questa parte del
teatro che si svolge la terza e ultima scena dello spettacolo.
La
protagonista stavolta è soltanto una, Dorina Meta, una danzatrice non vedente.
Si aggira per le scale della platea alla ricerca di qualcosa, con fare incerto,
“semplice”, per nulla accademico ed è lo stesso Sieni a dire:
Nella scena con Dorina, in seguito
sostituita da un’altra danzatrice non vedente, Filippa, il gesto è più
imperfetto ma, guarda caso, più sacro. Non è più realistico, non ci sono
sovrastrutture, il gesto è semplicemente più innocente, Dorina e Filippa lo
donano a noi completamente senza avere codificato una serie di passaggi per
renderlo bello secondo certi canoni. Il loro gesto è attraente per questo. Sono
totalmente concentrate in quello che fanno.[10]
È un
gesto non codificato allora quello di Dorina, che si muove come spaesata;
s’inginocchia vicino alle poltrone degli spettatori, dove, sotto, sono nascosti
degli insetti –finti ovviamente- che la performer raccoglie. Dorina è alla
ricerca della sua cultura, della sua tribù, sembra essere stata catapultata in
un mondo non suo, in una civiltà non sua. C’è poi un altro elemento importante,
il più importante, da menzionare: la danzatrice ha il viso dipinto con motivi
neri, che si rifanno a quella tradizione Bororo per cui, in occasione di certe
onoranze funebri, i danzatori si dipingono di questo colore, ponendosi sul
volto degli occhiali di paglia a montatura vuota, quegli occhiali che
garantiscono “l’invisibilità”:
Il Personaggio principale che
incarnava l’anima appariva in due differenti tenute secondo i momenti: ora
vestito di foglie verdi con in testa l’enorme acconciatura già descritta,
portando, a mo’ di strascico di corte, una pelle di giaguaro che un paggio
sosteneva dietro di lui adesso nudo e dipinto di nero, ornato unicamente da un
oggetto di paglia simile a un enorme occhiale vuoto intorno agli occhi. Questo
particolare è specialmente interessante per l’analogo motivo che si ritrova in
Tlaloc, divinità della pioggia dell’Antico Messico. I pueblo dell’Arizona e del
Nuovo Messico posseggono probabilmente la chiave dell’enigma; presso di loro,
le anime dei morti si trasformano in divinità della pioggia; ed essi hanno
inoltre credenze relative a oggetti magici che proteggono gli occhi e
permettono ai loro possessori di rendersi invisibili.[11]
Dorina
è allora visibile per tutti noi, ma per lei tutti noi siamo invisibili, la
donna e la sua cecità sono così trasformate da Sieni nella danzatrice che si è
messa i Divini/magici occhiali vuoti di paglia e si è resa così invisibile. Lei
avanza, cammina, convinta che nessuno possa vederla, è indecisa, perché è stata
allontanata dalla sua casa, dalla sua tribù, dalla sua famiglia. Solo in un
secondo momento giunge sul palcoscenico, dove finalmente sembra ottenere
sicurezza in sé stessa (forse ha ritrovato il suo ambiente congeniale?) e dove
danza sciolta con Elsa De Fanti, sopraggiunta in scena. Ma poi, subito dopo,
rimane nuovamente da sola, fino a quando non arriva un grande uccello –è
un’attrice travestita- che si relaziona con Dorina. Le due instaurano un legame
di affetto, di vicinanza fisica e spirituale, vicinanza che sarà ancora più
forte quando gli uccelli diverranno due. Lo spettacolo termina proprio così,
con l’immagine che accentua il positivo rapporto tra uomo e animale, un
rapporto che, purtroppo, la nostra società ha perduto e, commettendo questo
errore, se ne commette un altro ancora più grave, quello di toglierci una parte
di umanità, proprio perché l’animale è inscindibile dall’essere umano, non solo
a livello fisico, ma anche spirituale, dove si è andata a perdere anche la
sacralità della bestia, riducendola a essere inferiore all’uomo, cosa che non
sarebbe mai dovuta accadere. Sembra questo il tema centrale di “Tristi Tropici”
di Lévi-Strauss, se nel finale del suo libro, lo stesso antropologo vede il suo
gatto come un amico con cui poter scambiare cenni di comprensione:
Come l’individuo non è solo nel gruppo
e ogni società non è sola fra le altre, così l’uomo non è solo nell’universo.
Quando l’arcobaleno delle culture umane si sarà inabissato nel vuoto scavato
dal nostro furore; finché noi ci saremo ed esisterà un mondo –questo tenue arco
che ci lega all’inaccessibile resisterà: e mostrerà la via inversa a quella
della nostra schiavitù, la cui contemplazione, non potendola percorrere, procura
all’uomo l’unico bene che sappia meritare: sospendere il cammino; trattenere
l’impulso che lo costringe a chiudere una dopo l’altra le fessure aperte nel
muro della necessità e a compiere la sua opera nello stesso tempo che chiude la
sua prigione; questo bene che tutte le società agognano, qualunque siano le
loro credenze, il loro regime politico e il loro livello di civiltà; in cui
esse pongono i loro piaceri e i loro ozi, il loro riposo e la loro libertà;
possibilità, vitale per la vita, di distaccarsi e che consiste –addio selvaggi!
Addio selvaggi!- durante i brevi intervalli in cui la nostra specie sopporta
d’interrompere il suo lavoro da alveare, nell’afferrare l’essenza di quello che
essa fu e continua a essere, al di qua del pensiero e al di là della società;
nella contemplazione di un minerale più bello di tutte le nostre opere; nel
profumo, più sapiente dei nostri libri, respirato nel cavo di un giglio; o
nella strizzatina d’occhio, carica di pazienza, di serenità e di perdono
reciproco che un’intesa volontaria permette a volte di scambiare con un gatto.[12]
Uno
spettacolo completamente al femminile quello di Sieni (d’altra parte la Natura
non è donna?) in cui le protagoniste della scena sono tutte danzatrici che
fanno del loro corpo l’elemento fondamentale del palcoscenico; un corpo
inserito all’interno di atmosfere create con suggestivi giochi di luce, che
sembrano come sospendere la dimensione spazio-temporale. Dove siamo? In che
epoca? Non possiamo rispondere… si tratta di un ricordo, di un’epoca che forse
c’è stata, forse no, di sicuro di un’epoca che si è persa, di un’epoca sospesa
all’interno del “silenzio della foresta”. Era un’epoca in cui gli uomini
veneravano la Natura e l’Animale e in cui vigeva un pacifico equilibrio
armonizzante. Scrive Vito Di Bernardi, in un saggio pubblicato sul programma di
sala di “Tristi Tropici”, di cui non tarderò a parlare:
Il pensiero selvaggio infatti non è
“il pensiero dei selvaggi” ma è qualcosa che ci appartiene, è una modalità del
pensiero dell’uomo. Più che primitivo esso è primario: è il pensiero delle
origini, una scienza del concreto che utilizza per significare, costruire,
modificare il mondo, una lingua di segni incarnata nella realtà fisica,
naturale. Il pensiero selvaggio è un pensiero-corpo molto vicino a quel confine
tra naturale e cultura, tra animale e umano, tra sensibile e intellegibile, il
cui passaggio ha segnato l’inizio della storia dell’uomo.[13]

Stefano Duranti Poccetti
Bibliografia generale:
Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale,
Milano, Il Saggiatore, 1978
Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il
Saggiatore, 2008
AA.VV. Tristi Tropici, Artout Maschietto Editore,
Firenze, 2010
Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos,
2011
[1]
Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos, 2011, p.48
[2]
Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008, p.31
[3]
Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos, 2011,p. 27
[4]
Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008, p. 160
[5]
ibidem, p.164
[6]
ibidem, p.145
[7]
Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos, 2011, p.17
[8]
Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008, p.201
[9]
Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore,
1978, p.204
[10]
Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos, 2011, p.50
[11]
Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008, p.200
[12]
Ibidem, 357
[13]
AA.VV. Tristi Tropici, Artout Maschietto Editore, Firenze, 2010, p.11
[14]
AA.VV. Tristi Tropici, Artout Maschietto Editore, Firenze, 2010, p.26
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