12 luglio, 2012

TRISTI TROPICI. Da Lévi-Strauss a Virgilio Sieni, "Addio selvaggi! Dove siete finiti?"



Mi chiama il selvaggio dentro di me
la sua eco si scontra con l’uomo mascherato fuori di me

Mi chiama e piange
mi chiama e ride
mi chiama e scoppia

Urlo animale del selvaggio
bisbiglia un verbo primordiale
e richiama la pura e dolce età dell’oro.

Selvaggio”, di S.D.P.



Buio in scena, ma non è il buio di un finale, ma di un inizio, un inizio in cui lo spettatore vede un pavone, formato dalla coppia di due danzatrici, che rotola solennemente verso il fondo della scena, finché non s’infrange contro il sipario, che cade letteralmente sotto lo sguardo del pubblico.
Si tratta dell’esordio dello spettacolo di danza contemporanea “Tristi Tropici”, della Compagnia Virgilio Sieni. Dal titolo si capisce subito il palese riferimento al celebre omonimo libro che Claude Lévi-Strauss pubblicò nel 1955. Questo è un testo in cui l’antropologo francese ricorda, quasi con una nostalgia del non ritorno, le tribù indigene del Brasile, conosciute nella sua gioventù, e di queste spiega la cultura, le tradizioni, i riti del villaggio.
A dire il vero, se il riferimento è tanto ovvio nel titolo dell’esibizione, non lo è altrettanto per quanto riguarda il suo pratico svolgimento. Se non conoscessimo il nome della performance riusciremmo ad assimilarla alla pubblicazione dell’inventore dell’antropologia strutturale? Di sicuro molto difficilmente. Rimangono comunque vari elementi che congiungono i “Tristi Tropici” di Lévi-Strauss a quelli di Virgilio Sieni -regista, coreografo, creatore della messa in scena- e scopo di questo studio è proprio quello di metterli in relazione tra di loro.
Ma andiamo per ordine e cominciamo a parlare dello spettacolo per poi, trasversalmente, parlare di tutto il resto. “Tristi Tropici” è una rappresentazione della durata di circa cinquanta minuti ed è diviso in tre parti ben strutturate e bilanciate tra di loro (che prossimamente tratterò una ad una), come accade spesso nelle creazioni di Sieni. Si tratta di un equilibrio sia per quanto riguarda la lunghezza temporale sia per quanto riguarda l’intensità delle scene e dei loro contenuti, create dalla gestualità delle performers -si tratta di uno spettacolo tutto al femminile- e dagli effetti cromatici delle luci, che danno luogo ad atmosfere immaginifiche.
Ho già parlato dell’incipit, della “introduzione” del “Tristi Tropici” portato in scena, in cui già emerge un elemento che porta con sé una grande forza simbolica ed evocativa: il pavone.
Il pavone rappresenta l’elemento trasfigurante, meraviglioso, tentacolare del mondo asiatico. Vedo la prima parte dello spettacolo come un’uscita. C’è un animale lungo e umano, colto nel momento in cui esce di scena, strisciando, già un po’ in agonia[1].
Sono le parole dello stesso Virgilio Sieni, che pone questo elemento come un benvenuto verso il meraviglioso, quel meraviglioso che rischia di andare perduto, se non lo è già, anche per lo stesso Lévi-Strauss:

Capisco allora la passione, la follia, l’inganno dei racconti di viaggio. Essi danno l’illusione di cose che non esistono più e che dovrebbero esistere ancora per farci sfuggire alla desolante certezza che ventimila anni di storia sono andati perduti. Non c’è più nulla da fare: la civiltà non è più quel fragile fiore che, per svilupparsi a fatica, occorreva preservare in angoli riparati di terreni ricchi di specie selvatiche, indubbiamente minacciose per il loro rigoglio, ma che permettevano anche di variare e rinvigorire le sementi. L’umanità si cristallizza nella monocultura, si prepara a produrre la civiltà in massa, come la barbabietola. La sua mensa non offrirà ormai più che questa vivanda.[2]

Il senso del meraviglioso perduto sembra quindi essere uno dei temi portanti sia del libro di Strauss che della rappresentazione del coreografo fiorentino e non è un caso che, subito dopo l’uscita di scena del pavone e la caduta del sipario, ci sia spazio per una brevissima sequenza, quasi un flash, in cui si notano in lontananza, in mezzo a un gioco di luci azzurre, due figure umane appena visibili che, tenendo le braccia alzate, sembrano dei totem. Pare un po’ l’immagine di una civiltà perduta, non più presente nella realtà, ma possibile da evocare solo grazie al filtro dell’immaginazione e del ricordo.
Non c’è una vera e propria musica che accompagna lo spettacolo, quelli che l’accompagnano sono invece rumori, echi -anche questi lontani, quasi immaginari- che creano un’atmosfera di sospensione che ci catapulta fuori della realtà e ci fa cadere dentro il mondo dello spettacolo: il meraviglioso mondo delle civiltà lontane.
Solo dopo il flash di cui abbiamo parlato si può dire che la parte introduttiva è stata superata e che siamo arrivati al primo capitolo del nostro percorso, quando vediamo due danzatrici in primo piano –Simona Bertozzi e Michela Minguzzi- disposte inizialmente inginocchiate a terra, che, abbracciate tra di loro, formano una sorta piramide, come accade sovente nelle rappresentazioni dei quadri rinascimentali -quella dell’arte visiva è una cultura molto cara al coreografo Sieni.
Le performers cominciano a ondulare braccia e mani, dando vita a una gestualità solenne e anche “affettuosa”, perché nel fare questi movimenti si sfiorano, si accarezzano a vicenda, muovendosi in un modo tale da farci pensare a una tecnica: la contact improvisation, di cui lo stesso regista non nasconde l’importanza che ha rivestito nella sua formazione professionale:

La contact improvisation aiuta a lavorare sulle gravità esistenti ed effettive e tutto sta nel darle e nell’accoglierle. È come quando lasci cadere una bottiglia, non cade lentamente, cade come deve cadere. E così anche il corpo. Come disattivare allora tutta una serie di resistenze? Una volta che il corpo cade, però, sorge un nuovo problema. Non si tratta solo di far cadere. A volte ci si ferma lì. Si tratta, invece, di percepire il momento in cui tu sei capace di trasmettere questa tua caduta a un altro movimento o muscolatura o articolazione o quello che vuoi. È in quel momento che si origina la dinamica. La caduta di per sé ti porta a cadere in terra e a rimanere fermo.[3]

 Continuano così le danzatrici, in questa ieratica danza, una danza di “sospensione” che sembra non volere mai smuoversi dalla ripetitività delle immagini figurali –non figurative- create. Si accarezzano ancora, cominciando a giocare anche con le proprie vesti, si mettono distese a terra, per poi riportarsi ancora accovacciate; continua così questa sequenza, con gli stessi “movimenti a onda”, eleganti e solenni, quasi sacri e “affettuosi”, fino a quando qualcosa non si smuove: le danzatrici trovano qualcosa, si tratta di due strisce di carta e cominciano, ciascuna con la sua, a dare loro una forma. Lavorano a specchio, dove le due si “copiano” a vicenda con una precisione accurata, fino a quando l’opera non si è conclusa… hanno composto una particolare figura geometrica composta dalla sagoma di tre gocce d’acqua, pare un arabesco questo oggetto, un oggetto che le due protagoniste della scena si mettono davanti al volto: è una maschera, una di quelle maschere (più precisamente si parla di pitture del volto) di cui lo stesso Lévi-Strauss parla analizzando la tribù dei Caduvei:

[…] Alle donne sono riservate la decorazione della ceramica e delle pelli, e le pitture corporali che vengono eseguite da alcune con raro virtuosismo.
Il loro viso, e a volte il loro intero corpo, è coperto da una rete di arabeschi asimmetrici alternati a motivi di una sottile geometria. […] Mi ero proposto in principio di fotografare i visi, ma le esigenze finanziarie delle belle della tribù avrebbero presto esaurito le mie risorse. Provai allora a tracciare dei visi su fogli di carta suggerendo alle donne di dipingerli come se fossero i loro propri volti; il successo fu tale che rinunciai presto ai miei goffi disegni. Le disegnatrici non erano per nulla sconcertate da quei fogli bianchi, il che dimostra l’indifferenza della loro arte per l’architettura naturale del volto umano. Oggi i Caduvei si dipingono soltanto per essere più piacenti; ma un tempo quest’uso aveva un significato più profondo. Dalle testimonianze di Sanchez Labrador, le caste nobili si dipingevano solo la fronte, mentre il volgo si ornava tutto il viso.[4]
[…] A che cosa, dunque, serve l’arte caduvea?
Abbiamo risposto parzialmente alla domanda, o piuttosto gli indigeni l’hanno fatto per noi. Le pitture del viso conferiscono anzitutto all’individuo la sua dignità di essere umano; esprimono il passaggio dalla natura alla cultura, dall’animale “stupido” all’uomo civilizzato. Inoltre, diverse quanto a stile e a composizione secondo la casta, esprimono in una società complessa la gerarchia delle leggi, e possiedono così una funzione sociologica.[5]

Finito questo le danzatrici si alzano, prendono le loro vesti e sembrano andarsene, mentre cala il buio in scena. È forse simbolo di una comunità costretta a fuggire a causa dell’insediamento della nostra civiltà incapace di capire e di tutelare l’altra? –come, l’abbiamo già visto, sembra emergere dal punto di vista dell’antropologo francese- Può darsi, e pare anche che questa comunità cerchi un altro luogo dove esprimersi, se, non appena le luci si riaccendono, troviamo in scena ancora le due performers che, stavolta, non si cimentano più nella “danza delle onde”, ma, anzi, sembrano proporre una danza animalesca (d’altra parte è chiara la vicinanza, per queste popolazioni, tra animale e uomo e della naturalezza del loro rapporto ce ne parla anche Lévi-Strauss: “A volte il silenzio era rotto da animali per nulla spaventati dall’uomo: un veado, capriolo attonito a coda bianca: bande di imu, piccoli struzzi, o un volo di gazze bianche radente la superficie dell’acqua[6].), una danza libera, che possa restituire la libertà perduta. Si tratta di una danza frenetica, ma che è anche, in qualche modo, controllata dalle performers; poi ancora un abbassamento delle luci e ancora un cambiamento quando vengono rialzate: le due danzatrici non sono più in atteggiamenti animaleschi, ma perfettamente verticali, umane –è forse l’evoluzione della specie quella che ci sta manifestando Sieni? Può essere, è un’ipotesi che non può essere esclusa- e cominciano a muoversi anche qui con frenesia, continuando a mantenere la verticalità, ma con delle cadute verso il suolo che le fanno tornare al piano animalesco. Su questo tema, sul rapporto tra danzatore, linee corporee e come queste si relazionano allo spazio (uno spazio che diventa veramente un protagonista della scena) sono utili le parole di Sieni.

Lo spazio è l’origine e il corpo del danzatore inizialmente non è un corpo che agisce ma un corpo che comprende. È un corpo che ha degli organi e che quindi considera il fatto di un galleggiamento interno e di una sospensione verso gli organi, nelle acque. Ci sono allora due sospensioni, quella dello spazio e quella del corpo interno del danzatore, due sospensioni che cercano di compenetrarsi tra di loro senza agire. Non si deve pressare il corpo per fargli iniziare un’azione, lo spazio non deve essere occupato. Spazio e corpo interno si devono lasciare compenetrare e chi riuscirà a dare maggiore soffio metterà in moto la prima articolazione, la prima cosa apparirà ma sempre in una forma sospesa.[7]

Il rapporto con la terra si fa forte in questo ultimo frangente della prima scena, in cui le danzatrici continuano a muoversi con agitazione, ricominciando a farsi forte lo spirito bestiale, ma è inaspettato lo ieratico finale, in cui vengono alzati al cielo dalle performers due grandi tondi, simboli di totem divini, forse i mariddo della cultura Bororo:

Tre giorni dopo le cerimonie s’interruppero, per poter preparare il secondo atto: la danza del mariddo. Squadre di uomini andarono nella foresta a raccogliere palme verdi che furono anzitutto sfogliate e poi sezionate in tronconi di circa trenta centimetri. Con legature grossolane di frasche secche, gli indigeni unirono quei tronconi in gruppi di due o tre, alla maniera delle sbarre di una scala pieghevole, lunga diversi metri. Fecero così due scale ineguali, che in seguito arrotolarono per formare due dischi pieni, del diametro di circa un metro e mezzo per il più grande e di un metro e trenta centimetri per l’altro. I fianchi vennero decorati di foglie trattenute da una rete ci cordicelle di capelli intrecciati. Questi due oggetti furono solennemente trasportati in mezzo alla piazza, uno accanto all’altro. Sono i mariddo, rispettivamente maschio e femmina, la cui confezione spettava al clan di Ewagudda.[8]

Riprendendo con la mise en scène, sembra che siamo passati dal piano animalesco a quello umano, e da quello umano al piano della credenza nel divino (o a quello dell’immaginazione). Il percorso umano sembra essersi concluso, ma il tutto si è svolto sotto un velo di mistero, dove le performers hanno danzato confuse in una luce spettrale: il tutto pare così un sogno, un ricordo, una rievocazione passata, in cui i movimenti delle protagoniste sono stati prima ondulati, poi frenetici, poi ancora ondulati, poi di nuovo frenetici, come se l’iter corporeo sembri sempre costretto a “sfarsi e disfarsi”, senza poter raggiungere mai la sua completezza, come del resto afferma il filosofo Giorgio Agamben, amico e collaboratore del coreografo fiorentino, a cui si rivolge scrivendo:

Forse è questo che avevi in mente quando nei tuoi appunti scrivevi del “danzatore che perde il suo gesto afferrandolo solo nell’atto della sua scomparsa”. O quando parli del corpo come di un evento in cui tutto incessantemente “accade e decade”. O, ancora, di un “percorso dell’energia”, dalle vertebre alla zona pelvica, fatto di “pressioni e ondulazioni”. Ed è questa intima difonia che fa uscire la tua danza dal canone della danza contemporanea.

La prima parte dello spettacolo è compiuta e, prima di arrivare alla seconda, passiamo attraverso un breve intermezzo in cui vediamo una piccola tribù, formata da donne e da bambine (tutte con al collo carcasse di animali), che escono di scena. Sul palco rimangono solo due danzatrici che si riprendono le fasce di carta (le maschere), lasciate prima, ed escono a loro volta immerse in un’atmosfera formata cromaticamente da una calda luce arancione. Si tratta forse delle tribù dei Bororo, dei Caduvei, dei Nambikwara, dei Tupi Kawahib? Di quelle tribù, di cui parla Lévi-Strauss, costrette ad abbandonare i loro luoghi nativi insediati ora dalla mano incurante di una cultura irrispettosa della diversità? Se ne vanno ed escono di scena, rammaricati, come costretti a lasciare un posto da loro amato; se ne vanno e rimangono alla vista degli spettatori solo le due protagoniste della seconda parte dello spettacolo, quella che vede come tematica l’iniziazione di uno Sciamano a opera di uno che Sciamano lo è già. Questa figura è una delle più emblematiche della tribù. Allo Sciamano sono riconosciute doti magiche, poteri in grado di curare le persone, sia fisicamente che spiritualmente. Lo Sciamano è colui che, tramite i suoi viaggi mentali, fa visita agli “altri mondi”, quelli Divini, per poi tornare con le risposte ai problemi del mondo terreno; lo Sciamano è anche colui che ha sofferto, colui che tramite il dolore è arrivato al grado di sapienza e di saggezza più grande, ed per questo che anche i suoi iniziati devono giungere a ricoprire questo ruolo dopo gravi sofferenze, spesso dopo gravi malattie, e attraverso una rigida disciplina. Di questo parla lo stesso Lévi-Strauss, ma non su “Tristi Tropici”, ma nell’altra sua pubblicazione “Antropologia strutturale”.

Curando il suo malato, lo Sciamano offre al suo uditorio uno spettacolo. Che spettacolo? A rischio di generalizzare imprudentemente certe osservazioni, diremo che questo spettacolo è sempre quello di una replica, da parte dello Sciamano, della “chiamata”, ossia della crisi iniziale che gli ha procurato la rivelazione del suo stato. Ma la parola spettacolo non deve trarre in inganno; lo Sciamano non si contenta di riprodurre o di mimare certi avvenimenti; li rivive effettivamente in tutta la loro vivacità, originalità e violenza. E siccome, al termine della seduta, egli ritorna allo stato normale, possiamo dire, prendendo a prestito dalla psicanalisi il termine essenziale, che egli abreagisce. È noto che la psicanalisi chiama abreazione quel momento decisivo della cura in cui il malato rivive intensamente la situazione iniziale che è all’origine del suo squilibrio, prima di superarlo definitivamente. In questo senso, lo Sciamano è un abreatore professionale. [9]

Ritornando allo spettacolo, inizialmente notiamo le performers di profilo, non sono molto visibili, ma immerse sempre all’interno della calda atmosfera creata dalla luce arancione. Elsa De Fanti (lo Sciamano) comincia a dare luogo a una serie di gesti e movimenti, a tratti composti, a tratti scattosi (straordinaria la vitalità di questa danzatrice, anziana per l’anagrafe, ma dotata, nella realtà, di un corpo giovane e dinamico), imitati dalla sua iniziata (Ramona Caia) –si capisce palesemente quindi che lo “Stregone” sta impartendo lezioni al suo allievo (parliamo al maschile, ma sappiamo che le protagoniste della scena sono donne). Le luci cadono e ritroviamo il Maestro a terra e in preda a una rapida gestualità, è forse caduto in trance? La possessione è un fenomeno importante nella vita dello Sciamano, perché è tramite questa che può entrare in contatto con il Divino. La danzatrice si rialza e compie dei veloci movimenti con le braccia, movenze imitate a specchio dal suo iniziato, disposto davanti a lei. Poi si rialzano, l’iniziato scompare e lo Stregone comincia a danzare passi lenti per poi accelerarli pian piano, accompagnandoli anche con gesti delle braccia che danno luogo a imitazioni animali,  fin quando, sulla destra, in secondo piano, non appare una sorta di totem: una danzatrice che regge in alto una figura geometrica, un rombo: si tratta di una visione, della visione dello Sciamano che sta facendo visita alle Divinità. Le luci si abbassano in dissolvenza e, quando torna la luce in scena, le due danzatrici sono sdraiate e a terra; il Maestro si rialza, l’iniziato rimane al suolo e sembra come posseduto, come prima lo era stato lo Sciamano, ed è proprio quest’ultimo che si avvicina allo Stregone cadetto e gli bisbiglia qualcosa all’orecchio -è la prima volta che la comunicazione avviene tramite il verbo. Lo Stregone continua a impartire le sue lezioni: sale sopra il suo allievo e lo indirizza nei movimenti. I due quasi lottano, per infine ritrovarsi in una particolare posizione: lo Stregone nella posizione di una donna che sta per partorire e l’allievo compie un movimento a terra con il corpo come se sia stato appena partorito dal Maestro: un nuovo Sciamano è nato! È nato ed è in trance, sta visitando anche lui i mondi Divini, tanto è vero che, ancora una volta, riappare il totem, la visione –stavolta al posto di un rombo c’è un tondo, una sorta di mariddo. Le due danzatrici uniscono le loro teste a terra, come a farci capire che finalmente possono “viaggiare insieme”, stanno per raggiungere una dimensione paritaria. Ma ancora il percorso dell’allievo non è terminato: si rialzano e lo Stregone continua a impartire le sue lezioni in posizione verticale, mentre l’iniziato si trova ancora a terra. Solo pian piano si alzerà, tramite una serie di “dolorosi” movimenti e riuscirà a ritrovarsi nella posizione verticale, proprio come lo Stregone, e Ramona Caia non si limita a questo, ma si ritaglia anche una porzione di spazio scenico per un assolo, una danza, la danza del nuovo Sciamano. Una danza frenetica, disarticolata, controllabile e incontrollabile allo stesso tempo, in cui, nonostante le evidenti frantumazioni corporali, la danzatrice riesce a ottenere la massima fluidità. La performer continua con il suo bellissimo assolo, finché lo Stregone, ancora una volta, non le sussurra qualcosa all’orecchio. Qui Ramona cade a terra, senza sensi e stravolta: è duro il percorso per diventare Sciamani, ma sembra che lei ci sia riuscita.
Il finale della seconda parte dello spettacolo è contrassegnato dal ritorno in scena della tribù di donne e bambine che l’avevano lasciata. Le due danzatrici protagoniste sono inglobate nel gruppo sopraggiunto e qui si abbassano nuovamente le luci e si rialzano sugli spettatori, perché è in questa parte del teatro che si svolge la terza e ultima scena dello spettacolo.
La protagonista stavolta è soltanto una, Dorina Meta, una danzatrice non vedente. Si aggira per le scale della platea alla ricerca di qualcosa, con fare incerto, “semplice”, per nulla accademico ed è lo stesso Sieni a dire:

Nella scena con Dorina, in seguito sostituita da un’altra danzatrice non vedente, Filippa, il gesto è più imperfetto ma, guarda caso, più sacro. Non è più realistico, non ci sono sovrastrutture, il gesto è semplicemente più innocente, Dorina e Filippa lo donano a noi completamente senza avere codificato una serie di passaggi per renderlo bello secondo certi canoni. Il loro gesto è attraente per questo. Sono totalmente concentrate in quello che fanno.[10]

È un gesto non codificato allora quello di Dorina, che si muove come spaesata; s’inginocchia vicino alle poltrone degli spettatori, dove, sotto, sono nascosti degli insetti –finti ovviamente- che la performer raccoglie. Dorina è alla ricerca della sua cultura, della sua tribù, sembra essere stata catapultata in un mondo non suo, in una civiltà non sua. C’è poi un altro elemento importante, il più importante, da menzionare: la danzatrice ha il viso dipinto con motivi neri, che si rifanno a quella tradizione Bororo per cui, in occasione di certe onoranze funebri, i danzatori si dipingono di questo colore, ponendosi sul volto degli occhiali di paglia a montatura vuota, quegli occhiali che garantiscono “l’invisibilità”:

Il Personaggio principale che incarnava l’anima appariva in due differenti tenute secondo i momenti: ora vestito di foglie verdi con in testa l’enorme acconciatura già descritta, portando, a mo’ di strascico di corte, una pelle di giaguaro che un paggio sosteneva dietro di lui adesso nudo e dipinto di nero, ornato unicamente da un oggetto di paglia simile a un enorme occhiale vuoto intorno agli occhi. Questo particolare è specialmente interessante per l’analogo motivo che si ritrova in Tlaloc, divinità della pioggia dell’Antico Messico. I pueblo dell’Arizona e del Nuovo Messico posseggono probabilmente la chiave dell’enigma; presso di loro, le anime dei morti si trasformano in divinità della pioggia; ed essi hanno inoltre credenze relative a oggetti magici che proteggono gli occhi e permettono ai loro possessori di rendersi invisibili.[11]

Dorina è allora visibile per tutti noi, ma per lei tutti noi siamo invisibili, la donna e la sua cecità sono così trasformate da Sieni nella danzatrice che si è messa i Divini/magici occhiali vuoti di paglia e si è resa così invisibile. Lei avanza, cammina, convinta che nessuno possa vederla, è indecisa, perché è stata allontanata dalla sua casa, dalla sua tribù, dalla sua famiglia. Solo in un secondo momento giunge sul palcoscenico, dove finalmente sembra ottenere sicurezza in sé stessa (forse ha ritrovato il suo ambiente congeniale?) e dove danza sciolta con Elsa De Fanti, sopraggiunta in scena. Ma poi, subito dopo, rimane nuovamente da sola, fino a quando non arriva un grande uccello –è un’attrice travestita- che si relaziona con Dorina. Le due instaurano un legame di affetto, di vicinanza fisica e spirituale, vicinanza che sarà ancora più forte quando gli uccelli diverranno due. Lo spettacolo termina proprio così, con l’immagine che accentua il positivo rapporto tra uomo e animale, un rapporto che, purtroppo, la nostra società ha perduto e, commettendo questo errore, se ne commette un altro ancora più grave, quello di toglierci una parte di umanità, proprio perché l’animale è inscindibile dall’essere umano, non solo a livello fisico, ma anche spirituale, dove si è andata a perdere anche la sacralità della bestia, riducendola a essere inferiore all’uomo, cosa che non sarebbe mai dovuta accadere. Sembra questo il tema centrale di “Tristi Tropici” di Lévi-Strauss, se nel finale del suo libro, lo stesso antropologo vede il suo gatto come un amico con cui poter scambiare cenni di comprensione:

Come l’individuo non è solo nel gruppo e ogni società non è sola fra le altre, così l’uomo non è solo nell’universo. Quando l’arcobaleno delle culture umane si sarà inabissato nel vuoto scavato dal nostro furore; finché noi ci saremo ed esisterà un mondo –questo tenue arco che ci lega all’inaccessibile resisterà: e mostrerà la via inversa a quella della nostra schiavitù, la cui contemplazione, non potendola percorrere, procura all’uomo l’unico bene che sappia meritare: sospendere il cammino; trattenere l’impulso che lo costringe a chiudere una dopo l’altra le fessure aperte nel muro della necessità e a compiere la sua opera nello stesso tempo che chiude la sua prigione; questo bene che tutte le società agognano, qualunque siano le loro credenze, il loro regime politico e il loro livello di civiltà; in cui esse pongono i loro piaceri e i loro ozi, il loro riposo e la loro libertà; possibilità, vitale per la vita, di distaccarsi e che consiste –addio selvaggi! Addio selvaggi!- durante i brevi intervalli in cui la nostra specie sopporta d’interrompere il suo lavoro da alveare, nell’afferrare l’essenza di quello che essa fu e continua a essere, al di qua del pensiero e al di là della società; nella contemplazione di un minerale più bello di tutte le nostre opere; nel profumo, più sapiente dei nostri libri, respirato nel cavo di un giglio; o nella strizzatina d’occhio, carica di pazienza, di serenità e di perdono reciproco che un’intesa volontaria permette a volte di scambiare con un gatto.[12]

Uno spettacolo completamente al femminile quello di Sieni (d’altra parte la Natura non è donna?) in cui le protagoniste della scena sono tutte danzatrici che fanno del loro corpo l’elemento fondamentale del palcoscenico; un corpo inserito all’interno di atmosfere create con suggestivi giochi di luce, che sembrano come sospendere la dimensione spazio-temporale. Dove siamo? In che epoca? Non possiamo rispondere… si tratta di un ricordo, di un’epoca che forse c’è stata, forse no, di sicuro di un’epoca che si è persa, di un’epoca sospesa all’interno del “silenzio della foresta”. Era un’epoca in cui gli uomini veneravano la Natura e l’Animale e in cui vigeva un pacifico equilibrio armonizzante. Scrive Vito Di Bernardi, in un saggio pubblicato sul programma di sala di “Tristi Tropici”, di cui non tarderò a parlare:

Il pensiero selvaggio infatti non è “il pensiero dei selvaggi” ma è qualcosa che ci appartiene, è una modalità del pensiero dell’uomo. Più che primitivo esso è primario: è il pensiero delle origini, una scienza del concreto che utilizza per significare, costruire, modificare il mondo, una lingua di segni incarnata nella realtà fisica, naturale. Il pensiero selvaggio è un pensiero-corpo molto vicino a quel confine tra naturale e cultura, tra animale e umano, tra sensibile e intellegibile, il cui passaggio ha segnato l’inizio della storia dell’uomo.[13]

Non sempre è facile trovare i riferimenti dello spettacolo sulla pubblicazione dell’antropologo francese, ma per questo può essere di aiuto anche lo stesso programma di sala, accennato poc’anzi, un programma completo in cui, in diciotto punti, vengono evidenziate le tematiche della messa in scena e i collegamenti con Lévi-Strauss, e credo proprio che questo studio possa essere completato con uno di questi punti, il quarto, che dovrebbe farci riflettere: “In queste tribù visitate da Lévi-Strauss è sedimentato il seme dell’uomo proiettato verso la trascrizione di un sistema sociale adatto a viverci nella grandezza indefinibile degli inizi, nell’infanzia dei popoli, e che pone noi occidentali come responsabili della loro distruzione[14].

Stefano Duranti Poccetti




Bibliografia generale:


Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1978

Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008

AA.VV. Tristi Tropici, Artout Maschietto Editore, Firenze, 2010

Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos, 2011
























[1] Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos, 2011, p.48
[2] Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008, p.31
[3] Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos, 2011,p. 27
[4] Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008, p. 160
[5] ibidem, p.164
[6] ibidem, p.145
[7] Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos, 2011, p.17
[8] Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008, p.201
[9] Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1978, p.204
[10] Vito Di Bernardi, Virgilio Sieni, Palermo, L’Epos, 2011, p.50
[11] Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008, p.200
[12] Ibidem, 357
[13] AA.VV. Tristi Tropici, Artout Maschietto Editore, Firenze, 2010, p.11
[14] AA.VV. Tristi Tropici, Artout Maschietto Editore, Firenze, 2010, p.26


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