28 febbraio, 2012

Ancora Dario Napoli con le sue lezioni di chitarra. La domanda è: SIETE DAVVERO UN CHITARRISTA? La risposta eccola qua ...



Che vi piaccia o meno, come chitarrista (nel mio caso) o come strumentista qualsiasi, siete in realtà un cantante. Prima un musicista accetta questo fatto, prima so che miglioreranno esponenzialmente le capacità musicali di quel musicista.
In un contesto d’improvvisazione o di composizione, essenzialmente si traduce ciò che l’orecchio sente con le dita. Quando un musicista si esercita su delle scale o su pattern di scale su alcuni accordi o passaggi armonici, in teoria non fa altro che abituare le dita ad eseguire la componente fisica necessaria per costruire il linguaggio della musica. Ma in realtà non è tutto. Intenzionalmente o meno, il cervello sta anche “registrando” la musica o il componente musicale di quell’esercizio. Quando il musicista interiorizza o metabolizza una frase o un passaggio, gli capiterà poi di riuscire a sentirla prima ancora di eseguirla e quindi potrà anticipare cosa vorrà sentire.
Se si aggiunge l’elemento vocale all’esercizio tecnico sullo strumento, si imprimeranno più velocemente nel cervello le frasi/tecniche relative allo studio e si automatizzerà più consapevolmente il nuovo vocabolario che verrà eseguito istintivamente poi durante la performance. Inoltre, conoscerete meglio il manico (nel caso della chitarra) e visualizzerete meglio le distanze tra le note e i rapporti tra i suoni (in pratica gli intervalli).
Questo non ha nulla a che vedere con il “vocal training” di chi aspira ad essere cantante (che può tuttavia essere anch’esso utilissimo). Il concetto qui è di creare un legame ancora più forte tra il vostro cervello (orecchio) e le vostre dita, in modo da essere completamente padroni delle vostre scelte melodiche, il che vi renderà migliori compositori o improvvisatori (nei dovuti tempi ovviamente).
Più sarete in controllo delle vostre scelte melodiche, più sarete poi liberi di concentrarvi sull’utilizzo del tempo o l’aspetto ritmico della musica (spesso un’area sottovalutata dove invece, a mio parere, si distinguono i grandi di qualsiasi genere). Di conseguenza i benefici sono multipli ed interconnessi.
Un buon posto per cominciare sono intervalli di due note. Scegliete una nota qualsiasi, determinate la tonalità, poi suonate quella nota e la terza della scala maggiore (si presuppone sappiate formare una scala maggiore - in caso contrario e se vostro interesse approfondire, contattatemi pure -). Suonate le due note e poi cantatele, ripetutamente. Poi ripetete l’esercizio con tutte le note della scala, cominciando con quinta e settima, poi seconda, quarta e sesta. Prestate particolare attenzione alla terza e settima, spesso note che riassumono l’accordo sottostante. Passate poi a triadi (sequenze di tre note alla volta), scale intere e poi accordi interi. Assicuratevi che ciò che suonate sia in accordo con ciò che cantate. Se non siete sicuri, registratevi e riascoltate e, se ancora in dubbio, chiedete pure a qualche familiare o persona di fiducia.
Non dimenticatevi di aggiungere “feeling” al vostro canto, e di conseguenza anche sullo strumento, replicando ogni sfumatura che potete immaginare. Un esempio classico è quello del vibrato sugli strumenti a corda.
Anche se non siete appassionati di jazz, un esempio massimo del concetto sovraesposto lo offre il chitarrista George Benson che spesso improvvisa e canta contemporaneamente le linee melodiche esposte sullo strumento, in tempo reale. Ascoltate il brano “At the Mambo Inn” (iniziando al minuto 4:02), tratto dall’album Tenderly.

Dario Napoli

Sull’autore dell'articolo:
Dario Napoli è un chitarrista professionista, produttore, compositore e insegnante. Il suo ultimo progetto è DIENNE MANOUCHE e ha pubblicato un album intitolato GYPSY BOP distribuito anche su itunes e Cdbaby (http://www.cdbaby.com/cd/diennemanouche). Dario insegna privatamente e al Laboratorio Musicale Varcobianco di Castiglion del Lago (www.varcobianco.it)

Per chi volesse contattarlo:
darionapoli74@hotmail.com
www.darionapoli.com



27 febbraio, 2012

La notte degli Oscar è del film "The Artist"


"The Artist" è stato il film più premiato della Notte degli Oscar: vince come miglior film, la migliore regia di Michel Hazanavicius, il migliore attore, con il  protagonista con Jean Dujardin (primo francese a conquistare tale riconoscimento), la migliore colonna sonora e i migliori costumi.
Il nostro critico di Cinema Antonio Castaldo aveva scritto tempo fa una recensione del film, che mi permetto di riproporre, come già avevo fatto per "Cesare deve Morire", vincitore a Berlino.



"The Artist": la crisi ci fa sognare


In un momento in cui il cinema contemporaneo sembra aver trovato nella tridimensionalità posticcia l’unica via di scampo per uscire dalla crisi, non solo economica, ma soprattutto di idee e di linguaggio, ecco arrivare in Italia The Artist, del regista francese Michel Hazanavicius. Un film muto, proprio come se ne facevano una volta, rigorosamente in bianco e nero, con inquadrature e tecnicismi dettagliatamente da cinema anni ‘20. È stato adottato persino il formato dell’epoca, l’originario 1:1,33. Qualcuno potrebbe pensare, cosa ci fa nel 2012 un film muto, prodotto in Francia nelle sale italiane? Per capirlo basta dare un’occhiata alla pagina che Wikipedia dedica al film: praticamente è per metà occupata dalla trama e da altre comunicazioni di rito, mentre l’altra metà rende conto dei numerosissimi premi. Si parte dal premio decisamente meritato per la migliore interpretazione maschile a Jean Dujardin all’ultimo Festival di Cannes, per finire ad una serie interminabile di riconoscimenti e nomination nei tanti, diversi e oramai variegati festival in giro per il mondo. Cosa succede? I critici di tutto il mondo soffrono di nostalgia? Ricordano con candore quando infanti venivano accompagnati al cinema dalle casalinghe madri divoratrici di fotoromanzi? O forse come succede spesso quando ci sono grossi cambiamenti in atto ricorriamo alle origini? Sinceramente non lo so, ne tanto meno vorrei azzardare una tesi al riguardo. Se però, ricercando nelle classifiche dei film premiati nei maggiori festival d’Europa degli ultimi anni, mi accorgo che tanti film sono in bianco e in nero, come Il Nastro Bianco 2009 di Michael Haneke,  o film quasi senza dialoghi, come Bal  del regista turco Semih Kaplanoglu, premiato con l’Orso d’oro a Berlino nel 2010, allora mi viene da pensare che The Artist  non è solo un film muto in bianco e nero francese,The Artist non è una scommessa del regista o del produttore folle che investe soldi di tasca sua per realizzarlo. The Artist arriva da un percorso che si sta consolidando da un po’ di tempo nel cinema d’autore. Autori raffinati che considerano il cinema muto la forma più pura per una narrazione, in quanto un film fatto di sole immagini, oltre ad essere più difficile da realizzare, richiede davvero grande intelligenza e conoscenza, ma soprattutto grande sensibilità visiva. Quante infinite possibilità ci sono per realizzare una scena muta? Si devono inventare le atmosfere, bisogna avere grande cura dei dettagli, si deve ricorrere alla gestualità, alla fisicità degli attori. E l’ espressione del viso? Quanto può essere forte un sorriso, un pianto, una carezza o uno sguardo? Ecco, per chi fa questo mestiere e crede nella potenza visiva dell’immagine fare un film senza le parole che spiegano tutto è il massimo. Voler raggiungere il cuore degli spettatori senza che nessuno apra bocca significa comunicare universalmente senza dover tradurre ogni gesto, ogni situazione o atteggiamento. E poi chi vede un film di sole immagini deve inventarsi i dialoghi e quindi è costretto a fare uso della propria immaginazione, deve pensare, deve partecipare alla creazione. Ecco, The Artist non solo ci parla, The Artist ci fa sognare e, come dicevo all’inizio, nei momenti di crisi più intensi l’uomo ha sempre avuto bisogno dei sogni!

Antonio Castaldo

25 febbraio, 2012

VIAGGIO ATTRAVERSO L'IMPOSSIBILE - sogni di cinema, a cura di Francesco Vignaroli. Prima puntata: "I sette Samurai"


Comincia così la nuova rubrica di cinema curata da Francesco Vignaroli "VIAGGIO ATTRAVERSO L'IMPOSSIBILE - sogni di cinema", con la recensione del film "I sette Samurai" di Akira Kurosawa ...


I SETTE SAMURAI (shichinin no samurai) GIAPPONE, 1954, 192'  B/N


REGIA: AKIRA KUROSAWA

INTERPRETI: TAKASHI SHIMURA,TOSHIRO MIFUNE, MINORU CHIAKI, DAISUKE KATO, KO KIMURA

EDIZIONE DVD : Sì, distribuito da MONDO HOME ENTERTAINMENT


Giappone del '500, epoca Sengoku: il paese è nel caos, stravolto dalle guerre civili tra i vari clan per la conquista del potere politico vacante. In un contesto simile, le campagne sono oggetto dei continui assalti perpetrati da sbandati e delinquenti di ogni sorta. Stanchi di questa situazione, i contadini di uno sperduto villaggio montano decidono di assoldare dei ronin-samurai senza padrone-per scacciare i banditi e salvare il raccolto. La ricerca si rivela inizialmente difficoltosa dato che, o per orgoglio vista la modestia dell'impresa che li attende, o per via della misera ricompensa proposta (solo vitto e alloggio), i vari samurai contattati declinano l'invito e non sempre con gentilezza. Il primo a rispondere all'appello è il veterano Kambei, cui spetterà il compito di scegliere gli altri compagni d'avventura, sei in tutto, tra cui il contadino Kikuchiyo (Mifune), desideroso di conquistarsi sul campo il titolo di samurai. Superate le reciproche diffidenze iniziali, contadini e guerrieri riusciranno a solidarizzare e a respingere l'assalto dei predoni, al termine di una durissima battaglia lunga tre giorni e tre notti.

Uno dei film più importanti dell'intera storia del cinema e forse il punto più alto della carriera di Kurosawa che, dopo il pluripremiato "RASHOMON"-Leone d'oro a Venezia 1951 e Oscar come miglior film straniero-impone definitivamente se stesso e il cinema giapponese all'attenzione del resto del mondo (non a caso Hollywood ne girerà un celebre - ancorché decisamente inferiore - remake in chiave western, "I MAGNIFICI SETTE",regia di John Sturges); a tutt'oggi, rimane il film giapponese che ha riscosso maggior successo all'estero...

Definire "I SETTE SAMURAI" un film d'avventura sarebbe davvero riduttivo,vista l'incredibile ricchezza e varietà di stili narrativi, tematiche sociali e riflessioni sull'uomo che fanno da contrappunto ideale ad una narrazione fluida e  comprensibile.
C'è ovviamente l'azione, caratterizzata da un respiro epico ed eroico, splendidamente filmata e coreografata in ogni sequenza di un film esteticamente perfetto dal primo all'ultimo minuto(innumerevoli le scene da antologia,su tutte il lunghissimo assedio finale al villaggio, che dura 45', un vero e proprio esempio da manuale di cinema d'azione; menzione particolare anche per il duello con i bambù tra Kyuzo e un altro samurai); ci sono però anche i contenuti, che il regista è riuscito ad inserire felicemente nel generale clima battagliero del film; durante i non rari momenti di pausa dall'azione, Kurosawa approfitta per approfondire le psicologie dei personaggi , arricchendoli di sfumature che conferiscono loro spessore e umanità, attraverso la narrazione di  significative microstorie (la folgorante presentazione di Kambei, il quale non esita a sacrificare la propria capigliatura-gesto inaudito per un samurai- pur di salvare un bambino dal suo rapitore; la scoperta dell'amore da parte di Katsushiro nel bosco fiorito; il passato di Kikuchiyo che, pur di spacciarsi per samurai, non esita ad esibire dei titoli fasulli; la generosità e l'umanità dell'apparentemente glaciale Kyuzo...). Non mancano inoltre spunti umoristici e picareschi,soprattutto grazie al fondamentale personaggio del contadino- samurai interpretato dall'istrionico e bravissimo Toshiro Mifune e ad alcuni personaggi di contorno( il pavidoYohei su tutti).
Il cuore del film è costituito dall' analisi del rapporto (un incontro/scontro) tra due classi sociali e quindi due culture-quella dei contadini e quella dei samurai- apparentemente inconciliabili tra loro e separate da rancori atavici. Se la prima ci viene mostrata attraverso una prospettiva collettiva, la seconda è affrontata in maniera molto più approfondita, dato che ciascuno dei 7 simboleggia  un particolare aspetto dell'etica dei samurai ma più che altro dell'etica nipponica tout court:Kambei rappresenta la saggezza e la maturità disincantata, Katsushiro la giovinezza e l'igenuità,Kyuzo l'ascetismo,Heihachi l'ottimismo e l'allegria, Gorobei la gentilezza e il buon senso, Shichiroji la fedeltà e l'abnegazione... fino ad arrivare a Kikuchiyo,figura centrale della storia, colui il quale, grazie alla propria trascinante esuberanza e al suo essere un "contadino dal cuore di samurai", riuscirà a far da tramite tra i poveri contadini e i valorosi guerrieri compiendo il miracolo dell'unione. È facile leggere tra le righe di questo tema centrale del film tutta una serie di convinzioni e valori tipici dell'umanesimo commosso e partecipe del regista. In primis, un appello accorato e toccante alla solidarietà tra gli uomini, unico argine di fronte alle avversità della vita; questa unione tra due categorie di individui tanto differenti tra loro potrà  compiersi però solo in virtù di uno sforzo reciproco di tolleranza e comprensione. In una delle scene più emozionanti e significative del film, Kikuchiyo  invita i sei  a recitare un salutare mea culpa nei confronti dei contadini, la classe sociale tradizionalmente oppressa da tutti, samurai compresi. La predica sortisce l'effetto desiderato: i samurai hanno ormai definitivamente preso atto che anche i miseri hanno le proprie ragioni e meritano rispetto-convinzione che Kurosawa veicola nei molti suoi film in cui si occupa degli "ultimi" - e decidono liberamente di rischiare la pelle per una giusta causa,senz'altra ricompensa in cambio che il seguire le proprie idee in piena libertà; dal canto loro,e qui veniamo ad un altro dei messaggi fondamentali del film ,i contadini mutueranno da Kambei e compagni un atteggiamento nuovo nei confronti della vita, non più passivo e rassegnato,bensì caparbio e coraggioso. La rassegnazione è, per Kurosawa, uno dei grandi mali dell'uomo, condizione esistenziale paralizzante che rende la vita insostenibile.
Altro tema di discussione sollevato dal film è l'interessante opera di  smitizzazione della figura del guerriero, spogliato di ogni attributo superomistico e mostrato come uomo in tutte le sue debolezze (anche i samurai hanno fame, freddo, paura, rabbia). Questa restituzione di una dimensione umana al samurai,se da un lato ne stempera l'aura eroica,dall'altro finisce per nobilitarlo come uomo. C'è quasi un processo di revisione del codice cavalleresco -il bushido-dei samurai, che rimanda metaforicamente ad una più ampia rimessa in discussione della rigida e sclerotizzata morale giapponese: i samurai di questo film violano in continuazione precetti comportamentali ritenuti insindacabili, a partire dalla già citata rasatura di Kambei, quando si accorgono che tali precetti confliggono con ideali ben più importanti, che sono quelli della giustizia,della pietà e della solidarietà verso il prossimo. E'in nome di questa "illuminazione" che permettono pure  ai contadini di utilizzare armi sottratte a samurai precedentemente uccisi, cosa che solitamente dovrebbe risultare sacrilega agli occhi di un guerriero; è sempre per lo stesso motivo che, nonostante venga proposta loro una missione non retribuita e per giunta degradante da un punto di vista professionale, i 7-o meglio, i 6+1, come indicato nello spiritoso striscione dipinto da Heihachi-decidono di mettere in gioco le proprie vite.Tutto ciò inoltre, pur nella piena consapevolezza della loro transitorietà e impotenza di fondo nei confronti della realtà e dell'inesorabile scorrere del tempo. È, questa, un'altra riflessione esistenziale che Kurosawa esprime più volte nel corso del film per bocca dell'affascinante figura del saggio e ormai disilluso Kambei (che sia l'alter-ego del regista?), interpretato dal grande Takashi Shimura : all'inizio, quando per cercare di dissuadere il giovane Katsushiro a diventare  suo discepolo afferma "HO FATTO ESPERIENZA COMBATTENDO IN TANTE BATTAGLIE,PERDENDOLE TUTTE"; più avanti, sempre rivolto a Katsushiro, quando gli offre una laconica sintesi della sua vita da guerriero: "DA GIOVANE,CERCHI DI MIGLIORARTI IN BATTAGLIA PER DIVENTARE UN GIORNO IL SIGNORE DI UN CASTELLO . INTANTO,IL TEMPO PASSA,I CAPELLI DIVENTANO BIANCHI,I FAMILIARI SONO MORTI E GLI AMICI SCOMPARSI..."sembra quasi di sentir parlare il tenente Drogo ne "Il deserto dei tartari"; nello splendido finale del film, quando, rivolto ai due compagni superstiti,riflette :"ANCHE STAVOLTA NOI SAMURAI ABBIAMO PERSO. I VERI VINCITORI SONO I CONTADINI". Non c'è qui rammarico per l'ingratitudine dei loro protetti -che, mentre i samurai commemorano silenziosamente in disparte i tumuli dei compagni caduti, festeggiano con canti e danze la vittoria lavorando nei campi-ma solo un'amara constatazione della caducità e provvisorietà della vita, acquisizioni tipiche dell'uomo maturo. Cionostante,l'aver agito secondo coscienza ha probabilmente fatto sentire Kambei e gli altri , profondamente vivi. Ne vale sempre la pena, insomma, sembra volerci rassicurare Kurosawa. Il senso del limite non può né deve impedirci di vivere il tempo che abbiamo a disposizione, con la massima intensità possibile. È quindi l'utopia il vero motore di questo film, malgrado questa chiusura malinconica e un po' pessimista, stemperata solo dal fatto che, in fondo, uno dei tre sopravvissuti è proprio Katsushiro,ovvero colui che rappresenta il futuro. Un film profondamente umano dunque, un film sull'uomo e per l'uomo da un grande umanista che regala ai suoi simili un caleidoscopico poema d'azione e sentimenti,semplice, profondo, emozionante, come avviene solo nei capolavori.


Da vedere assolutamente nella versione integrale di 3 ore e 12 minuti  e in giapponese sottotitolato(pessimo il ri-doppiaggio italiano realizzato appositamente per l'edizione digitale), se si vuole apprezzare davvero fino in fondo la grandezza del film. L' edizione approntata all'epoca per l'estero -riproposta peraltro tra i  contenuti bonus dell'edizione speciale a 2 dischi del film, unitamente ad un interessante documentario con interviste a Kurosawa e collaboratori - dura soltanto un paio d'ore ; un vero e proprio scempio del film, che in questa veste perde tantissimo sia a livello estetico che tematico, provare per credere!

Francesco Vignaroli

24 febbraio, 2012

Infine sulla Berlinale: "La demora", tanta qualità poca visibilità



Quest’anno la Berlinale tra tutte le sezioni in concorso ha presentato la cifra record di quattrocento titoli. Suddividendoli per i giorni effettivi delle proiezioni, sono stati mostrati al pubblico quaranta film al giorno. Una cifra impossibile per chi non avrebbe voluto perdersi nemmeno un cortometraggio. Di solito critici, giornalisti, cineasti o semplici appassionati pianificano la giornata, sanno che non potranno vedere più di quattro o cinque film in 24 ore e quindi cercano di organizzarsi in modo da non perdersi in film inutili, anche se a volte vedere un buon lavoro è solo questione di fortuna. Tra i tanti film visti quest’anno a Berlino ce n’era uno veramente interessante, un vero capolavoro e chi lo ha visto è stato veramente fortunato. Un film piccolissimo per consistenza, budget e attori ma veramente ben fatto. Un lavoro presentato in una delle sezioni minori del festival e quindi assolutamente passato inosservato ai grandi media, anche se poi ha vinto due premi, seppur minori, ma molto considerati a livello internazionale. Una pellicola diretta da un autore uruguaiano, che nel 2007 presentò al Festival di Venezia La zona, distribuito nei pochi cinema d’essai rimasti ancora nella provincia italiana.
Il regista in questione è Rodrigo Pla e il film, su sceneggiatura scritta dalla moglie, si chiama La Demora.
La Demora è un dramma struggente. Augustin è un uomo anziano affetto da demenza senile. Sua figlia Maria, senza marito e tre figli piccoli da mandare a scuola, dorme pochissimo, lavora troppo e veglia attentamente su tutta la famiglia. La donna, sopraffatta da questa situazione, decide di mandare suo padre in un centro di assistenza per anziani, ma quando comincia la pratica per avere il servizio gratuito previsto per i poveri, scopre che è troppo benestante. A quel punto a Maria viene un’ idea: approfittando della demenza del padre, decide di abbandonarlo e poi di chiamare la polizia, in modo che nel trovarlo gli agenti lo accompagnino in un centro per anziani. Ma qualcosa non va come deve andare e il titolo del film prende spunto da questo inconveniente, infatti  La Demora in italiano si traduce Il ritardo. L’anziano in effetti è convinto che la figlia sia in ritardo, e quando la polizia arriva tentando di convincerlo a salire in macchina, lui si oppone con tutte le sue forze, dicendogli che sta aspettando qualcuno che dovrà arrivare. Il dramma gioca tutto su un doppio filo: da una parte c’è un vecchio malato che rimanendo fuori la notte rischia di morire di ipotermia, e dall’altra parte c’è la figlia che sotto le domande insistenti dei bambini si sente terribilmente in colpa. L’intreccio ha una struttura classica scandita da tre precisi momenti. La prima scena è emblematica per presentarci i personaggi e per introdurci nel rapporto tra padre e figlia: c’è una donna che con tanta pazienza aiuta un anziano nudo a lavarsi sotto la doccia e lo stesso se ne vergogna. La parte centrale, invece, è rappresentata dalla scena nella quale la figlia decide di abbandonare il padre. È qui che il regista mostra tutta la sua bravura, non solo nel girare, ma anche di saper scegliere gli attori. Perché l’attrice che interpreta Maria (Roxana Blanco) è davvero brava, è una donna dal viso segnato dalla sofferenza e il personaggio che interpreta gli è cucito addosso. Bastano pochi secondi di inquadratura sul suo sguardo e il pubblico riesce a capire la triste decisione che sta per prendere. Ecco, tutta la forza di questo piccolo capolavoro è tutta in questa scena. È qui che viene fuori la forza della settima arte, è qui che il cinema si stacca dal teatro, dalla letteratura e da tutte le altre forme artistiche e diventa solo cinema nella sua essenza. Ed infine c’è il finale, un finale denso ed emozionante, ma che non voglio descrivere in questo articolo perché, se qualche distributore con un po’ di amore per il cinema l’abbia comprato o lo vuole comprare, farà la fortuna di un qualsiasi cinema d’essai rimasto ancora nella provincia italiana.

Antonio Castaldo 

23 febbraio, 2012

Eugenio Barba e la sua “vita cronica”: la fiducia nella speranza



Un mondo parallelo, una serie di personaggi senza tempo che lo abitano, la musica che li accompagna in tutto il loro viaggio, la guerra che distrugge, la speranza che cerca di combattere contro la finzione della comprensibilità. Tutto questo in uno spazio indefinito - in Danimarca e altri paesi dell’Europa - in cui gli attori dell’Odin Teatret si muovono in modo naturale e spontaneo, anche se di certo non simile alla realtà. Di verosimile, infatti, c’è ben poco, se non le emozioni che gli attori riescono ad esprimere, nonostante la mescolanza di lingue (rumeno, danese, cileno, italiano e inglese) non permetta di comprendere fino in fondo tutti i dialoghi. La storia è quella dei primi mesi dopo una guerra civile, attorno al 2031. Un’epoca futura, di cui quindi non possiamo già conoscere le fattezze. “Molte voci, giorno e notte, con molti mezzi, pretendono di spiegarci i differenti perché della storia che assedia le nostre vite e minaccia di trascinarle nel caos.” Scrive Barba dimostrando l’inclinazione caotica dello spettacolo. Un’esplosione di sensi, di allusioni, un bombardamento di figure che non possono essere vicine alla nostra esperienza, ma che inevitabilmente ci toccano, come se andassero a ripescare emozioni cui non possiamo dare neanche un nome. La prima reazione a seguito dello spettacolo è, infatti, di mutismo: non ci sono parole per descrivere ciò che ci è stato raccontato. Facile affermare che gli attori, con il corpo, la voce e il canto si sono dimostrati ottimi performer, ma non è facile capire perché la biografia di quelle persone sofferenti e tormentate ha innescato una viva partecipazione in noi. Forse quello che capisce uno spettatore è tutt’altro di quello che, invece, interpreta un altro, ma non c’è risposta giusta e sbagliata agli interrogativi che i protagonisti di “La vita cronica” si pongono. Una rifugiata cecena che piange il marito morto, una madonna nera vestita di strani drappi che delirante taglia l’aria con una spada, una casalinga rumena intenta a mangiare e pulire in continuazione che prova più volte a suicidarsi, un avvocato danese, un vecchio rocker delle isole Faroe, un ragazzo sudamericano che cerca suo padre scomparso, la vedova di un combattente basco, una violinista di strada, due mercenari. Questi sono i protagonisti dello spettacolo di Eugenio Barba.

Sara Bonci

21 febbraio, 2012

Ferenc Liszt secondo Michele Campanella



Ferenc Liszt


Ferenc Liszt (più spesso conosciuto con il nome Franz Liszt) è stato un grande pianista ungherese. Non solo un pianista,  a dire il vero, ma, soprattutto, un musicista a tutto tondo, compositore, direttore e teorizzatore. Nato nel 1811 e morto nel 1886, è stata una di quelle rare personalità in eterna trasformazione, alla ricerca di un sé nuovo. Un lato questo che, se da una parte gli vale lo scettro di uno dei più grandi musicisti mai esistiti, dall’altro gli procura le ingiurie da quella parte della critica musicale che vuole per forza collocare ciascuno nel suo posto, nella sua scuola, nella sua casa, nel suo “partito”. Ma Liszt non ha avuto una sola casa, non ha avuto una sola musica. Liszt è stato il musicista del mondo, difficilmente collocabile geograficamente  e artisticamente. Se a questo si aggiunge anche la sua vena musicale astratta e trascendente le cose si fanno ancora più complicate e incomprensibili a una mente insensibile alla sua musica.



In occasione della fine del bicentenario della nascita lisztiana, festeggiato nel 2011, ho avuto un dialogo con un grande Maestro, che ha dedicato in larga parte la sua carriera di pianista a Ferenc Liszt. Si tratta di Michele Campanella, una grande gloria del pianismo italiano, che a Liszt ha dedicato anche un libro: “Il mio Liszt”, edito a Bompiani nel 2011.

Ringraziandola di prestarsi a questa intervista, le vorrei chiedere, innanzi tutto: perché secondo lei Ferenc Liszt rimane spesso un musicista incompreso o ritenuto "volgare"? 

Michele Campanella
Perché nell'opera di Liszt convivono volgarità e nobiltà con un grave rischio semantico: la nobiltà si legge facilmente in volgarità. Evidentemente il pianista Liszt riusciva a rendere nobile ciò che la maggioranza degli esecutori delle sue opere traduce in volgare. Secondo me esiste questo  problema intrinseco alla musica di Liszt che può essere risolto dall'interpretazione. La volgarità è anche il risvolto dell'eccesso di complicazione tecnica che  in molti casi appesantisce il pianismo lisztiano: ancora una volta va detto che le difficoltà di esso non erano tali per il compositore: il suo modo di suonare tendeva al risultato musicale  superando di slancio ogni ostacolo digitale. Soltanto così si spiega il sensazionale successo della sua presenza sui palcoscenici europei.

Chi era - è - per lei Liszt?

un grande personaggio, un uomo coraggioso, un gentiluomo, un uomo di un'incredibile generosità e di altissima idealità. Dunque, anche fuori dalle sue composizioni, un uomo da ammirare.
Si ricorda quando nacque in lei l'amore artistico per il musicista ungherese? Perché lo apprezza così tanto?
Nacque quando avevo 14 anni e ascoltavo suonare musiche di Liszt in classe dal Maestro Vincenzo Vitale, eseguite da Laura De Fusco e da Riccardo Muti. Il mio primo pezzo fu Funerailles e poi subito il Mephisto Valzer. L'ingenua sensazione era che quelle musiche fossero  così vicine al mio modo di essere da poterle pensare composte da me: totale immedesimazione, evidentemente.

Come colloca Liszt nel panorama della storia musicale?

Ferenc Liszt al pianoforte
Ora ho una visione del Pantheon musicale molto più ampia e colloco Liszt accanto ai grandi compositori, senza alcuna faziosità fanatica. Osservo i suoi difetti, seleziono in cuor mio le cose splendide dalle cose meno riuscite della sua produzione. Insomma, a parte la mia assoluta simpatia per l'uomo, Liszt è UNO dei compositori che amo eseguire.

Una volta ho sentito dire a Richter  una cosa che mi ha lasciato un po' perplesso: vale a dire che non aveva un pianoforte preferito e che per lui erano tutti uguali - aggiungendo che il Yamaha non è male. Lei ha un pianoforte che preferisce? 

Ho suonato nella mia vita, oltre allo Steinway di Amburgo e di New York, Baldwin, Fazioli, Bechstein, Borgato, Kawai, Stuart, Pleyel, Erard, Boesendorfer, Tallone, Estonia, Petrof, Gotrian-Steinweg. Non sono mai completamente soddisfatto ed è ovvio se si pensa alle caratteristiche del pianoforte. Ora suono in ogni occasione possibile lo Yamaha, perché è lo strumento dove trovo la maggior gamma di colori attraverso una meccanica formidabile. Oltretutto Yamaha progredisce, mentre Steinway regredisce.
Parlo da grande ascoltatore della musica colta e da grande ammiratore di Liszt. Mi ricordo che quando ero quasi un ragazzino ascoltai un cd con musiche di Liszt suonate da Vasary e ne rimasi veramente colpito. Ho continuato poi con l'ascolto di altri grandi interpreti, come Lei e Cziffra. Come ha scritto nel suo libro, Liszt, più che altri musicisti, ha bisogno di un esecutore particolarmente capace e sensibile. Le posso chiedere a riguardo chi secondo lei sono, o sono stati, i migliori pianisti interpreti della musica di Liszt?
Non ho piacere di parlare di pianisti. Noto che, in mezzo ad una massa di esecutori che non riescono a vedere il traguardo cui giungere nella musica di Liszt, vi è un folto gruppo di grandi interpreti che hanno dato un importante contributo, ad incominciare da Ferruccio Busoni. Cziffra è stato un grande ispiratore della mia adolescenza, ma ascoltarlo oggi è deludente. Quel poco che ha fatto S. Richter è straordinario. Il lascito di W. Kempff è importantissimo. Arrau e Brendel hanno preso Liszt sul serio, da musicisti intelligenti quali sono. Bolet è molto interessante ma stupisce quando dice che l'ultimo Liszt non va suonato, perché poco significativo. Il Mephisto Valzer  del vecchio Rubinstein, indimenticabile. E poi altri eccellenti pianisti che non hanno trovato il tempo di indagare a fondo il personaggio e quindi, pur suonando benissimo, non colgono la  sua complessità.   
Crede che il bicentenario del compositore appena terminato sia servito - servirà - alla riscoperta di questo musicista? Si sente soddisfatto di come il bicentenario lisztiano è stato festeggiato?

Liszt è stato festeggiatissimo dai pianisti, pochissimo dai direttori d'orchestra, quasi ignorato dalle grandi istituzioni musicali italiane.

Lei è ideatore delle "Maratone Lisztiane", che cosa s'intende con questo termine?

Intendevo far ascoltare per la prima volta nella storia mondiale tutta l'opera pianistica di Liszt. Arrivati alla terza maratona l'Accademia di Santa Cecilia ha cambiato idea e ha cancellato le quattro maratone che avrebbero dovuto concludere l'impresa. Preferisco non commentare tale decisione.

Ringrazio il Maestro Michele Campanella per questa preziosa intervista e lo lascio con la speranza che il genio di Liszt sarà compreso con maggiore sensibilità nel futuro.


Stefano Duranti Poccetti

18 febbraio, 2012

L'Orso d'Oro a una bandiera italiana: "Cesare deve morire"


"Cesare deve morire" vince l'Orso d'Oro al Festival del Cinema di Berlino 2012! Un grande orgoglio per l'Italia. Il film è stato già recensito qualche giorno fa dal collega Antonio Castaldo, inviato a Berlino per seguire l'evento. Per l'occasione ripropongo a seguito l'articolo citato:


"Da quando ho conosciuto l’arte sta cella è diventata una prigione!” 
Chiude così Cesare deve morire, il bellissimo film in lizza per conquistare l’Orso d’Oro, dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, applaudito da tutta la stampa internazionale alla presentazione di stamane. Una docufiction girata nel carcere di massima sicurezza di Rebibbia in cui un gruppo di detenuti mettono in scena il Giulio Cesare di Shakespeare.
Una esperienza così coinvolgente che, a detta degli stessi registi, alla loro età non credevano di poter vivere. In effetti per la prima volta si sono confrontati con degli attori che recitavano le battute con un dolore vero, un dolore sentito, che gli attori professionisti, anche quelli più bravi, non possono avere. E in effetti l’esperimento dei fratelli Taviani gira tutto intorno a questo meccanismo. "Entrano" ed "escono" da Shakespeare, dal suo Giulio Cesare, ricordandoci che le scenografie non sono ricostruite da uno scenografo, non sono finte, inventate o create, ma che siamo in un carcere e gli attori, anche se bravi, sono solo dei carcerati che dalle quinte del teatro della vita a volte non possono più uscire. Ecco perché la frase finale dell’attore-carcerato. Forse si è pentito e attraverso l’arte ha fatto i conti con le proprie colpe. Forse ha capito qual è il suo talento, ma non potrà mai sperimentarlo in libertà perché è un ergastolano.
Ma nel film c’è anche chi ce l’ha fatta, si tratta del bravissimo Salvatore Striano, richiamato in carcere dai fratelli Taviani per interpretare un intenso Bruto, il personaggio chiave dell’intera vicenda. L’attore napoletano adesso è un professionista,  fa teatro, cinema e televisione, era stato in carcere per otto anni e solo grazie al suo talento è riuscito a ricostruirsi una vita.
Il film comincia e finisce con la stessa scena, ma l’intensità con la quale lo spettatore vive la seconda diventa inevitabilmente più emozionante. Nel mezzo c’è la storia di un classico teatrale preso, smembrato, decostruito e ricostruito, in nome di uno spettacolo, il cinema, che, pur essendo figlio del teatro, è una cosa diversa. 
Il film è in bianco e nero, il colore è usato dai registi solo per scandire i tempi e per evocare in una fotografia una poetica di libertà, mentre i dialoghi sono recitati in dialetto di appartenenza di ogni attore.
Il progetto è stato realizzato grazie all’incontro dei Taviani con Fabio Cavalli, attore prestato nel film, ma di professione regista del teatro di Rebibbia, un teatro della città di Roma  - non solo uno dei tanti luoghi di un carcere - dove è riuscito a portare ad oggi ventiduemila spettatori, molti dei quali studenti minorenni. Un fenomeno che potrebbe essere oggetto di studi per il teatro contemporaneo.

Antonio Castaldo, Berlino

17 febbraio, 2012

Festival del cinema di Berlino: Orso d'Oro alla carriera per Meryl Streep



“Credo che la cosa più difficile per un attore sia presentarsi un’altra volta sullo schermo  con una interpretazione più nuova e sorprendente che quella precedente” dichiara Meryl Streep mentre riceve l’Orso d’Oro alla carriera del 62esimo Festival di Berlino.
Mettendo in mostra un abito semplice ed elegante di colore nero e quella risata inconfondibile che nella sua ultima interpretazione in “The Iron Lady”  non vediamo mai.
In conferenza stampa l’ attrice, candidata al premio oscar come miglior interpretazione, ha parlato del suo lavoro, delle sue idee politiche, del femminismo e, per questo, anche della vera lady di ferro: “quello che penso di Margaret Thatcher  è lo stesso di chi ha idee di sinistra moderata e vive a New York: lei era amica di Ronald Reagan, che distrusse i sindacati e condusse una politica liberale, la quale arricchì poche persone impoverendone tante altre”. E aggiunge: “Ma questo non vuol dire che non sono apprezzati altri aspetti della sua politica, era una femminista e questo ha aperto le porte del potere a molte donne. Poi non bisogna dimenticare che non prendendo nessuna posizione sull’aborto ha praticamente riconosciuto il diritto alle donne se portare avanti la maternità o interromperla”. Tornando al film: “ Comunque quando interpreto un personaggio, soprattutto quando interpreto qualcuno che sia realmente esistito, io non lo giudico né in positivo né in negativo, ma cerco in tutti i modi di trovare quello che ci accomuna, e quindi, nel caso della Thatcher, spero non sia tanto... Molte persone pensano che deve essere difficile interpretare un personaggio così grande: un altro accento, un altro modo di camminare; ma recitare con persone in carne e ossa con cui si parla in ogni scena è facile. Per fortuna non si ha a che fare con i robot animati o con una schermata blu su cui verranno montati gli effetti speciali e con i quali non si ha nessuna comunicazione. 
In sala grandi spazio alle risate quando un giornalista rumeno le chiede perché non interpretare una giovane Thatcher, vedendola così fresca e rosea, e lei, con grande charme e un grosso sorriso: “I really love rumanians” e poi facendosi seria dice: “Mi piace incarnare sia sul palcoscenico sia su un film tutti i tipi di donne, forti, deboli … donne insopportabili ma per lo più difficili. Quando inizio a leggere un copione, ad un tratto, c’è qualcosa che mi attrae nel progetto, tanto è vero che non riesco più a seguire la lettura e mi dico: devo assolutamente realizzare il sogno dello scrittore, voglio che diventi realtà.
La vita degli attori è molto strana, andiamo da un lavoro all’altro senza sapere qual è il prossimo, ma forse è anche la cosa più affascinante del nostro mestiere. Conclude la conferenza: “A Berlino so che ci sono cinque musei d’arte contemporanea, che ho intenzione di visitare con mio marito. E’ così bello trascorrere un pomeriggio guardando opere d’arte mentre non sei sotto lo sguardo di nessuno”.

Antonio Castaldo, Berlino

14 febbraio, 2012

In Diaz, la vergogna di una triste pagina di storia contemporanea



“Diaz - Don’t clean up this blood” nasce da una telefonata tra il regista Daniele Vicari con il produttore della Fandango Domenico Procacci, all’indomani della sentenza di primo grado del processo per i fatti della Diaz, quando alcuni familiari delle vittime gridarono: “Vergogna! Vergogna!! Non verrò mai più in questo paese”. Il paese in questione, purtroppo, è un paese riconosciuto da tutti “democratico” e quello che è successo a Genova nel 2001 in occasione del G8 è una triste pagina di storia contemporanea europea.
C’era bisogno di fare un film? Non bastavano i processi, i fiumi di carta, la stampa, le migliaia di documentazioni audio-visive girate sul posto e che si possono trovare ovunque su internet? C’era proprio bisogno che qualcuno usasse il linguaggio del cinema per raccontare questa storia? La risposta è sì. Il cinema è spettacolo e quando lo spettacolo diventa denuncia, se fatto bene, riesce a scuotere qualcosa dentro di noi, che altri linguaggi non possono. Con la fiction si entra in empatia con i personaggi e si vive il racconto in maniera diretta, in profondità. Ci si sente parte di esso, vittima o carnefice, a seconda del punto di vista.
In questo film lo spettatore è vittima di una inaudibile violenza. Dalla sala non si può uscire con indifferenza, le immagini sono cruente, forti, il dolore delle manganellate si sente e fa male. Alla Diaz e poi a Bolzaneto in quei giorni sono venuti meno i fondamentali diritti della democrazia e le violenze perpetrate dalla polizia italiana sono alla base della denuncia di cui il film si fa portatore. Una docu-fiction che nasce dalla lettura degli atti processuali, dalle interviste ai manifestanti e alla polizia. E dalla locandina si capisce subito quello che viene denunciato, la frase è di Amnesty International: “La più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale” . Diaz - don’t clean this up: è la storia intrecciata di Luca (interpretato da Elio Germano), Alma (Jennifer Ulrich), Marco (Davide Iacopini), Franci (Camilla Semino), Nick (Fabrizio Rongione), Anselmo (Renato Scarpa), Etienne (Ralph Amoussou),Cecile (Emilie De Preissac) e Max (Claudio Santamaria) e centinaia di altre persone che incrociano i loro destini la notte del 21 luglio 2001. I diversi livelli narrativi si intrecciano con diversi punti di vista e i personaggi si muovono nei luoghi fondamentali della storia, inconsapevoli di ciò che sta per capitare. La narrazione del film gira intorno ad un fatto marginale accaduto qualche ora precedente all’irruzione: qualcuno lancia degli oggetti, tra cui una bottiglia di vetro, su una pattuglia di ricognizione della polizia davanti alla scuola Diaz, e questo scatena tutta una serie di eventi che portano agli esiti estremi raccontati nei processi. L’intreccio, che è ben raccontato, la semiotica, che ha una correlazione simbolica ben calibrata e il cast di livello internazionale danno al film quel carattere europeo che purtroppo da anni manca al cinema nostrano.

Antonio Castaldo, Berlino

Medea. Tra il sole e l’ombra vince l’ombra



Un sole di bronzo sullo sfondo, il suo nero riflesso sul palcoscenico, in cui è presente una piccola scalinata. Medea (Pamela Villoresi) è sempre al centro con la sua veste rossa passione, protagonista assoluta, che del sole ha la saggezza, della sua ombra la rabbia tenebrosa del rancore, un rancore nato dal tradimento del suo amato Giasone (David Sebasti), che a lei ha preferito la figlia del re di Corinto Creonte (Renato Campese), intento a donare ai suoi figli – avuti da Medea – un prospero futuro. Un futuro che per i piccoli non ci sarà, perché uccisi dalle mani di Medea, dopo che la donna ha anche ucciso la principessa e il padre Creonte.
Il testo di Euripide mantiene in questa trasposizione teatrale la sua originaria forma, e così, anche il modo recitativo degli attori, sembra richiamare quello classico del teatro greco – dove i personaggi sembrano tutti rinchiusi nel loro universo poetico, quasi impossibilitati nello scambio relazionale tra di loro. È evidente che per questa messa in scena, per ovvi motivi, sono stati attuati molti tagli sul testo del tragico greco (l’adattamento è di Michele Di Martino e Maurizio Panici), rivisitando anche i costumi (dell’artista Michele Ciacciofera), attualizzati e simbolici – Il rosso di Medea per esempio simboleggia proprio la sua forza passionale. Il coro è reso soltanto da una narratrice cantante (Evelina Meghnagi), nel ruolo di Prima Corifea, che ha intonato con raffinatezza canti in lingua greca.
Pamela Villoresi veramente ottima in questo ruolo, che lei stessa ha definito il più faticoso della sua carriera teatrale. Deve passare sempre da alti a bassi e da bassi a alti, per riuscire a rappresentare l’ambiguità di Medea, un vero e proprio dualismo femminile: l’una razionalmente saggia, l’altra resa pazza dalla passione, una passione che le permetterà di realizzare il suo cupo progetto andando anche incontro al suo destino: uccidere i figli per punire il padre. Una donna padrona del suo destino, che, quando Euripide, ai suoi tempi,  presentò, non fu accolta con favore per i concetti espressi totalmente diversi dalla società di quel tempo. Oggi per noi è più semplice accettare un personaggio del genere, benché non resti sempre semplice accettare la sua soluzione di vendetta.
Buonissima anche l’interpretazione di David Sebasti, anche lui in un ruolo di un uomo apparentemente sicuro di sé stesso, in realtà molto tormentato interiormente. L’apparizione di Creonte è invece misera, ma non per questo va svalutato il lavoro di Renato Campese, bravo nel ruolo.
Altri personaggi che troviamo in scena sono la nutrice e il messaggero, rispettivamente interpretati da Silvia Budri Da Maren e Andrea Bacci. La nutrice non svolge un ruolo marginale e la troviamo spesso in scena a relazionarsi con Medea e Giasone e si può dire che l’attrice sia stata artefice di un’ottima interpretazione. Andrea Bacci appare solo una volta in scena, per annunciare la morte della principessa e di Creonte e il suo monologo drammatico è molto intenso ed emotivo. In scena anche il regista dello spettacolo Maurizio Panici, nei panni di Egeo, l’unico che Medea sentirà veramente vicino ai suoi tormenti. A proposito di Maurizio Panici, un complimenti alla regia, che fa di questa rappresentazione un bello spettacolo, organicamente funzionante nelle sue parti, impreziosito poi dalle musiche del compositore Luciano Vavolo.

Stefano Duranti Poccetti 

11 febbraio, 2012

Cesare deve morire. Shakespeare in un carcere. Ancora dalla Berlinale



"Da quando ho conosciuto l’arte sta cella è diventata una prigione!” 
Chiude così Cesare deve morire, il bellissimo film in lizza per conquistare l’Orso d’Oro, dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, applaudito da tutta la stampa internazionale alla presentazione di stamane. Una docufiction girata nel carcere di massima sicurezza di Rebibbia in cui un gruppo di detenuti mettono in scena il Giulio Cesare di Shakespeare.
Una esperienza così coinvolgente che, a detta degli stessi registi, alla loro età non credevano di poter vivere. In effetti per la prima volta si sono confrontati con degli attori che recitavano le battute con un dolore vero, un dolore sentito, che gli attori professionisti, anche quelli più bravi, non possono avere. E in effetti l’esperimento dei fratelli Taviani gira tutto intorno a questo meccanismo. "Entrano" ed "escono" da Shakespeare, dal suo Giulio Cesare, ricordandoci che le scenografie non sono ricostruite da uno scenografo, non sono finte, inventate o create, ma che siamo in un carcere e gli attori, anche se bravi, sono solo dei carcerati che dalle quinte del teatro della vita a volte non possono più uscire. Ecco perché la frase finale dell’attore-carcerato. Forse si è pentito e attraverso l’arte ha fatto i conti con le proprie colpe. Forse ha capito qual è il suo talento, ma non potrà mai sperimentarlo in libertà perché è un ergastolano.
Ma nel film c’è anche chi ce l’ha fatta, si tratta del bravissimo Salvatore Striano, richiamato in carcere dai fratelli Taviani per interpretare un intenso Bruto, il personaggio chiave dell’intera vicenda. L’attore napoletano adesso è un professionista,  fa teatro, cinema e televisione, era stato in carcere per otto anni e solo grazie al suo talento è riuscito a ricostruirsi una vita.
Il film comincia e finisce con la stessa scena, ma l’intensità con la quale lo spettatore vive la seconda diventa inevitabilmente più emozionante. Nel mezzo c’è la storia di un classico teatrale preso, smembrato, decostruito e ricostruito, in nome di uno spettacolo, il cinema, che, pur essendo figlio del teatro, è una cosa diversa. 
Il film è in bianco e nero, il colore è usato dai registi solo per scandire i tempi e per evocare in una fotografia una poetica di libertà, mentre i dialoghi sono recitati in dialetto di appartenenza di ogni attore.
Il progetto è stato realizzato grazie all’incontro dei Taviani con Fabio Cavalli, attore prestato nel film, ma di professione regista del teatro di Rebibbia, un teatro della città di Roma  - non solo uno dei tanti luoghi di un carcere - dove è riuscito a portare ad oggi ventiduemila spettatori, molti dei quali studenti minorenni. Un fenomeno che potrebbe essere oggetto di studi per il teatro contemporaneo.

Antonio Castaldo, Berlino

10 febbraio, 2012

Les Adieux à la reine. Le prime inquadrature della Berlinale 2012!




A dare inizio alla 62esima edizione della Berlinale è stato il film francese in concorso Les adieux à la Reine di Benoit Jacquot. Il direttore artistico Dieter Kosslick nella presentazione del festival aveva anticipato: “Our French opening film Les adieux à la reine sets the tone”. Il tono di cui parla il direttore è che il cinema non è fatto solo da scene e costumi, ma anche dalle persone che ritrae. L’ edizione 2012 della Berlinale, infatti, non ignora i tumulti degli ultimi mesi, e sceglie una serie di film che, quand’anche non riguardino l’attualità in senso stretto, la chiamano in giudizio da molte prospettive geografiche e storiche.  Ci sarà un focus tutto particolare sull’ Africa e su tutti quei paesi che dal cinema sono stati quasi dimenticati. L’edizione 2012 della Berlinale diventa spettatrice attenta a tutto quello che succede oggi in Europa e nel mondo: dalla Primavera Araba al Mondo delle rivolte.
E come poteva cominciare la mostra se non con un film che racconta la madre di tutte le rivolte? Les adieux à la reine è tratto dal romanzo della scrittrice e storica francese Chantal Tomas.
Siamo a Versailles nel Luglio del 1789, l’inquietudine  alla corte del Re Luigi XVI cresce ogni ora che passa e il paese è sull’orlo della Rivoluzione. Dietro le quinte dei palazzi reali vengono effettuati i piani di emergenza, anche se nessuno crede che questo segni la fine di tutti gli ordini costituiti,dove la Regina Maria Antonietta e il suo entourage parlano di fuga. Una delle dame di Maria Antonietta è Sindonie Laborde che, come lettrice della Regina è un membro della cerchia ristretta della monarchia. La Regina, preoccupata che la fuga di una sua prediletta, la duchessa di Polignac, potrebbe fallire, dà  istruzioni alla sua serva, facendola vestire degli abiti della sua amata. La storia potrebbe definirsi una storia d’amore: un triangolo che coinvolge le donne in questione e un’altra donna, dove, alla fine, una delle tre si sacrifica per amore. Ma di tutto il film questo è l’aspetto meno interessante, è solo un pretesto per raccontare qualcosa di più grande: la fine di un mondo, attraverso una narrazione che ha il suo punto di vista dall’interno, composto da lunghe inquadrature nelle stanze reali, nei corridoi e nei giardini reali. Attraverso la testimonianza minuziosa della serva innamorata della Regina interpretata dalla bravissima Léa Seydoux, assistiamo agli stanchi riti di una società moribonda, chiusa nella sua reggia e incapace di vedere e di capire il cambiamento che scuote la Francia; e, allo stesso tempo, scopriamo i tratti più segreti dei personaggi della corte e cogliamo la traccia indimenticabile della grazia e della bellezza di una regina infelice e sventurata, interpretata dall’austriaca Diana Cruger. Il film è interamente girato in digitale - nella conferenza stampa che ha seguito il film, il regista ha detto che: “Girare in pellicola è come girare sui cavalli nell’epoca delle automobili”.
Fare un film di costume in digitale e a basso costo non era facile, la fotografia è ottima e la musica non è mai banale, l’unico neo è la scenografia: mancano le grandi panoramiche, manca il respiro alle inquadrature, ma quello si sa, con un budget limitato non puoi permetterti tutto.

Antonio Castaldo, Berlino

09 febbraio, 2012

Brahms, Grieg, Čajkovskij a Santa Cecilia. Lo scettro al “pittore della tastiera” Evgeny Kissin




Evgeny Kissin
L’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia entra in scena accompagnata dagli applausi del pubblico e, all’arrivo del direttore James Judd, la serata musicale prevista all’Auditorium Parco della Musica di Santa Cecilia di Roma domenica 5 febbraio 2012 comincia sulle note di Johannes Brahms, con la sua “Tragishe Ouvertüre” (Ouverture Tragica) op. 81, gemella di quella più conosciuta: La “Ouverture Accademica”, composta da un tono melodico più leggero e vivace rispetto alla Tragica, molto più drammatica e, del resto, anche assimilata dalla critica, in modo opinabile, al “Coriolano” di Beethoven.
L’orchestra si comporta molto bene sotto la guida di James Judd, che mentre batte il tempo non si dimentica di “disegnare” le emozioni che l’orchestra deve “dipingere”. La strumentazione è molto limpida e pulita e anche gli stacchi più vistosi scorrono tra loro con fluidità, in questo pezzo che, a mio parere, è drammatico, ma non “profondo”. Quelle di Brahms sono ouverture che non seguono un percorso letterario o immaginifico: quella di Brahms è musica per la musica, contrariamente per quanto avviene per le ouverture di Beethoven, di Schumann, per i poemi sinfonici di Liszt. È inconciliabile per me il paragone tra questa Tragica e il Coriolano, dove quest’ultimo ha un’intensità nettamente superiore, avendo intenzione di evocare qualcosa – la Tragica non evoca niente. Dunque grande drammaticità per questo pezzo, una drammaticità puramente musicale e non extra – musicale, un tipo di drammaticità resa benissimo dall’Orchestra di Santa Cecilia.
Il brano termina tra gli applausi e il pianoforte viene accuratamente portato al centro del palcoscenico: è giunto il momento del tanto atteso pianista russo Evgeny Kissin e già ci emozioniamo prima che incominci a suonare. Tutto è pronto ed ecco le prime note del “Concerto il La minore per pianoforte e orchestra op. 16” di Edvard Grieg.
James Judd
A dire il vero non so di preciso cosa dire e cosa scrivere se non che sono rimasto estasiato e quasi paralizzato davanti all’Arte di questo grande pianista, che posso giustamente definire un Artista. Così pulito sulla tastiera come non ho mai sentito nessuno, riesce a unire grande tecnica a grande interpretazione emotiva – a dire il vero per lui la tecnica è automatica, non si deve sforzare, per lui è tutto facile, e allora ha il buon senso di impegnarsi per regalare la spiritualità del brano, facendoci anche commuovere in sala. Ascoltando Kissin non ascolto il pianista che suona, ma ascolto la musica. Quella musica che con lui giunge alla perfezione della “musica delle sfere”. Sotto le sue mani le note acquisiscono un’anima, un’anima che ci arriva fino al cuore. Inutile dire è che il pianista russo è uno dei massimi esponenti contemporanei di questo strumento e sono convinto di dire che un giorno sarà annoverato tra i più grandi interpreti di tutti i tempi. Può darsi che mi sbagli, ma questo non m’importa, quello che m’importa è che mi sento fortunato a essere vissuto nell’epoca di questo grande musicista che, dopo essersi cimentato con questo concerto dai temi scandinavi e in cui si passa da melodie allegre ad altre liriche, concede due bis al suo pubblico: dal “Carnaval”, sempre di Grieg e uno “Studio” di Chopin. Soprattutto nel primo – che è un brano molto colorito musicalmente, Kissin dimostra ancora il suo grande talento e fa scaturire da ogni nota un colore e un’intensità diversa – in effetti lo potrei definire in un certo qual modo il “pittore della tastiera”.
E quando il pittore ha finito il suo quadro se ne va via tra i “bravo!” e le acclamazioni più concitate degli ascoltatori, mentre l’orchestra e il maestro James Judd restano sul palco, perché è giunto il momento della “Sinfonia n. 2 in Do minore op. 17 (Piccola Russia)” di Pëtr Il'ič Čajkovskij.
Se all’inizio si è ascoltata musica per la musica, in questo caso invece udiamo tutt’altro: una vera e propria intenzione di creare immagini e di suscitare forti emozioni. Veramente una Russia in miniatura questa sinfonia, dai toni eroici, mitici, lirici e sentimentali, in cui, come è tipico nella musica del compositore russo, si passa da alti a bassi, da vistosi crescendi a soffici diminuendi, in cui non viene dimenticato il protagonismo di ciascuno strumento della gamma orchestrale, un protagonismo tramite cui si giunge a coloriture timbriche e a globali cromatismi. Tutto questo reso ancora bene dall’Orchestra diretta da James Judd, capace di far dialogare in modo chiaro gli strumenti tra loro.
Una bella serata di musica insomma, in cui non ho trovato sbavature, a parte la mia tosse che, purtroppo, non mi ha lasciato per tutto il concerto e a parte il problema neve, che ha portato l’evento da sabato a domenica. Una neve che forse avrà fatto sentire Kissin più a casa sua. Già, Kissin, è a lui che do lo scettro della serata: al “pittore della tastiera”.

Stefano Duranti Poccetti

06 febbraio, 2012

Il “Faust” di Sokurov. Un Mefistofele da Commedia dell’Arte



Un’atmosfera cupa, in cui si respira un clima di mestizia e povertà e in cui pare che, veramente, i Cavalieri dell’Apocalisse siano scesi sulla terra per portare le loro sciagure. In questi ambienti si aggira il professor Heinrich Faust (Johannes Zeiler), dotto in fisiologia, filosofia e astronomia, che, a seguito della conoscenza del Diavolo Mefistofele (Anton Adasinsky) - a dire il vero nel film non si chiama così, ma Mauritius -, diverrà un assassino, uccidendo, anche se involontariamente, Valentino (Florian Brückner), il fratello di Gretchen, o Margherita (Isolda Dychauk), la ragazza di cui si è innamorato, la quale sarà sedotta dallo stesso Faust a seguito del contratto firmato da quest’ultimo a Mefistofele. Solo alla fine Faust riuscirà a ribellarsi, quando, dopo essere stato eletto “imperatore fantoccio”, in occasione della “Notte classica di Valpurga” (per la verità da Sokurov ridotta solamente all’incontro tra Faust e l’anima di Valentino, trascurando invece l’aspetto più magico di questa notte, senza prendere in considerazione streghe e personaggi mitologici) abbandona Belzebù dopo averlo sepolto di sassi andando verso una voce angelica che lo chiama.
Come nel film è scritto testualmente prima del suo inizio, Il “Faust” di Sokurov è tratto dal soggetto caposaldo della letteratura tedesca e mondiale di Goethe – soffermandosi in particolare sull’innamoramento tra Faust e Margherita, estrapolandola in modo opinabile da un contesto molto più ampio. Adesso, ci vorrebbe un vero e proprio trattato per fare un parallelo tra il film e l’opera letteraria e non mi sembra adeguato in questo ambito di recensione.
È chiaro che si tratta di una “opera filmica di citazione”: le citazioni sono innumerevoli e non si limitano a quelle dalla omonima opera goethiana. Di Goethe ci sono riferimenti anche ad altri scritti, come per esempio alla ballata “Heideröslein” (Rosellina della landa), citata proprio da Mefistofele all’inizio, come metafora di prendere una donna con la forza, nonostante questa cerchi di pungerti – il riferimento è a Margherita. Tra le tante un’altra citazione è quella dal “Don Chisciotte” di Cervantes, perché, alla fine, Dopo che Faust è riuscito a sedurre e possedere Margherita e che la madre della fanciulla (Antje Lewald) è stata uccisa dal Diavolo, i due protagonisti se ne vanno in giro vestiti con armature da teatro, sopra bellissimi cavalli arabi, e sembrano proprio un Sancho Panza e un Don Chisciotte, uomini illusi di essere cavalieri – in questo caso addirittura imperatori. Tante anche le citazioni pittoriche di stampo fiammingo, grazie alle quali molte scene sono costruite.
La grande differenza tra film e libro è che il film è la caricatura del libro, dove si manifestava la vera potenza di Mefistofele (quella potenza che poteva VERAMENTE dare un impero a Faust), mentre nel film il Diavolo manifesta la sua impotenza, in tutti i sensi. Il Mefistofele di Sokurov è un mostro ridicolo, con un corpo mostruoso senza fallo, e preso in giro di conseguenza dalle donne; è poi un buffone, un pervertito che è costretto a cercare di possedere le statue sacre non potendo possedere le donne; è un malato, un usuraio, un inetto che quasi non sa parlare e che non sa neanche scrivere il contratto per Faust (è un Diavolo tra gli uomini). Mefistofele è una creatura a cui nessuno crede, che tutti prendono a calci: il Mefistofele di Sokurov NON È CREDIBILE; non è Mefistofele, è la sua maschera: una maschera da commedia dell’Arte! Mentre quello di Goethe era deciso, attraente, intelligente e, perché no, delle volte anche disponibile a fermarsi a riflettere sul mondo degli uomini, quello del film, che ha vinto il Leone d’oro a Venezia, è tutto l’opposto. Il Diavolo per Sokurov è malato, il male è malato, ed è qui, credo, che il film fallisce, dove non viene attribuita la dignità che si deve al Diavolo, dove non viene attribuita la dignità che si deve al Male, un Male, questo sembra chiaro in Goethe, senza la quale il Bene non può esistere.
Meglio la figura di Faust, coi suoi eterni contrasti interiori tra anima/corpo, vita/morte, che, “per meritarsi” il Diavolo, dà in pegno la sua pietra filosofale. In Goethe comunque si trattava di un Faust molto più deciso a volere incontrare Mefistofele e lo invocava con libri di magia e con tutte le sue forze. La figura di Wagner (Georg Friedrich) è stata resa da Sokurov come un frustato alla ricerca della gloria, ed è per questo che crea “Homunculus”, personaggio qui appena citato, in Goethe fondamentale.
Nonostante questo rendo merito a tutti gli attori, che hanno veramente interpretato i personaggi richiesti al meglio e ritengo interessantissimi anche i tecnicismi registici oramai consoni a Sokurov (lunghe inquadrature estatiche su primissimi piani; inquadrature oblique; gioco di luci diverso per ogni scena, a valore simbolico e significante). Bisogna considerare che questa pellicola è stata girata con un budget piuttosto basso, ed è un merito quello di essere riusciti a sintetizzare le vicende di Faust, Mefistofele e Margherita in pochi ambienti (molti esterni).
Costante del film è la presenza di animali selvatici, perché il Diavolo è associato all’istinto animale. Un Diavolo che di certo in questo film ha perso illegittimamente la propria dignità. Il bell’ angelo ribelle caduto dal cielo è stato reso con più efficacia da altri film (ultimamente “Parnassus”, per fare un esempio) e il mio istinto di citare anche lo splendido personaggio della Morte del “Settimo Sigillo” di Bergman è forte, anche se si rischia di andare un po’ fuori discorso – in questo caso dovremmo chiederci se la Morte e il Diavolo sono la stessa cosa.
In ogni caso un film che vale la pena di essere visto (molto valido sotto il profilo tecnico), anche se la sceneggiatura non convince e anche se la figura di Mefistofele, ribadisco, non è di mio gusto. Ricordo ancora con amore il “Faust” di Murnau e, guardando questo nuovo film, non nascondo che mi è un po’ mancato.




Regia: Aleksander Sokurov
Sceneggiatura: Aleksander Sokurov
Con: Hanna Schygulla, Antoine Monot Jr., Georg Friedrich, Maxim Mehmet, Isolda Dychauk, Joel Kirby, Eva-Maria Kurz, Florian Brückner, Johannes Zeiler
Fotografia: Bruno Delbonnel
Musiche: Alexander Zlamal
Produzione: Proline Film
Distribuzione: Archibald Film
Paese: Russia 2011
Genere: Drammatico
Durata: 134 Min

Stefano Duranti Poccetti