Che vi piaccia o meno, come chitarrista (nel mio caso) o
come strumentista qualsiasi, siete in realtà un cantante. Prima un musicista
accetta questo fatto, prima so che miglioreranno esponenzialmente le capacità musicali di quel musicista.
In un contesto d’improvvisazione o di composizione,
essenzialmente si traduce ciò che l’orecchio sente con le dita. Quando un
musicista si esercita su delle scale o su pattern di scale su alcuni accordi o
passaggi armonici, in teoria non fa altro che abituare le dita ad eseguire la
componente fisica necessaria per costruire il linguaggio della musica. Ma in
realtà non è tutto. Intenzionalmente o meno, il cervello sta anche
“registrando” la musica o il componente musicale di quell’esercizio. Quando il
musicista interiorizza o metabolizza una frase o un passaggio, gli capiterà poi di riuscire a sentirla prima ancora di eseguirla e quindi potrà anticipare
cosa vorrà sentire.
Se si aggiunge l’elemento vocale all’esercizio tecnico sullo
strumento, si imprimeranno più velocemente nel cervello le frasi/tecniche
relative allo studio e si automatizzerà più consapevolmente il nuovo
vocabolario che verrà eseguito istintivamente poi durante la performance.
Inoltre, conoscerete meglio il manico (nel caso della chitarra) e visualizzerete
meglio le distanze tra le note e i rapporti tra i suoni (in pratica gli
intervalli).
Questo non ha nulla a che vedere con il “vocal training” di
chi aspira ad essere cantante (che può tuttavia essere anch’esso utilissimo).
Il concetto qui è di creare un legame ancora più forte tra il vostro cervello
(orecchio) e le vostre dita, in modo da essere completamente padroni delle
vostre scelte melodiche, il che vi renderà migliori compositori o
improvvisatori (nei dovuti tempi ovviamente).
Più sarete in controllo delle vostre scelte melodiche, più sarete poi liberi di concentrarvi sull’utilizzo del tempo o l’aspetto ritmico
della musica (spesso un’area sottovalutata dove invece, a mio parere, si
distinguono i grandi di qualsiasi genere). Di conseguenza i benefici sono
multipli ed interconnessi.
Un buon posto per cominciare sono intervalli di due note.
Scegliete una nota qualsiasi, determinate la tonalità, poi suonate quella nota
e la terza della scala maggiore (si presuppone sappiate formare una scala
maggiore - in caso contrario e se vostro interesse approfondire, contattatemi
pure -). Suonate le due note e poi cantatele, ripetutamente. Poi ripetete
l’esercizio con tutte le note della scala, cominciando con quinta e settima, poi
seconda, quarta e sesta. Prestate particolare attenzione alla terza e settima,
spesso note che riassumono l’accordo sottostante. Passate poi a triadi
(sequenze di tre note alla volta), scale intere e poi accordi interi.
Assicuratevi che ciò che suonate sia in accordo con ciò che cantate. Se non
siete sicuri, registratevi e riascoltate e, se ancora in dubbio, chiedete pure a
qualche familiare o persona di fiducia.
Non dimenticatevi di aggiungere “feeling” al vostro canto, e
di conseguenza anche sullo strumento, replicando ogni sfumatura che potete
immaginare. Un esempio classico è quello del vibrato sugli strumenti a corda.
Anche se non siete appassionati di jazz, un esempio massimo
del concetto sovraesposto lo offre il chitarrista George Benson che spesso
improvvisa e canta contemporaneamente le linee melodiche esposte sullo
strumento, in tempo reale. Ascoltate il brano “At the Mambo Inn” (iniziando al
minuto 4:02), tratto dall’album Tenderly.
Dario Napoli
Sull’autore dell'articolo:
Dario Napoli è un chitarrista professionista, produttore,
compositore e insegnante. Il suo ultimo progetto è DIENNE MANOUCHE e ha
pubblicato un album intitolato GYPSY BOP distribuito anche su itunes e Cdbaby
(http://www.cdbaby.com/cd/diennemanouche). Dario insegna privatamente e al
Laboratorio Musicale Varcobianco di Castiglion del Lago (www.varcobianco.it)
"The Artist" è stato il film più premiato della Notte degli Oscar: vince come miglior film, la migliore regia di Michel
Hazanavicius, il migliore attore, con il protagonista con Jean Dujardin (primo francese a conquistare tale riconoscimento), la
migliore colonna sonora e i migliori costumi.
Il nostro critico di Cinema Antonio Castaldo aveva scritto tempo fa una recensione del film, che mi permetto di riproporre, come già avevo fatto per "Cesare deve Morire", vincitore a Berlino.
"The Artist": la crisi ci fa sognare
In un momento in cui il cinema contemporaneo sembra aver
trovato nella tridimensionalità posticcia l’unica via di scampo per uscire
dalla crisi, non solo economica, ma soprattutto di idee e di linguaggio, ecco
arrivare in Italia The Artist, del regista francese Michel Hazanavicius. Un
film muto, proprio come se ne facevano una volta, rigorosamente in bianco e
nero, con inquadrature e tecnicismi dettagliatamente da cinema anni ‘20. È
stato adottato persino il formato dell’epoca, l’originario 1:1,33. Qualcuno
potrebbe pensare, cosa ci fa nel 2012 un film muto, prodotto in Francia nelle
sale italiane? Per capirlo basta dare un’occhiata alla pagina che Wikipedia
dedica al film: praticamente è per metà occupata dalla trama e da altre
comunicazioni di rito, mentre l’altra metà rende conto dei numerosissimi premi.
Si parte dal premio decisamente meritato per la migliore interpretazione
maschile a Jean Dujardin all’ultimo Festival di Cannes, per finire ad una serie
interminabile di riconoscimenti e nomination nei tanti, diversi e oramai
variegati festival in giro per il mondo. Cosa succede? I critici di tutto il
mondo soffrono di nostalgia? Ricordano con candore quando infanti venivano
accompagnati al cinema dalle casalinghe madri divoratrici di fotoromanzi? O
forse come succede spesso quando ci sono grossi cambiamenti in atto ricorriamo
alle origini? Sinceramente non lo so, ne tanto meno vorrei azzardare una tesi
al riguardo. Se però, ricercando nelle classifiche dei film premiati nei
maggiori festival d’Europa degli ultimi anni, mi accorgo che tanti film sono in
bianco e in nero, come Il Nastro Bianco 2009 di Michael Haneke,o film quasi senza dialoghi, come Baldel regista turco Semih Kaplanoglu, premiato
con l’Orso d’oro a Berlino nel 2010, allora mi viene da pensare che The
Artistnon è solo un film muto in bianco
e nero francese,The Artist non è una scommessa del regista o del produttore
folle che investe soldi di tasca sua per realizzarlo. The Artist arriva da un
percorso che si sta consolidando da un po’ di tempo nel cinema d’autore. Autori
raffinati che considerano il cinema muto la forma più pura per una narrazione,
in quanto un film fatto di sole immagini, oltre ad essere più difficile da
realizzare, richiede davvero grande intelligenza e conoscenza, ma soprattutto
grande sensibilità visiva. Quante infinite possibilità ci sono per realizzare
una scena muta? Si devono inventare le atmosfere, bisogna avere grande cura dei
dettagli, si deve ricorrere alla gestualità, alla fisicità degli attori. E l’ espressione
del viso? Quanto può essere forte un sorriso, un pianto, una carezza o uno
sguardo? Ecco, per chi fa questo mestiere e crede nella potenza visiva
dell’immagine fare un film senza le parole che spiegano tutto è il massimo.
Voler raggiungere il cuore degli spettatori senza che nessuno apra bocca
significa comunicare universalmente senza dover tradurre ogni gesto, ogni
situazione o atteggiamento. E poi chi vede un film di sole immagini deve
inventarsi i dialoghi e quindi è costretto a fare uso della propria
immaginazione, deve pensare, deve partecipare alla creazione. Ecco, The Artist
non solo ci parla, The Artist ci fa sognare e, come dicevo all’inizio, nei
momenti di crisi più intensi l’uomo ha sempre avuto bisogno dei sogni!
Comincia così la nuova rubrica di cinema curata da Francesco Vignaroli "VIAGGIO ATTRAVERSO L'IMPOSSIBILE - sogni di cinema", con la recensione del film "I sette Samurai" di Akira Kurosawa ...
I SETTE SAMURAI (shichinin no samurai) GIAPPONE, 1954, 192' B/N
REGIA: AKIRA KUROSAWA
INTERPRETI: TAKASHI SHIMURA,TOSHIRO MIFUNE, MINORU CHIAKI, DAISUKE KATO, KO KIMURA
EDIZIONE DVD : Sì, distribuito da MONDO HOME ENTERTAINMENT
Giappone del '500, epoca Sengoku: il paese è nel caos, stravolto dalle guerre civili tra i vari clan per la conquista del potere politico vacante. In un contesto simile, le campagne sono oggetto dei continui assalti perpetrati da sbandati e delinquenti di ogni sorta. Stanchi di questa situazione, i contadini di uno sperduto villaggio montano decidono di assoldare dei ronin-samurai senza padrone-per scacciare i banditi e salvare il raccolto. La ricerca si rivela inizialmente difficoltosa dato che, o per orgoglio vista la modestia dell'impresa che li attende, o per via della misera ricompensa proposta (solo vitto e alloggio), i vari samurai contattati declinano l'invito e non sempre con gentilezza. Il primo a rispondere all'appello è il veterano Kambei, cui spetterà il compito di scegliere gli altri compagni d'avventura, sei in tutto, tra cui il contadino Kikuchiyo (Mifune), desideroso di conquistarsi sul campo il titolo di samurai. Superate le reciproche diffidenze iniziali, contadini e guerrieri riusciranno a solidarizzare e a respingere l'assalto dei predoni, al termine di una durissima battaglia lunga tre giorni e tre notti.
Uno dei film più importanti dell'intera storia del cinema e forse il punto più alto della carriera di Kurosawa che, dopo il pluripremiato "RASHOMON"-Leone d'oro a Venezia 1951 e Oscar come miglior film straniero-impone definitivamente se stesso e il cinema giapponese all'attenzione del resto del mondo (non a caso Hollywood ne girerà un celebre - ancorché decisamente inferiore - remake in chiave western, "I MAGNIFICI SETTE",regia di John Sturges); a tutt'oggi, rimane il film giapponese che ha riscosso maggior successo all'estero...
Definire "I SETTE SAMURAI" un film d'avventura sarebbe davvero riduttivo,vista l'incredibile ricchezza e varietà di stili narrativi, tematiche sociali e riflessioni sull'uomo che fanno da contrappunto ideale ad una narrazione fluida e comprensibile.
C'è ovviamente l'azione, caratterizzata da un respiro epico ed eroico, splendidamente filmata e coreografata in ogni sequenza di un film esteticamente perfetto dal primo all'ultimo minuto(innumerevoli le scene da antologia,su tutte il lunghissimo assedio finale al villaggio, che dura 45', un vero e proprio esempio da manuale di cinema d'azione; menzione particolare anche per il duello con i bambù tra Kyuzo e un altro samurai); ci sono però anche i contenuti, che il regista è riuscito ad inserire felicemente nel generale clima battagliero del film; durante i non rari momenti di pausa dall'azione, Kurosawa approfitta per approfondire le psicologie dei personaggi , arricchendoli di sfumature che conferiscono loro spessore e umanità, attraverso la narrazione di significative microstorie (la folgorante presentazione di Kambei, il quale non esita a sacrificare la propria capigliatura-gesto inaudito per un samurai- pur di salvare un bambino dal suo rapitore; la scoperta dell'amore da parte di Katsushiro nel bosco fiorito; il passato di Kikuchiyo che, pur di spacciarsi per samurai, non esita ad esibire dei titoli fasulli; la generosità e l'umanità dell'apparentemente glaciale Kyuzo...). Non mancano inoltre spunti umoristici e picareschi,soprattutto grazie al fondamentale personaggio del contadino- samurai interpretato dall'istrionico e bravissimo Toshiro Mifune e ad alcuni personaggi di contorno( il pavidoYohei su tutti).
Il cuore del film è costituito dall' analisi del rapporto (un incontro/scontro) tra due classi sociali e quindi due culture-quella dei contadini e quella dei samurai- apparentemente inconciliabili tra loro e separate da rancori atavici. Se la prima ci viene mostrata attraverso una prospettiva collettiva, la seconda è affrontata in maniera molto più approfondita, dato che ciascuno dei 7 simboleggia un particolare aspetto dell'etica dei samurai ma più che altro dell'etica nipponica tout court:Kambei rappresenta la saggezza e la maturità disincantata, Katsushiro la giovinezza e l'igenuità,Kyuzo l'ascetismo,Heihachi l'ottimismo e l'allegria, Gorobei la gentilezza e il buon senso, Shichiroji la fedeltà e l'abnegazione... fino ad arrivare a Kikuchiyo,figura centrale della storia, colui il quale, grazie alla propria trascinante esuberanza e al suo essere un "contadino dal cuore di samurai", riuscirà a far da tramite tra i poveri contadini e i valorosi guerrieri compiendo il miracolo dell'unione. È facile leggere tra le righe di questo tema centrale del film tutta una serie di convinzioni e valori tipici dell'umanesimo commosso e partecipe del regista. In primis, un appello accorato e toccante alla solidarietà tra gli uomini, unico argine di fronte alle avversità della vita; questa unione tra due categorie di individui tanto differenti tra loro potrà compiersi però solo in virtù di uno sforzo reciproco di tolleranza e comprensione. In una delle scene più emozionanti e significative del film, Kikuchiyo invita i sei a recitare un salutare mea culpa nei confronti dei contadini, la classe sociale tradizionalmente oppressa da tutti, samurai compresi. La predica sortisce l'effetto desiderato: i samurai hanno ormai definitivamente preso atto che anche i miseri hanno le proprie ragioni e meritano rispetto-convinzione che Kurosawa veicola nei molti suoi film in cui si occupa degli "ultimi" - e decidono liberamente di rischiare la pelle per una giusta causa,senz'altra ricompensa in cambio che il seguire le proprie idee in piena libertà; dal canto loro,e qui veniamo ad un altro dei messaggi fondamentali del film ,i contadini mutueranno da Kambei e compagni un atteggiamento nuovo nei confronti della vita, non più passivo e rassegnato,bensì caparbio e coraggioso. La rassegnazione è, per Kurosawa, uno dei grandi mali dell'uomo, condizione esistenziale paralizzante che rende la vita insostenibile.
Altro tema di discussione sollevato dal film è l'interessante opera di smitizzazione della figura del guerriero, spogliato di ogni attributo superomistico e mostrato come uomo in tutte le sue debolezze (anche i samurai hanno fame, freddo, paura, rabbia). Questa restituzione di una dimensione umana al samurai,se da un lato ne stempera l'aura eroica,dall'altro finisce per nobilitarlo come uomo. C'è quasi un processo di revisione del codice cavalleresco -il bushido-dei samurai, che rimanda metaforicamente ad una più ampia rimessa in discussione della rigida e sclerotizzata morale giapponese: i samurai di questo film violano in continuazione precetti comportamentali ritenuti insindacabili, a partire dalla già citata rasatura di Kambei, quando si accorgono che tali precetti confliggono con ideali ben più importanti, che sono quelli della giustizia,della pietà e della solidarietà verso il prossimo. E'in nome di questa "illuminazione" che permettono pure ai contadini di utilizzare armi sottratte a samurai precedentemente uccisi, cosa che solitamente dovrebbe risultare sacrilega agli occhi di un guerriero; è sempre per lo stesso motivo che, nonostante venga proposta loro una missione non retribuita e per giunta degradante da un punto di vista professionale, i 7-o meglio, i 6+1, come indicato nello spiritoso striscione dipinto da Heihachi-decidono di mettere in gioco le proprie vite.Tutto ciò inoltre, pur nella piena consapevolezza della loro transitorietà e impotenza di fondo nei confronti della realtà e dell'inesorabile scorrere del tempo. È, questa, un'altra riflessione esistenziale che Kurosawa esprime più volte nel corso del film per bocca dell'affascinante figura del saggio e ormai disilluso Kambei (che sia l'alter-ego del regista?), interpretato dal grande Takashi Shimura : all'inizio, quando per cercare di dissuadere il giovane Katsushiro a diventare suo discepolo afferma "HO FATTO ESPERIENZA COMBATTENDO IN TANTE BATTAGLIE,PERDENDOLE TUTTE"; più avanti, sempre rivolto a Katsushiro, quando gli offre una laconica sintesi della sua vita da guerriero: "DA GIOVANE,CERCHI DI MIGLIORARTI IN BATTAGLIA PER DIVENTARE UN GIORNO IL SIGNORE DI UN CASTELLO . INTANTO,IL TEMPO PASSA,I CAPELLI DIVENTANO BIANCHI,I FAMILIARI SONO MORTI E GLI AMICI SCOMPARSI..."sembra quasi di sentir parlare il tenente Drogo ne "Il deserto dei tartari"; nello splendido finale del film, quando, rivolto ai due compagni superstiti,riflette :"ANCHE STAVOLTA NOI SAMURAI ABBIAMO PERSO. I VERI VINCITORI SONO I CONTADINI". Non c'è qui rammarico per l'ingratitudine dei loro protetti -che, mentre i samurai commemorano silenziosamente in disparte i tumuli dei compagni caduti, festeggiano con canti e danze la vittoria lavorando nei campi-ma solo un'amara constatazione della caducità e provvisorietà della vita, acquisizioni tipiche dell'uomo maturo. Cionostante,l'aver agito secondo coscienza ha probabilmente fatto sentire Kambei e gli altri , profondamente vivi. Ne vale sempre la pena, insomma, sembra volerci rassicurare Kurosawa. Il senso del limite non può né deve impedirci di vivere il tempo che abbiamo a disposizione, con la massima intensità possibile. È quindi l'utopia il vero motore di questo film, malgrado questa chiusura malinconica e un po' pessimista, stemperata solo dal fatto che, in fondo, uno dei tre sopravvissuti è proprio Katsushiro,ovvero colui che rappresenta il futuro. Un film profondamente umano dunque, un film sull'uomo e per l'uomo da un grande umanista che regala ai suoi simili un caleidoscopico poema d'azione e sentimenti,semplice, profondo, emozionante, come avviene solo nei capolavori.
Da vedere assolutamente nella versione integrale di 3 ore e 12 minuti e in giapponese sottotitolato(pessimo il ri-doppiaggio italiano realizzato appositamente per l'edizione digitale), se si vuole apprezzare davvero fino in fondo la grandezza del film. L' edizione approntata all'epoca per l'estero -riproposta peraltro tra i contenuti bonus dell'edizione speciale a 2 dischi del film, unitamente ad un interessante documentario con interviste a Kurosawa e collaboratori - dura soltanto un paio d'ore ; un vero e proprio scempio del film, che in questa veste perde tantissimo sia a livello estetico che tematico, provare per credere!
Quest’anno
la Berlinale tra tutte le sezioni in concorso ha presentato la cifra record di
quattrocento titoli. Suddividendoli per i giorni effettivi delle proiezioni,
sono stati mostrati al pubblico quaranta film al giorno. Una cifra impossibile
per chi non avrebbe voluto perdersi nemmeno un cortometraggio. Di solito
critici, giornalisti, cineasti o semplici appassionati pianificano la giornata,
sanno che non potranno vedere più di quattro o cinque film in 24 ore e quindi
cercano di organizzarsi in modo da non perdersi in film inutili, anche se a
volte vedere un buon lavoro è solo questione di fortuna. Tra i tanti film visti
quest’anno a Berlino ce n’era uno veramente interessante, un vero capolavoro e
chi lo ha visto è stato veramente fortunato. Un film piccolissimo per
consistenza, budget e attori ma veramente ben fatto. Un lavoro presentato in
una delle sezioni minori del festival e quindi assolutamente passato
inosservato ai grandi media, anche se poi ha vinto due premi, seppur minori, ma
molto considerati a livello internazionale. Una pellicola direttada un autore uruguaiano, che nel 2007 presentò
al Festival di Venezia La zona,
distribuito nei pochi cinema d’essai rimasti ancora nella provincia italiana.
Il
regista in questione è Rodrigo Pla e il film, su sceneggiatura scritta dalla
moglie, si chiama La Demora.
La Demora è un dramma struggente.
Augustin è un uomo anziano affetto da demenza senile. Sua figlia Maria, senza
marito e tre figli piccoli da mandare a scuola, dorme pochissimo, lavora troppo
e veglia attentamente su tutta la famiglia. La donna, sopraffatta da questa
situazione, decide di mandare suo padre in un centro di assistenza per anziani,
ma quando comincia la pratica per avere il servizio gratuito previsto per i
poveri, scopre che è troppo benestante. A quel punto a Maria viene un’ idea:
approfittando della demenza del padre, decide di abbandonarlo e poi di chiamare
la polizia, in modo che nel trovarlo gli agenti lo accompagnino in un centro
per anziani. Ma qualcosa non va come deve andare e il titolo del film prende
spunto da questo inconveniente, infatti La Demora in italiano si traduce Il ritardo. L’anziano in effetti è
convinto che la figlia sia in ritardo, e quando la polizia arriva tentando di
convincerlo a salire in macchina, lui si oppone con tutte le sue forze,
dicendogli che sta aspettando qualcuno che dovrà arrivare. Il dramma gioca
tutto su un doppio filo: da una parte c’è un vecchio malato che rimanendo fuori
la notte rischia di morire di ipotermia, e dall’altra parte c’è la figlia che
sotto le domande insistenti dei bambini si sente terribilmente in colpa.
L’intreccio ha una struttura classica scandita da tre precisi momenti. La prima
scena è emblematica per presentarci i personaggi e per introdurci nel rapporto
tra padre e figlia: c’è una donna che con tanta pazienza aiuta un anziano nudo
a lavarsi sotto la doccia e lo stesso se ne vergogna. La parte centrale,
invece, è rappresentata dalla scena nella quale la figlia decide di abbandonare
il padre. È qui che il regista mostra tutta la sua bravura, non solo nel
girare, ma anche di saper scegliere gli attori. Perché l’attrice che interpreta
Maria (Roxana Blanco) è davvero brava, è una donna dal viso segnato dalla
sofferenza e il personaggio che interpreta gli è cucito addosso. Bastano pochi
secondi di inquadratura sul suo sguardo e il pubblico riesce a capire la triste
decisione che sta per prendere. Ecco, tutta la forza di questo piccolo capolavoro
è tutta in questa scena. È qui che viene fuori la forza della settima arte, è
qui che il cinema si stacca dal teatro, dalla letteratura e da tutte le altre
forme artistiche e diventa solo cinema nella sua essenza. Ed infine c’è il
finale, un finale denso ed emozionante, ma che non voglio descrivere in questo
articolo perché, se qualche distributore con un po’ di amore per il cinema
l’abbia comprato o lo vuole comprare, farà la fortuna di un qualsiasi cinema
d’essai rimasto ancora nella provincia italiana.
Un mondo parallelo, una serie di
personaggi senza tempo che lo abitano, la musica che li accompagna in tutto il
loro viaggio, la guerra che distrugge, la speranza che cerca di combattere contro
la finzione della comprensibilità. Tutto questo in uno spazio indefinito - in
Danimarca e altri paesi dell’Europa - in cui gli attori dell’Odin Teatret si
muovono in modo naturale e spontaneo, anche se di certo non simile alla realtà.
Di verosimile, infatti, c’è ben poco, se non le emozioni che gli attori
riescono ad esprimere, nonostante la mescolanza di lingue (rumeno, danese,
cileno, italiano e inglese) non permetta di comprendere fino in fondo tutti i
dialoghi. La storia è quella dei primi mesi dopo una guerra civile, attorno al
2031. Un’epoca futura, di cui quindi non possiamo già conoscere le fattezze. “Molte
voci, giorno e notte, con molti mezzi, pretendono di spiegarci i differenti
perché della storia che assedia le nostre vite e minaccia di trascinarle nel
caos.” Scrive Barba dimostrando l’inclinazione caotica dello spettacolo.
Un’esplosione di sensi, di allusioni, un bombardamento di figure che non
possono essere vicine alla nostra esperienza, ma che inevitabilmente ci
toccano, come se andassero a ripescare emozioni cui non possiamo dare neanche
un nome. La prima reazione a seguito dello spettacolo è, infatti, di mutismo:
non ci sono parole per descrivere ciò che ci è stato raccontato. Facile
affermare che gli attori, con il corpo, la voce e il canto si sono dimostrati
ottimi performer, ma non è facile capire perché la biografia di quelle persone
sofferenti e tormentate ha innescato una viva partecipazione in noi. Forse
quello che capisce uno spettatore è tutt’altro di quello che, invece, interpreta
un altro, ma non c’è risposta giusta e sbagliata agli interrogativi che i
protagonisti di “La vita cronica” si pongono. Una rifugiata cecena che piange
il marito morto, una madonna nera vestita di strani drappi che delirante taglia
l’aria con una spada, una casalinga rumena intenta a mangiare e pulire in
continuazione che prova più volte a suicidarsi, un avvocato danese, un vecchio
rocker delle isole Faroe, un ragazzo sudamericano che cerca suo padre
scomparso, la vedova di un combattente basco, una violinista di strada, due
mercenari. Questi sono i protagonisti dello spettacolo di Eugenio Barba.
Ferenc Liszt (più spesso conosciuto con il nome Franz
Liszt) è stato un grande pianista ungherese. Non solo un pianista, a dire
il vero, ma, soprattutto, un musicista a tutto tondo, compositore, direttore e teorizzatore. Nato nel 1811 e morto nel 1886, è stata una di
quelle rare personalità in eterna trasformazione, alla ricerca di un sé nuovo.
Un lato questo che, se da una parte gli vale lo scettro di uno dei più grandi
musicisti mai esistiti, dall’altro gli procura le ingiurie da quella parte
della critica musicale che vuole per forza collocare ciascuno nel suo posto,
nella sua scuola, nella sua casa, nel suo “partito”. Ma Liszt non ha avuto una
sola casa, non ha avuto una sola musica. Liszt è stato il musicista del mondo,
difficilmente collocabile geograficamente e artisticamente. Se a questo
si aggiunge anche la sua vena musicale astratta e trascendente le cose si fanno
ancora più complicate e incomprensibili a una mente insensibile alla sua
musica.
In occasione della fine del bicentenario della nascita
lisztiana, festeggiato nel 2011, ho avuto un dialogo con un grande Maestro, che
ha dedicato in larga parte la sua carriera di pianista a Ferenc Liszt. Si
tratta di Michele Campanella, una grande gloria del pianismo italiano, che a
Liszt ha dedicato anche un libro: “Il mio Liszt”, edito a Bompiani nel 2011.
Ringraziandola di prestarsi a questa intervista, le
vorrei chiedere, innanzi tutto: perché secondo lei Ferenc Liszt rimane spesso
un musicista incompreso o ritenuto "volgare"?
Michele Campanella
Perché nell'opera di Liszt convivono volgarità e nobiltà con
un grave rischio semantico: la nobiltà si legge facilmente in volgarità.
Evidentemente il pianista Liszt riusciva a rendere nobile ciò che la
maggioranza degli esecutori delle sue opere traduce in volgare. Secondo me
esiste questo problema intrinseco alla musica di Liszt che può
essere risolto dall'interpretazione. La volgarità è anche il risvolto
dell'eccesso di complicazione tecnica che in molti casi appesantisce il
pianismo lisztiano: ancora una volta va detto che le difficoltà di esso non
erano tali per il compositore: il suo modo di suonare tendeva al risultato
musicale superando di slancio ogni ostacolo digitale. Soltanto così si
spiega il sensazionale successo della sua presenza sui palcoscenici europei.
Chi era - è - per lei Liszt?
un grande personaggio, un uomo coraggioso, un gentiluomo, un
uomo di un'incredibile generosità e di altissima idealità. Dunque, anche fuori
dalle sue composizioni, un uomo da ammirare.
Si ricorda quando nacque in lei l'amore artistico per il
musicista ungherese? Perché lo apprezza così tanto?
Nacque quando avevo 14 anni e ascoltavo suonare musiche di
Liszt in classe dal Maestro Vincenzo Vitale, eseguite da Laura De Fusco e da
Riccardo Muti. Il mio primo pezzo fu Funerailles e poi subito
il Mephisto Valzer. L'ingenua sensazione era che quelle musiche
fossero così vicine al mio modo di essere da poterle pensare composte da
me: totale immedesimazione, evidentemente.
Come colloca Liszt nel panorama della storia musicale?
Ferenc Liszt al pianoforte
Ora ho una visione del Pantheon musicale molto più ampia e
colloco Liszt accanto ai grandi compositori, senza alcuna faziosità fanatica.
Osservo i suoi difetti, seleziono in cuor mio le cose splendide dalle cose meno
riuscite della sua produzione. Insomma, a parte la mia assoluta simpatia per
l'uomo, Liszt è UNO dei compositori che amo eseguire.
Una volta ho sentito dire a Richter una cosa
che mi ha lasciato un po' perplesso: vale a dire che non aveva un pianoforte
preferito e che per lui erano tutti uguali - aggiungendo che il Yamaha non è
male. Lei ha un pianoforte che preferisce?
Ho suonato nella mia vita, oltre allo Steinway di Amburgo e
di New York, Baldwin, Fazioli, Bechstein, Borgato, Kawai, Stuart, Pleyel,
Erard, Boesendorfer, Tallone, Estonia, Petrof, Gotrian-Steinweg. Non sono mai
completamente soddisfatto ed è ovvio se si pensa alle caratteristiche del
pianoforte. Ora suono in ogni occasione possibile lo Yamaha, perché è lo
strumento dove trovo la maggior gamma di colori attraverso una meccanica
formidabile. Oltretutto Yamaha progredisce, mentre Steinway regredisce.
Parlo da grande ascoltatore della musica colta e da
grande ammiratore di Liszt. Mi ricordo che quando ero quasi un ragazzino
ascoltai un cd con musiche di Liszt suonate da Vasary e ne rimasi veramente
colpito. Ho continuato poi con l'ascolto di altri grandi interpreti, come Lei e
Cziffra. Come ha scritto nel suo libro, Liszt, più che altri musicisti, ha
bisogno di un esecutore particolarmente capace e sensibile. Le posso chiedere a
riguardo chi secondo lei sono, o sono stati, i migliori pianisti interpreti della
musica di Liszt?
Non ho piacere di parlare di pianisti. Noto che, in
mezzo ad una massa di esecutori che non riescono a vedere il traguardo cui
giungere nella musica di Liszt, vi è un folto gruppo di grandi interpreti che
hanno dato un importante contributo, ad incominciare da Ferruccio Busoni.
Cziffra è stato un grande ispiratore della mia adolescenza, ma ascoltarlo
oggi è deludente. Quel poco che ha fatto S. Richter è straordinario. Il
lascito di W. Kempff è importantissimo. Arrau e Brendel hanno preso Liszt
sul serio, da musicisti intelligenti quali sono. Bolet è molto
interessante ma stupisce quando dice che l'ultimo Liszt non va suonato, perché
poco significativo. Il Mephisto Valzer del vecchio
Rubinstein, indimenticabile. E poi altri eccellenti pianisti che non hanno
trovato il tempo di indagare a fondo il personaggio e quindi, pur suonando
benissimo, non colgono la sua complessità.
Crede che il bicentenario del compositore appena
terminato sia servito - servirà - alla riscoperta di questo musicista? Si sente
soddisfatto di come il bicentenario lisztiano è stato festeggiato?
Liszt è stato festeggiatissimo dai pianisti, pochissimo dai
direttori d'orchestra, quasi ignorato dalle grandi istituzioni musicali
italiane.
Lei è ideatore delle "Maratone Lisztiane", che
cosa s'intende con questo termine?
Intendevo far ascoltare per la prima volta nella storia
mondiale tutta l'opera pianistica di Liszt. Arrivati alla terza maratona
l'Accademia di Santa Cecilia ha cambiato idea e ha cancellato le quattro
maratone che avrebbero dovuto concludere l'impresa. Preferisco non commentare
tale decisione.
Ringrazio il Maestro Michele Campanella per questa
preziosa intervista e lo lascio con la speranza che il genio di Liszt sarà
compreso con maggiore sensibilità nel futuro.
"Cesare deve morire" vince l'Orso d'Oro al Festival del Cinema di Berlino 2012! Un grande orgoglio per l'Italia. Il film è stato già recensito qualche giorno fa dal collega Antonio Castaldo, inviato a Berlino per seguire l'evento. Per l'occasione ripropongo a seguito l'articolo citato:
"Da quando ho conosciuto l’arte sta cella è diventata una prigione!”
Chiude così Cesare deve morire, il bellissimo film in lizza per conquistare l’Orso d’Oro, dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, applaudito da tutta la stampa internazionale alla presentazione di stamane. Una docufiction girata nel carcere di massima sicurezza di Rebibbia in cui un gruppo di detenuti mettono in scena il Giulio Cesare di Shakespeare.
Una esperienza così coinvolgente che, a detta degli stessi registi, alla loro età non credevano di poter vivere. In effetti per la prima volta si sono confrontati con degli attori che recitavano le battute con un dolore vero, un dolore sentito, che gli attori professionisti, anche quelli più bravi, non possono avere. E in effetti l’esperimento dei fratelli Taviani gira tutto intorno a questo meccanismo. "Entrano" ed "escono" da Shakespeare, dal suo Giulio Cesare, ricordandoci che le scenografie non sono ricostruite da uno scenografo, non sono finte, inventate o create, ma che siamo in un carcere e gli attori, anche se bravi, sono solo dei carcerati che dalle quinte del teatro della vita a volte non possono più uscire. Ecco perché la frase finale dell’attore-carcerato. Forse si è pentito e attraverso l’arte ha fatto i conti con le proprie colpe. Forse ha capito qual è il suo talento, ma non potrà mai sperimentarlo in libertà perché è un ergastolano.
Ma nel film c’è anche chi ce l’ha fatta, si tratta del bravissimo Salvatore Striano, richiamato in carcere dai fratelli Taviani per interpretare un intenso Bruto, il personaggio chiave dell’intera vicenda. L’attore napoletano adesso è un professionista, fa teatro, cinema e televisione, era stato in carcere per otto anni e solo grazie al suo talento è riuscito a ricostruirsi una vita.
Il film comincia e finisce con la stessa scena, ma l’intensità con la quale lo spettatore vive la seconda diventa inevitabilmente più emozionante. Nel mezzo c’è la storia di un classico teatrale preso, smembrato, decostruito e ricostruito, in nome di uno spettacolo, il cinema, che, pur essendo figlio del teatro, è una cosa diversa.
Il film è in bianco e nero, il colore è usato dai registi solo per scandire i tempi e per evocare in una fotografia una poetica di libertà, mentre i dialoghi sono recitati in dialetto di appartenenza di ogni attore.
Il progetto è stato realizzato grazie all’incontro dei Taviani con Fabio Cavalli, attore prestato nel film, ma di professione regista del teatro di Rebibbia, un teatro della città di Roma - non solo uno dei tanti luoghi di un carcere - dove è riuscito a portare ad oggi ventiduemila spettatori, molti dei quali studenti minorenni. Un fenomeno che potrebbe essere oggetto di studi per il teatro contemporaneo.
“Credo che la cosa più difficile per un
attore sia presentarsi un’altra volta sullo schermo con una interpretazione più nuova e sorprendente che quella
precedente” dichiara Meryl Streep mentre riceve l’Orso d’Oro alla carriera
del 62esimo Festival di Berlino.
Mettendo
in mostra un abito semplice ed elegante di colore nero e quella risata
inconfondibile che nella sua ultima interpretazione in “The Iron Lady” non vediamo
mai.
In
conferenza stampa l’ attrice, candidata al premio oscar come miglior interpretazione,
ha parlato del suo lavoro, delle sue idee politiche, del femminismo e, per
questo, anche della vera lady di ferro: “quello
che penso di Margaret Thatcher è lo
stesso di chi ha idee di sinistra moderata e vive a New York: lei era amica di
Ronald Reagan, che distrusse i sindacati e condusse una politica liberale, la
quale arricchì poche persone impoverendone tante altre”. E aggiunge: “Ma questo non vuol dire che non sono
apprezzati altri aspetti della sua politica, era una femminista e questo ha
aperto le porte del potere a molte donne. Poi non bisogna dimenticare che non
prendendo nessuna posizione sull’aborto ha praticamente riconosciuto il diritto
alle donne se portare avanti la maternità o interromperla”. Tornando al
film: “ Comunque quando interpreto un
personaggio, soprattutto quando interpreto qualcuno che sia realmente esistito,
io non lo giudico né in positivo né in negativo, ma cerco in tutti i modi di
trovare quello che ci accomuna, e quindi, nel caso della Thatcher, spero non
sia tanto... Molte persone pensano che deve essere difficile interpretare un
personaggio così grande: un altro accento, un altro modo di camminare; ma
recitare con persone in carne e ossa con cui si parla in ogni scena è facile.
Per fortuna non si ha a che fare con i robot animati o con una schermata blu su
cui verranno montati gli effetti speciali e con i quali non si ha nessuna
comunicazione.
In
sala grandi spazio alle risate quando un giornalista rumeno le chiede perché
non interpretare una giovane Thatcher, vedendola così fresca e rosea, e lei,
con grande charme e un grosso sorriso: “I
really love rumanians” e poi facendosi seria dice: “Mi piace incarnare sia sul palcoscenico sia su un film tutti i tipi di
donne, forti, deboli … donne insopportabili ma per lo più difficili. Quando
inizio a leggere un copione, ad un tratto, c’è qualcosa che mi attrae nel
progetto, tanto è vero che non riesco più a seguire la lettura e mi dico: devo
assolutamente realizzare il sogno dello scrittore, voglio che diventi realtà.
La vita degli attori è molto strana, andiamo
da un lavoro all’altro senza sapere qual è il prossimo, ma forse è anche la
cosa più affascinante del nostro mestiere. Conclude la conferenza: “A Berlino so che ci sono cinque musei d’arte
contemporanea, che ho intenzione di visitare con mio marito. E’ così bello
trascorrere un pomeriggio guardando opere d’arte mentre non sei sotto lo
sguardo di nessuno”.
“Diaz
- Don’t clean up this blood” nasce da una telefonata tra il regista Daniele
Vicari con il produttore della Fandango Domenico Procacci, all’indomani della
sentenza di primo grado del processo per i fatti della Diaz, quando alcuni
familiari delle vittime gridarono: “Vergogna! Vergogna!! Non verrò mai più in
questo paese”. Il paese in questione, purtroppo, è un paese riconosciuto da
tutti “democratico” e quello che è successo a Genova nel 2001 in occasione del
G8 è una triste pagina di storia contemporanea europea.
C’era
bisogno di fare un film? Non bastavano i processi, i fiumi di carta, la stampa,
le migliaia di documentazioni audio-visive girate sul posto e che si possono
trovare ovunque su internet? C’era proprio bisogno che qualcuno usasse il linguaggio
del cinema per raccontare questa storia? La risposta è sì. Il cinema è
spettacolo e quando lo spettacolo diventa denuncia, se fatto bene, riesce a
scuotere qualcosa dentro di noi, che altri linguaggi non possono. Con la
fiction si entra in empatia con i personaggi e si vive il racconto in maniera
diretta, in profondità. Ci si sente parte di esso, vittima o carnefice, a
seconda del punto di vista.
In
questo film lo spettatore è vittima di una inaudibile violenza. Dalla sala non
si può uscire con indifferenza, le immagini sono cruente, forti, il dolore
delle manganellate si sente e fa male. Alla Diaz e poi a Bolzaneto in quei
giorni sono venuti meno i fondamentali diritti della democrazia e le violenze
perpetrate dalla polizia italiana sono alla base della denuncia di cui il film
si fa portatore. Una docu-fiction che nasce dalla lettura degli atti
processuali, dalle interviste ai manifestanti e alla polizia. E dalla locandina
si capisce subito quello che viene denunciato, la frase è di Amnesty International:
“La più grave sospensione dei diritti
democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale” . Diaz -
don’t clean this up: èla storia
intrecciata diLuca (interpretato da
Elio Germano), Alma (Jennifer Ulrich), Marco (Davide Iacopini), Franci (Camilla
Semino), Nick (Fabrizio Rongione), Anselmo (Renato Scarpa), Etienne (Ralph
Amoussou),Cecile (Emilie De Preissac) e Max (Claudio Santamaria) e centinaia di
altre persone che incrociano i loro destini la notte del 21 luglio 2001. I
diversi livelli narrativi si intrecciano con diversi punti di vista e i
personaggi si muovono nei luoghi fondamentali della storia, inconsapevoli di
ciò che sta per capitare. La narrazione del film gira intorno ad un fatto
marginale accaduto qualche ora precedente all’irruzione: qualcuno lancia degli
oggetti, tra cui una bottiglia di vetro, su una pattuglia di ricognizione della
polizia davanti alla scuola Diaz, e questo scatena tutta una serie di eventi
che portano agli esiti estremi raccontati nei processi. L’intreccio, che è ben
raccontato, la semiotica, che ha una correlazione simbolica ben calibrata e il
cast di livello internazionale danno al film quel carattere europeo che
purtroppo da anni manca al cinema nostrano.
Un
sole di bronzo sullo sfondo, il suo nero riflesso sul palcoscenico, in cui è presente
una piccola scalinata. Medea (Pamela Villoresi) è sempre al centro con la sua
veste rossa passione, protagonista assoluta, che del sole ha la saggezza, della
sua ombra la rabbia tenebrosa del rancore, un rancore nato dal tradimento del
suo amato Giasone (David Sebasti), che a lei ha preferito la figlia del re di
Corinto Creonte (Renato Campese), intento a donare ai suoi figli – avuti da
Medea – un prospero futuro. Un futuro che per i piccoli non ci sarà, perché
uccisi dalle mani di Medea, dopo che la donna ha anche ucciso la principessa e
il padre Creonte.
Il
testo di Euripide mantiene in questa trasposizione teatrale la sua originaria
forma, e così, anche il modo recitativo degli attori, sembra richiamare quello
classico del teatro greco – dove i personaggi sembrano tutti rinchiusi nel loro
universo poetico, quasi impossibilitati nello scambio relazionale tra di loro.
È evidente che per questa messa in scena, per ovvi motivi, sono stati attuati
molti tagli sul testo del tragico greco (l’adattamento è di Michele Di Martino
e Maurizio Panici), rivisitando anche i costumi (dell’artista Michele
Ciacciofera), attualizzati e simbolici – Il rosso di Medea per esempio
simboleggia proprio la sua forza passionale. Il coro è reso soltanto da una
narratrice cantante (Evelina Meghnagi), nel ruolo di Prima Corifea, che ha
intonato con raffinatezza canti in lingua greca.
Pamela
Villoresi veramente ottima in questo ruolo, che lei stessa ha definito il più
faticoso della sua carriera teatrale. Deve passare sempre da alti a bassi e da
bassi a alti, per riuscire a rappresentare l’ambiguità di Medea, un vero e proprio
dualismo femminile: l’una razionalmente saggia, l’altra resa pazza dalla
passione, una passione che le permetterà di realizzare il suo cupo progetto
andando anche incontro al suo destino: uccidere i figli per punire il padre.
Una donna padrona del suo destino, che, quando Euripide, ai suoi tempi, presentò, non fu accolta con favore per i
concetti espressi totalmente diversi dalla società di quel tempo. Oggi per noi
è più semplice accettare un personaggio del genere, benché non resti sempre
semplice accettare la sua soluzione di vendetta.
Buonissima
anche l’interpretazione di David Sebasti, anche lui in un ruolo di un uomo
apparentemente sicuro di sé stesso, in realtà molto tormentato interiormente.
L’apparizione di Creonte è invece misera, ma non per questo va svalutato il
lavoro di Renato Campese, bravo nel ruolo.
Altri
personaggi che troviamo in scena sono la nutrice e il messaggero,
rispettivamente interpretati da Silvia Budri Da Maren e Andrea Bacci. La
nutrice non svolge un ruolo marginale e la troviamo spesso in scena a
relazionarsi con Medea e Giasone e si può dire che l’attrice sia stata artefice
di un’ottima interpretazione. Andrea Bacci appare solo una volta in scena, per
annunciare la morte della principessa e di Creonte e il suo monologo drammatico
è molto intenso ed emotivo. In scena anche il regista dello spettacolo Maurizio
Panici, nei panni di Egeo, l’unico che Medea sentirà veramente vicino ai suoi
tormenti. A proposito di Maurizio Panici, un complimenti alla regia, che fa di
questa rappresentazione un bello spettacolo, organicamente funzionante nelle
sue parti, impreziosito poi dalle musiche del compositore Luciano Vavolo.
"Da quando ho conosciuto l’arte sta cella è
diventata una prigione!”
Chiude
così Cesare deve morire, il
bellissimo film in lizza per conquistare l’Orso d’Oro, dei fratelli Paolo e
Vittorio Taviani, applaudito da tutta la stampa internazionale alla presentazione
di stamane. Una docufiction girata nel carcere di massima sicurezza di Rebibbia
in cui un gruppo di detenuti mettono in scena il Giulio Cesare di Shakespeare.
Una
esperienza così coinvolgente che, a detta degli stessi registi, alla loro età
non credevano di poter vivere. In effetti per la prima volta si sono
confrontati con degli attori che recitavano le battute con un dolore vero, un
dolore sentito, che gli attori professionisti, anche quelli più bravi, non
possono avere. E in effetti l’esperimento dei fratelli Taviani gira tutto
intorno a questo meccanismo. "Entrano" ed "escono" da Shakespeare, dal suo Giulio
Cesare, ricordandoci che le scenografie non sono ricostruite da uno scenografo,
non sono finte, inventate o create, ma che siamo in un carcere e gli attori,
anche se bravi, sono solo dei carcerati che dalle quinte del teatro della vita
a volte non possono più uscire. Ecco perché la frase finale
dell’attore-carcerato. Forse si è pentito e attraverso l’arte ha fatto i conti
con le proprie colpe. Forse ha capito qual è il suo talento, ma non potrà mai
sperimentarlo in libertà perché è un ergastolano.
Ma
nel film c’è anche chi ce l’ha fatta, si tratta del bravissimo Salvatore
Striano, richiamato in carcere dai fratelli Taviani per interpretare un intenso
Bruto, il personaggio chiave dell’intera vicenda. L’attore napoletano adesso è
un professionista, fa teatro, cinema e
televisione, era stato in carcere per otto anni e solo grazie al suo talento è
riuscito a ricostruirsi una vita.
Il
film comincia e finisce con la stessa scena, ma l’intensità con la quale lo
spettatore vive la seconda diventa inevitabilmente più emozionante. Nel mezzo
c’è la storia di un classico teatrale preso, smembrato, decostruito e ricostruito,
in nome di uno spettacolo, il cinema, che, pur essendo figlio del teatro, è una
cosa diversa.
Il film è in bianco e nero, il colore è usato dai registi solo
per scandire i tempi e per evocare in una fotografia una poetica di libertà,
mentre i dialoghi sono recitati in dialetto di appartenenza di ogni attore.
Il
progetto è stato realizzato grazie all’incontro dei Taviani con Fabio Cavalli,
attore prestato nel film, ma di professione regista del teatro di Rebibbia, un
teatro della città di Roma - non solo uno dei tanti luoghi di un carcere - dove è riuscito a portare ad oggi ventiduemila spettatori, molti dei quali studenti minorenni.
Un fenomeno che potrebbe essere oggetto di studi per il teatro contemporaneo.
A dare inizio alla 62esima edizione della
Berlinale è stato il film francese in concorso Les adieux à la Reine di Benoit
Jacquot. Il direttore artistico Dieter Kosslick nella presentazione del
festival aveva anticipato: “Our French opening film Les adieux à la reine sets
the tone”. Il tono di cui parla il direttore è che il cinema non è fatto solo
da scene e costumi, ma anche dalle persone che ritrae. L’ edizione 2012 della
Berlinale, infatti, non ignora i tumulti degli ultimi mesi, e sceglie una serie
di film che, quand’anche non riguardino l’attualità in senso stretto, la
chiamano in giudizio da molte prospettive geografiche e storiche. Ci sarà un focus tutto particolare sull’
Africa e su tutti quei paesi che dal cinema sono stati quasi dimenticati.
L’edizione 2012 della Berlinale diventa spettatrice attenta a tutto quello che
succede oggi in Europa e nel mondo: dalla Primavera Araba al Mondo delle
rivolte.
E come poteva cominciare la mostra se non con
un film che racconta la madre di tutte le rivolte? Les adieux à la reine è
tratto dal romanzo della scrittrice e storica francese Chantal Tomas.
Siamo a Versailles nel Luglio del 1789,
l’inquietudine alla corte del Re Luigi
XVI cresce ogni ora che passa e il paese è sull’orlo della Rivoluzione. Dietro
le quinte dei palazzi reali vengono effettuati i piani di emergenza, anche se nessuno
crede che questo segni la fine di tutti gli ordini costituiti,dove la Regina
Maria Antonietta e il suo entourage parlano di fuga. Una delle dame di Maria
Antonietta è Sindonie Laborde che, come lettrice della Regina è un membro della
cerchia ristretta della monarchia. La Regina, preoccupata che la fuga di una
sua prediletta, la duchessa di Polignac, potrebbe fallire, dà istruzioni alla sua serva, facendola vestire
degli abiti della sua amata. La storia potrebbe definirsi una storia d’amore:
un triangolo che coinvolge le donne in questione e un’altra donna, dove, alla
fine, una delle tre si sacrifica per amore. Ma di tutto il film questo è
l’aspetto meno interessante, è solo un pretesto per raccontare qualcosa di più
grande: la fine di un mondo, attraverso una narrazione che ha il suo punto di
vista dall’interno, composto da lunghe inquadrature nelle stanze reali, nei
corridoi e nei giardini reali. Attraverso la testimonianza minuziosa della
serva innamorata della Regina interpretata dalla bravissima Léa Seydoux,
assistiamo agli stanchi riti di una società moribonda, chiusa nella sua reggia
e incapace di vedere e di capire il cambiamento che scuote la Francia; e, allo
stesso tempo, scopriamo i tratti più segreti dei personaggi della corte e
cogliamo la traccia indimenticabile della grazia e della bellezza di una regina
infelice e sventurata, interpretata dall’austriaca Diana Cruger. Il film è
interamente girato in digitale - nella conferenza stampa che ha seguito il
film, il regista ha detto che: “Girare in pellicola è come girare sui cavalli nell’epoca
delle automobili”.
Fare un film di costume in digitale e a basso
costo non era facile, la fotografia è ottima e la musica non è mai banale,
l’unico neo è la scenografia: mancano le grandi panoramiche, manca il respiro
alle inquadrature, ma quello si sa, con un budget limitato non puoi permetterti
tutto.
L’Orchestra
dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia entra in scena accompagnata dagli
applausi del pubblico e, all’arrivo del direttore James Judd, la serata
musicale prevista all’Auditorium Parco della Musica di Santa Cecilia di Roma domenica 5
febbraio 2012 comincia sulle note di Johannes Brahms, con la sua “Tragishe Ouvertüre” (Ouverture Tragica)
op. 81, gemella di quella più conosciuta: La “Ouverture Accademica”, composta
da un tono melodico più leggero e vivace rispetto alla Tragica, molto più
drammatica e, del resto, anche assimilata dalla critica, in modo opinabile, al “Coriolano”
di Beethoven.
L’orchestra si comporta
molto bene sotto la guida di James Judd, che mentre batte il tempo non si
dimentica di “disegnare” le emozioni che l’orchestra deve “dipingere”. La
strumentazione è molto limpida e pulita e anche gli stacchi più vistosi
scorrono tra loro con fluidità, in questo pezzo che, a mio parere, è drammatico,
ma non “profondo”. Quelle di Brahms sono ouverture che non seguono un percorso
letterario o immaginifico: quella di Brahms è musica per la musica,
contrariamente per quanto avviene per le ouverture di Beethoven, di Schumann,
per i poemi sinfonici di Liszt. È inconciliabile per me il paragone tra questa
Tragica e il Coriolano, dove quest’ultimo ha un’intensità nettamente superiore,
avendo intenzione di evocare qualcosa – la Tragica non evoca niente. Dunque
grande drammaticità per questo pezzo, una drammaticità puramente musicale e non
extra – musicale, un tipo di drammaticità resa benissimo dall’Orchestra di
Santa Cecilia.
Il brano termina tra
gli applausi e il pianoforte viene accuratamente portato al centro del
palcoscenico: è giunto il momento del tanto atteso pianista russo Evgeny Kissin
e già ci emozioniamo prima che incominci a suonare. Tutto è pronto ed ecco le
prime note del “Concerto il La minore per pianoforte e orchestra op. 16” di
Edvard Grieg.
James Judd
A dire il vero non so
di preciso cosa dire e cosa scrivere se non che sono rimasto estasiato e quasi
paralizzato davanti all’Arte di questo grande pianista, che posso giustamente
definire un Artista. Così pulito sulla tastiera come non ho mai sentito nessuno,
riesce a unire grande tecnica a grande interpretazione emotiva – a dire il vero
per lui la tecnica è automatica, non si deve sforzare, per lui è tutto facile,
e allora ha il buon senso di impegnarsi per regalare la spiritualità del brano,
facendoci anche commuovere in sala. Ascoltando Kissin non ascolto il pianista
che suona, ma ascolto la musica. Quella musica che con lui giunge alla
perfezione della “musica delle sfere”. Sotto le sue mani le note acquisiscono
un’anima, un’anima che ci arriva fino al cuore. Inutile dire è che il pianista
russo è uno dei massimi esponenti contemporanei di questo strumento e sono
convinto di dire che un giorno sarà annoverato tra i più grandi interpreti di
tutti i tempi. Può darsi che mi sbagli, ma questo non m’importa, quello che
m’importa è che mi sento fortunato a essere vissuto nell’epoca di questo grande
musicista che, dopo essersi cimentato con questo concerto dai temi scandinavi e
in cui si passa da melodie allegre ad altre liriche, concede due bis al suo
pubblico: dal “Carnaval”, sempre di Grieg e uno “Studio” di Chopin. Soprattutto
nel primo – che è un brano molto colorito musicalmente, Kissin dimostra ancora
il suo grande talento e fa scaturire da ogni nota un colore e un’intensità
diversa – in effetti lo potrei definire in un certo qual modo il “pittore della
tastiera”.
E quando il pittore ha
finito il suo quadro se ne va via tra i “bravo!” e le acclamazioni più
concitate degli ascoltatori, mentre l’orchestra e il maestro James Judd restano
sul palco, perché è giunto il momento della “Sinfonia n. 2 in Do minore op. 17
(Piccola Russia)” di Pëtr Il'ič Čajkovskij.
Se all’inizio si è
ascoltata musica per la musica, in questo caso invece udiamo tutt’altro: una
vera e propria intenzione di creare immagini e di suscitare forti emozioni. Veramente
una Russia in miniatura questa sinfonia, dai toni eroici, mitici, lirici e
sentimentali, in cui, come è tipico nella musica del compositore russo, si
passa da alti a bassi, da vistosi crescendi a soffici diminuendi, in cui non
viene dimenticato il protagonismo di ciascuno strumento della gamma
orchestrale, un protagonismo tramite cui si giunge a coloriture timbriche e a globali
cromatismi. Tutto questo reso ancora bene dall’Orchestra diretta da James Judd,
capace di far dialogare in modo chiaro gli strumenti tra loro.
Una bella serata di
musica insomma, in cui non ho trovato sbavature, a parte la mia tosse che,
purtroppo, non mi ha lasciato per tutto il concerto e a parte il problema neve,
che ha portato l’evento da sabato a domenica. Una neve che forse avrà fatto
sentire Kissin più a casa sua. Già, Kissin, è a lui che do lo scettro della
serata: al “pittore della tastiera”.
Un’atmosfera cupa, in
cui si respira un clima di mestizia e povertà e in cui pare che, veramente, i
Cavalieri dell’Apocalisse siano scesi sulla terra per portare le loro sciagure.
In questi ambienti si aggira il professor Heinrich Faust (Johannes Zeiler),
dotto in fisiologia, filosofia e astronomia, che, a seguito della conoscenza
del Diavolo Mefistofele (Anton Adasinsky) - a dire il vero nel film non si
chiama così, ma Mauritius -, diverrà un assassino, uccidendo, anche se
involontariamente, Valentino (Florian Brückner), il fratello di Gretchen, o Margherita
(Isolda Dychauk), la ragazza di cui si è innamorato, la quale sarà sedotta
dallo stesso Faust a seguito del contratto firmato da quest’ultimo a
Mefistofele. Solo alla fine Faust riuscirà a ribellarsi, quando, dopo essere
stato eletto “imperatore fantoccio”, in occasione della “Notte classica di
Valpurga” (per la verità da Sokurov ridotta solamente all’incontro tra Faust e
l’anima di Valentino, trascurando invece l’aspetto più magico di questa notte,
senza prendere in considerazione streghe e personaggi mitologici) abbandona
Belzebù dopo averlo sepolto di sassi andando verso una voce angelica che lo
chiama.
Come nel film è scritto
testualmente prima del suo inizio, Il “Faust” di Sokurov è tratto dal soggetto
caposaldo della letteratura tedesca e mondiale di Goethe – soffermandosi in
particolare sull’innamoramento tra Faust e Margherita, estrapolandola in modo
opinabile da un contesto molto più ampio. Adesso, ci vorrebbe un vero e proprio
trattato per fare un parallelo tra il film e l’opera letteraria e non mi sembra
adeguato in questo ambito di recensione.
È chiaro che si tratta
di una “opera filmica di citazione”: le citazioni sono innumerevoli e non si
limitano a quelle dalla omonima opera goethiana. Di Goethe ci sono riferimenti anche
ad altri scritti, come per esempio alla ballata “Heideröslein” (Rosellina della
landa), citata proprio da Mefistofele all’inizio, come metafora di prendere una
donna con la forza, nonostante questa cerchi di pungerti – il riferimento è a
Margherita. Tra le tante un’altra citazione è quella dal “Don Chisciotte” di
Cervantes, perché, alla fine, Dopo che Faust è riuscito a sedurre e possedere
Margherita e che la madre della fanciulla (Antje Lewald) è stata uccisa dal
Diavolo, i due protagonisti se ne vanno in giro vestiti con armature da teatro,
sopra bellissimi cavalli arabi, e sembrano proprio un Sancho Panza e un Don
Chisciotte, uomini illusi di essere cavalieri – in questo caso addirittura
imperatori. Tante anche le citazioni pittoriche di stampo fiammingo, grazie
alle quali molte scene sono costruite.
La grande differenza
tra film e libro è che il film è la caricatura del libro, dove si manifestava
la vera potenza di Mefistofele (quella potenza che poteva VERAMENTE dare un
impero a Faust), mentre nel film il Diavolo manifesta la sua impotenza, in
tutti i sensi. Il Mefistofele di Sokurov è un mostro ridicolo, con un corpo
mostruoso senza fallo, e preso in giro di conseguenza dalle donne; è poi un
buffone, un pervertito che è costretto a cercare di possedere le statue sacre
non potendo possedere le donne; è un malato, un usuraio, un inetto che quasi
non sa parlare e che non sa neanche scrivere il contratto per Faust (è un
Diavolo tra gli uomini). Mefistofele è una creatura a cui nessuno crede, che
tutti prendono a calci: il Mefistofele di Sokurov NON È CREDIBILE; non è
Mefistofele, è la sua maschera: una maschera da commedia dell’Arte! Mentre
quello di Goethe era deciso, attraente, intelligente e, perché no, delle volte
anche disponibile a fermarsi a riflettere sul mondo degli uomini, quello del
film, che ha vinto il Leone d’oro a Venezia, è tutto l’opposto. Il Diavolo per
Sokurov è malato, il male è malato, ed è qui, credo, che il film fallisce, dove
non viene attribuita la dignità che si deve al Diavolo, dove non viene
attribuita la dignità che si deve al Male, un Male, questo sembra chiaro in
Goethe, senza la quale il Bene non può esistere.
Meglio la figura di
Faust, coi suoi eterni contrasti interiori tra anima/corpo, vita/morte, che,
“per meritarsi” il Diavolo, dà in pegno la sua pietra filosofale. In Goethe
comunque si trattava di un Faust molto più deciso a volere incontrare
Mefistofele e lo invocava con libri di magia e con tutte le sue forze. La
figura di Wagner (Georg Friedrich) è stata resa da Sokurov come un frustato
alla ricerca della gloria, ed è per questo che crea “Homunculus”, personaggio
qui appena citato, in Goethe fondamentale.
Nonostante questo rendo
merito a tutti gli attori, che hanno veramente interpretato i personaggi
richiesti al meglio e ritengo interessantissimi anche i tecnicismi registici
oramai consoni a Sokurov (lunghe inquadrature estatiche su primissimi piani;
inquadrature oblique; gioco di luci diverso per ogni scena, a valore simbolico
e significante). Bisogna considerare che questa pellicola è stata girata con un
budget piuttosto basso, ed è un merito quello di essere riusciti a sintetizzare
le vicende di Faust, Mefistofele e Margherita in pochi ambienti (molti
esterni).
Costante del film è la
presenza di animali selvatici, perché il Diavolo è associato all’istinto
animale. Un Diavolo che di certo in questo film ha perso illegittimamente la
propria dignità. Il bell’ angelo ribelle caduto dal cielo è stato reso con più
efficacia da altri film (ultimamente “Parnassus”, per fare un esempio) e il mio
istinto di citare anche lo splendido personaggio della Morte del “Settimo
Sigillo” di Bergman è forte, anche se si rischia di andare un po’ fuori
discorso – in questo caso dovremmo chiederci se la Morte e il Diavolo sono la
stessa cosa.
In ogni caso un film
che vale la pena di essere visto (molto valido sotto il profilo tecnico), anche
se la sceneggiatura non convince e anche se la figura di Mefistofele,
ribadisco, non è di mio gusto. Ricordo ancora con amore il “Faust” di Murnau e,
guardando questo nuovo film, non nascondo che mi è un po’ mancato.
Regia: Aleksander
Sokurov
Sceneggiatura:
Aleksander Sokurov
Con: Hanna Schygulla,
Antoine Monot Jr., Georg Friedrich, Maxim Mehmet, Isolda Dychauk, Joel Kirby,
Eva-Maria Kurz, Florian Brückner, Johannes Zeiler