Teatro Signorelli di Cortona. Mercoledì 28 marzo 2012
Tullio Solenghi e Maurizio Micheli
Fingersi omosessuale per recuperare il lavoro perduto. Parte
tutta da questa considerazione la vicenda di François Pignon (Maurizio Micheli), da decenni
contabile della “Sicurex”, un’industria di preservativi. Licenziato perché non
giudicato all’altezza “di giocare nella squadra di Rugby dell’azienda”, e allo
stesso tempo anche lasciato dalla moglie (Sandra Cavallini), sarà riassunto
solo quando, su consiglio del nuovo vicino di casa (Enzo Saturni), tramite
delle foto false mandate anonime al vecchio luogo di lavoro, si fingerà omosessuale, costringendo il presidente della “Sicurex”
(Adriano Giraldi) a riassumerlo per evitare un grande scandalo. François diventerà così un personaggio prezioso per l’azienda e
per i media, tanto è vero che sarà portato come icona fondamentale dal mondo
omosessuale. Tullio Solenghi ha invece la parte dell'amministratore del personale dell’azienda,
ed è lui a decidere di licenziare l’impiegato. L'amministratore è inizialmente un
uomo che rifiuta che altri uomini possano avere altre tendenze sessuali: è
quasi un omofobo, ma poi, a seguito della vicenda di François, non solo
cambierà idea, ma troverà in sé stesso la sua parte di omosessualità che fino a
quel momento si era mascherato.
La vicenda gira anche intorno a un’altra figura: l'impiegata dell’ufficio
(Fulvia Lorenzetti), la “bellona” della “Sicurex”, a cui tutti fanno la corte,
ma a cui lei non cede mai, neanche agli altri due colleghi (Paolo Gattini e Matteo
Micheli) che fanno di tutto per conquistarla. Cederà alla fine solo a François,
o meglio, lui cederà a lei, togliendosi finalmente la maschera che si era messo
– una maschera che, tra l’altro, gli ha anche permesso di guadagnare la stima
del figlio (Massimiliano Borghesi), che vede ora il padre come una sorta di
eroe.
Il tutto si conclude con tutti i personaggi della scena che vanno
in corteo a una festa-gay accompagnati dalla musica dei "Village People", come a volerci dire: “l’apparenza inganna, a dire il
vero tutti noi abbiamo dentro qualcosa che non ha a che vedere con la tendenza
sessuale a cui eravamo sicuri di essere predestinati”.
Questa è un po’ la trama sommaria di “L’apparenza inganna”,
di Francis Veber, con la regia di Tullio Solenghi. Si tratta di una “commedia
semplice”, dai ritmi comici ben innescati e ben giocati, che hanno fatto
divertire il pubblico del teatro cortonese.
Molto interessante è la scenografia di questo spettacolo,
una scenografia divisa in due piani, visibili al pubblico a intermittenza: nel piano di sopra è la casa di François Pignon
il luogo scenico, mentre nel piano basso si oscilla tra gli uffici della “Sicurex”
e il ristorante “Il Becco Giallo”, dove vengono rappresentate varie azioni.
Una commedia senza tante pretese e il cui unico risultato
deve essere quello di saper far ridere, e ci è riuscita, grazie all’ottima interpretazione
degli attori in scena, sopra a tutti i protagonisti Tullio Solenghi e Maurizio
Micheli, senza togliere comunque niente a tutti gli altri.
Era lunedì 26 dicembre quando parlavo del cortometraggio creato da Antonio Castaldo "Dall'altra parte". A quel tempo non ebbi la possibilità di metterlo in visione sul Corriere, perché ancora non reso pubblico. Finalmente il video del corto si trova su Youtube, ed è così che adesso posso mostrarlo al nostro pubblico di lettrici e di lettori.
Dall’articolo di lunedì 26 dicembre:
Dall'altra parte
Idea e sceneggiatura di Antonio Castaldo
Regia di Antonio Castaldo e Pierfrancesco Bigazzi
Fotografia di Rossano Dalla Barba
con Eleonora Angioletti, Ciro Gallorano, Biga Ion, Piero
Matteini e Umberto Rossi
Un ragazzo (Ciro Gallorano) si muove lungo un viale. Si
sente disperato, malato! Ma di cosa? Della Diversità. Quella diversità che è
ancora più pesante di un male fisico o psicologico: la diversità è un malessere
ancora più profondo e "astratto". Si muove, cammina con passo
tranquillo/ansioso e, lungo il percorso, entra in contatto con una serie di
visioni: un omosessuale (Biga Ion) seduto su di una panchina, un vecchio (Piero
Matteini), una ragazza (Eleonora Angioletti), che lo guarda con occhi profondi;
si scontra poi con una massa di persone che, correndogli addosso, quasi lo
sovrasta. Una serie di visioni, una serie d'incontri che alimentano l'angoscia
del personaggio che, alla fine, dopo un climax ascendente di sfogo, si trova al
telefono per spiegare ancora il suo malessere, un malessere che però,
finalmente, saprà superare: potrà finalmente vivere con la sua diversità!
Questo è "Dall'altra parte" - proprio perché alla
fine solo il saper riconoscere la propria diversità ci porta verso la salvezza
- di Antonio Castaldo, un cortometraggio presentato mercoledì 21 dicembre al
"Cinema Eden" di Arezzo in occasione della rassegna
"Invisibili". Il corto è girato quasi interamente in bianco e nero e,
solo nel finale, in cui il protagonista riesce a impossessarsi della sua vita e
della sua diversità, il video simbolicamente si colora. "La paura rende
prigioniero, la speranza può renderti libero": la scritta di apertura che
appare sullo schermo, poi, dopo alcune immagini iniziali introduttive, il corto
entra nel vivo, quando vediamo Ciro Gallorano camminare lungo il detto viale - si tratta di quello della Facoltà
universitaria di Lettere e Filosofia di Arezzo. Le immagini scorrono e nel
sottofondo sentiamo la voce narrante dello stesso attore che con un monologo di
grande intensità poetica e psicologica ci parla della sua condizione di
"inetto", fino ad arrivare al punto della chiamata, dove termina la
narrazione fuori-campo, mentre vediamo e sentiamo l'attore parlare al telefono
cellulare, quando si è definitivamente svincolato dalle prigioni delle sue
paure per liberarsi grazie alla speranza.
Questo è il primo lavoro cinematografico di Antonio Castaldo
- regista nato a Napoli ma residente ad Arezzo - di cui già s'intuiscono le
grandi capacità tecniche e, soprattutto, la facilità di trasporre i propri
concetti interiori all'interno di uno schermo. Castaldo ha già altri ambiziosi
progetti per il futuro e se continuerà su questa linea farà sicuramente molta
strada.
INTERPRETI
: HENRY FONDA, VERA MILES, ANTHONY QUAYLE, CHARLES COOPER, HAROLD J. STONE
EDIZIONE DVD : Sì, distribuito da WARNER HOME VIDEO
(edizione estera con traccia audio in italiano)
A chi non è capitato, almeno una volta nella vita, di essere
scambiato per qualcun altro? Nel caso di
Emmanuel "Manny" Balestrero, contrabbassista in un locale notturno,
le conseguenze di questo errore si riveleranno tragiche. Manny, uomo onesto e
appassionato al proprio lavoro, vive insieme alla moglie e ai due figlioletti
un'esistenza relativamente tranquilla e felice; l'unico problema è una perenne
mancanza di denaro, alla quale la coppia riesce ad ovviare con un approccio
positivo ed ottimista nei confronti della vita. I guai cominciano quando Manny
si reca in un'agenzia di assicurazioni per chiedere un prestito come anticipo
sulla polizza della moglie, bisognosa di cure mediche costose. Scambiato dalle
impiegate dell'assicurazione per il rapinatore che ha messo a segno diversi
colpi nel quartiere, viene denunciato e la sera stessa arrestato dalla polizia.
E' l'inizio di un'odissea che porterà Manny fino al processo, in mezzo a disagi
ed umiliazioni di ogni tipo. La moglie Rose, nel frattempo, duramente provata
dalla situazione, crolla e finisce ricoverata in clinica per un grave
esaurimento nervoso che la porta alle soglie della pazzia. Incastrato da
circostanze incredibilmente sfortunate -per vari motivi tutte le persone che
potrebbero scagionarlo risultano irreperibili; la perizia calligrafica sembra
inchiodarlo; i testimoni oculari delle rapine concordano nel riconoscerlo come
il delinquente- nonostante l'assistenza di un avvocato tenace e comprensivo,
Manny sembra destinato ad una sicura condanna; solo un errore del vero
malvivente (neanche troppo somigliante al nostro protagonista), che gli costa
la cattura in un negozio di generi alimentari, rimetterà le cose a posto.
Tratto da un fatto di cronaca realmente accaduto, è il film
più umile, asciutto, anti-spettacolare e (solo apparentemente) dimesso del
regista, un episodio del tutto anomalo e per questo interessante
nell'itinerario artistico di "Hitch", distante anni luce dalle super
produzioni giallo/thriller hollywoodiane
che verranno e che garantiranno al maestro l'etichetta di "mago del
brivido". Sono le tonalità del grigio e gli accordi in minore le
coordinate sensoriali dominanti in questa piccola grande opera, girata senza
orpelli e a tratti quasi neorealista, attraversata da un'atmosfera mesta e pessimista che impone un'assoluta
austerità, sottolineata dalla rinuncia di Hitchcock ai suoi amati
"cameos" (il regista, molto eloquentemente, si concede soltanto un
breve prologo introduttivo nel quale avverte gli spettatori che in questo film
non ricorrerà ai consueti registri narrativi funzionali alla creazione della
tipica atmosfera hitchcockiana, bensì, trattandosi di una storia tratta da un
caso vero, si limiterà ad attenersi alla realtà pura e semplice, di per sé di
gran lunga superiore a qualunque sforzo di immaginazione).
C'è poco da spettacolarizzare, in effetti, in questa
desolante e sconsolata cronaca del calvario di un uomo qualunque che di punto
in bianco si vede stravolgere la propria esistenza senza una ragione
comprensibile: è il CASO, l'agente autarchico per eccellenza, l'eterna
variabile incalcolabile, a muovere gli ingranaggi della vita. Non c'è teodicea
o ratio che tenga di fronte all'ingiustificabile e inspiegabile punizione che
arriva a colpire un innocente: il caso dà, il caso toglie. In mezzo sta l'uomo,
in balia degli elementi, spettatore
impotente (purtroppo) della propria vita, partecipante ad un gioco di
cui non gli è concesso conoscere le regole.
A dare forma e sostanza alla visione hitchcockiana della
condizione umana provvede con una formidabile prova Henry Fonda, abilissimo,
nonostante fosse già un attore affermato, ad annullarsi fino ad assumere le
sembianze dell' "uomo della porta accanto" attraverso una recitazione
essenziale, misurata, asciutta, che lascia spesso agli sguardi il compito di
esprimere ciò che nessuna parola potrebbe. Il suo Manny è un onest'uomo
qualunque credibilissimo, nel quale diventa facile identificarsi (come negare
che il senso di colpa, la paura della colpa, è uno dei tormenti universali
dell'uomo? Rose impazzisce schiacciata da esso e lo stesso Hitchcock sembra
particolarmente ossessionato dall'argomento,il quale ricorre come tema portante
in altri suoi film, "VERTIGO" e "IO TI SALVERO' " su
tutti), specie per chi ha vissuto esperienze analoghe anche se in scala
ridotta; essere accusati ingiustamente, magari per piccole cose, è del resto
un'esperienza piuttosto comune. Al cospetto del caso, nemmeno la certezza di
compiere quotidianamente il proprio dovere e di procedere quindi nel percorso
della rettitudine morale, offre all'uomo garanzie di riparo dalla sventura; in
quest'ottica, assumono una forte valenza critica ed ironica (almeno agli occhi
di chi scrive), i vari riferimenti alla religione, retaggi della robusta
educazione cattolica -gesuita- ricevuta dal giovane Hitchcock: la madre che
raccomanda a Manny di pregare per il processo; Manny che segue il dibattimento
rigirandosi un rosario tra le mani, lo stesso che gli viene pietosamente
lasciato dalla guardia carceraria al momento di entrare in prigione; la
testimone d'accusa, che in una sorta di inquietante imitazione del bacio di
Giuda a Cristo si reca a toccare il colpevole in aula, su richiesta del
pubblico ministero... è il protagonista stesso a mettere in chiaro le cose
quando, alla madre che lo esorta a pregare Dio affinché gli conceda la forza di
affrontare il processo, replica laconicamente: "NON VEDO CHI MI POTRA'
AIUTARE, SE NON AVRO' UN PO' DI FORTUNA!" E la fortuna (forse l'intervento
di Dio, secondo il regista? Il dubbio in merito all'opinione di Hitch rimane,
dato che alla scena dell'arresto del criminale antepone l'inquadratura di
un'immagine del Cristo che Manny osserva con sguardo supplice) arriva subito
dopo, con la maldestra rapina che costa la libertà al bandito. E' sempre la
casualità dunque, in una sorta di processo circolare, che così come aveva dato
origine all'apertura del cerchio (Manny scambiato per il bandito dalle
impiegate dell'assicurazione), perviene alla sua chiusura (il
"cattivo" compie un errore, si fa catturare da un negoziante, viene
poi riconosciuto come il vero colpevole dallo stesso poliziotto che aveva
arrestato Manny, fine dell'incubo). Seppure spettino dunque al caso le
responsabilità -nel bene ma soprattutto nel male- maggiori in questa vicenda,
non possono però venir meno le mancanze e la complicità della giustizia da un
lato e delle persone comuni (testimoni d'accusa soprattutto) dall'altro. Quali
garanzie di equità e affidabilità offre un sistema giudiziario che istruisce un
processo "a diritto rovesciato", dove l'onere della prova spetta alla
difesa anziché all'accusa (sì, perché, nonostante siano fallaci, tutte le
argomentazioni dell'accusa paiono convincenti, e questo obbliga l'innocente a
produrre vere prove contrarie, atte a neutralizzare quelle false)? Quale
credibilità può vantare un corpo di polizia che dà prova di tale superficialità
nel condurre le indagini (la ridicola perizia calligrafia, gli approssimativi
confronti tra indiziati e testimoni, le umilianti passerelle del sospetto nei
luoghi del delitto)? Quale pofessionalità dimostra un pubblico ministero che
riporta come prove schiaccianti, travisandole completamente, le dichiarazioni
rese dall'imputato (l'innocente passione di Manny per le corse dei cavalli
diventa automaticamente un pretesto per insinuare che sia un giocatore
incallito con ingenti debiti verso gli allibratori)? Se la macchina della
giustizia assume qui gli inquietanti connotati del leviatano (a quale prezzo la
giustizia?), non va certo meglio se ci si sofferma sul comportamento delle
persone comuni: di quanta incoscienza e superficialità bisogna essere forniti,
per accusare un uomo dopo averlo riconosciuto -una delle impiegate
dell'agenzia- senza neanche averlo guardato (e non che gli altri testimoni
abbiano proceduto ad un'identificazione tanto meno frettolosa)? Di quale
autorità morale può godere un giurato che si rivolge in maniera tanto
sprezzante e faziosa verso la Corte (circostanza abilmente sfruttata dal
difensore di Manny per chiedere ed ottenere la ricusazione della giuria)? Con
quale coraggio le testimoni potranno guardare Manny negli occhi (e infatti non
ci riescono, liquidando il momento imbarazzante con finto sdegno) dopo aver
appreso la verità? Come mai non hanno nemmeno la decenza di pronunciare due
parole di scusa? Non c'è nulla che possa indurre all'ottimismo, in questa
storia: tutto si risolve positivamente, ancora una volta, soltanto grazie al
caso e non certo all'uomo! Quante probabilità di uscirne indenne avrebbe avuto
Manny, pur con tutta la volontà e la forza di questo mondo, se il vero colpevole
non fosse stato catturato e avesse dovuto quindi contare SOLO sulle proprie
risorse? Sta proprio in questa amara constatazione il cuore del messaggio
pessimistico di fondo trasmesso dal film: l'uomo non è padrone del proprio
destino. Coerentemente a tale assunto, pur ritrovandosi costretto, data la
volontà di attenersi ai fatti, a raccontare il lieto fine della storia,
Hitchcock decide di affidare il finale ad un'asettica didascalia di chiusura,
priva persino del commento sonoro trionfalistico di prassi. E' questa
l'esposizione più fedele ed efficace di una conclusione felice solo
formalmente: un'esperienza così terribile non può non lasciare strascichi
psicologici permanenti in colui che l'ha vissuta e non basta un'assoluzione a
cancellare le umiliazioni, i soprusi e le sofferenze patite da una mente che
porta ormai impresso a fuoco il marchio dell'ingiustizia, come testimoniano gli
occhi smarriti, stremati, increduli di Manny anche dopo aver saputo che il suo
supplizio è finito (in quella che è forse la scena più intensa del film, il
nostro si ritrova faccia a faccia col suo "carnefice", al quale
riesce solo a dar la colpa dell'esaurimento della moglie, senza particolare
enfasi né rancore, tale è lo stato di prostrazione in cui si trova Manny).
Viene spontaneo, almeno per lo spettatore italiano,
stabilire un parallelo tra il film e quello che nella memoria collettiva del
Paese rimane forse l'esempio più celebre di malagiustizia: il caso Tortora. Per
un grossolano errore di valutazione nel corso di un'indagine su fatti di
camorra (durante un sopralluogo in casa di un camorrista, viene rinvenuta
un'agenda telefonica con su scritto, accanto ad un numero telefonico, il nome
"TORTONA", poi scambiato per "TORTORA"), avviata sulla base
delle dichiarazioni mendaci di alcuni pentiti, il noto giornalista e conduttore
ligure fu arrestato, in un clima da gogna mediatica e nell'incredulità
generale, il 17 giugno 1983, con l'accusa di associazione a delinquere di
stampo camorristico; un'agendina col nome storpiato, alcune dichiarazioni di
pentiti: tutti qua gli indizi sui quali si resse l'impianto accusatorio. Anche
in questa circostanza fu il caso, agevolato dall'inefficienza della giustizia e
dal pregiudizio della gente (semplicemente impressionante il clima giustizialista
che pervase gran parte dell'opinione pubblica e della stampa dell'epoca), a
sparigliare le carte di una vita intera, purtroppo in modo irreversibile : solo
più di tre anni dopo, il 15 settembre 1986, arrivò l'assoluzione in appello per
un uomo che aveva subito sette mesi di carcere e una condanna in primo grado a
dieci anni di reclusione. Ma quello che il 20 Febbraio 1987 si ripresenta al
pubblico televisivo con la sua amata "PORTOBELLO" è un individuo
quasi irriconoscibile: invecchiato e recante nello sguardo i segni di una
sofferenza indicibile, Tortora è la personificazione della sua stessa tragedia.
Gli occhi acquosi di Manny assomigliano fin troppo nettamente a quelli
immortalati in primo piano dalla telecamera di Raiuno quella sera di febbraio,
e sono occhi che dichiarano a chiare lettere che nulla più sarà come prima.
Sulla vicenda Tortora il regista Maurizio Zaccaro ha girato nel 1999 il
discreto film "UN UOMO PERBENE ", con Michele Placido nei panni del
protagonista.
Teatro Signorelli di Cortona. Martedì 20 marzo 2012
da sinistra: Piero Pepe e Carlo Giuffré
Essere convinti che ci siano fantasmi all'interno di un grande appartamento e che questi diano in dono molte somme di denaro, quando invece quelli non sono fantasmi, ma il terribile gioco che la moglie e l'amante tramano alle tue spalle: questa è la sorte di Pasquale Lojacono, non a caso definito "anima in pena". La trama di "Questi Fantasmi" di Eduardo De Filippo è fin troppo famosa perché se ne dia una spiegazione completa, quello che a noi interessa è che il classico non muore mai e che, nonostante il teatro abbia preso strade molto diverse da quelle tradizionali, ancora, quando nel boccascena vediamo davanti ai nostri occhi le scene del teatro napoletano del Novecento, siamo invasi da un grande incanto. Il teatro classico non morirà mai, sarà affiancato da altre correnti drammaturgiche - che in futuro otterranno anch'esse il titolo di "classiche" - ma non morirà mai, perché avrà sempre qualcosa da dirci, qualcosa da trasmetterci, soprattutto quando lo sviluppo del dramma è intrapreso da un gruppo di attori validi, come fortunatamente ho potuto ammirare io martedì 20 marzo al Teatro Signorelli di Cortona.
D'altra parte questo tipo di teatro è "teatro d'attore" ed è quindi fondamentale che gli interpreti siano perfettamente in sintonia con il testo scritto e gestuale. Certo è che Carlo Giuffré - regista della messa in scena - è una certezza nei panni del protagonista, sempre emotivo, caldo, attento al timbro della voce, attento alla gestualità e alla costruzione ritmica dello spazio. Mi è piaciuta molto la prova di tutti gli attori, e mi piace ricordare quella di Maria Rosaria Carli, nei panni di Maria, moglie di Pasquale. Maria è una bellissima giovane donna che ha amato un marito molto più vecchio di lei, ma che non riesce più ad amare, anche perché innamorata di un altro uomo: Alfredo Marigliano (interpretato da Paolo Giovannucci molto bene) ed è straordinario come riesce a rendere al meglio l'ambiguità del suo sentimento: da una parte vuole stare con il marito, benché dentro di sé lo consideri un fallito nella vita, dall'altra vuole seguire la sua passione e scappare via, cosa che non farà per un atto di pietà di Alfredo, il "fantasma" di Pasquale. La Carli nella sua interpretazione riesce ad arrivare a un risultato non semplice: non fa di Maria una donna peccaminosa e negativa, ma anzi è, come dice De Filippo una "anima perduta", che tradisce colpita da un senso di vuoto interiore, senza intenzioni malvagie nei confronti di Pasquale. Mi dispiace non poter parlare di tutti gli attori, ma mi accontenterò di dire che la componente attoriale ha fatto un ottimo lavoro nel suo complesso e che quindi sia le attrici che gli attori si sono comportati tutti molto bene.
Qualcosa da ridire invece sulla costruzione scenica. La scenografia è composta dalla grande sala dell'appartamento, accompagnata ai lati dall'apertura di due balconi in primo piano. C'è qualcosa che geometricamente non funziona in questa disposizione, è come se il mio occhio senta come forzati quei due balconi disposti a quel modo, come del resto il mio occhio ha reputato abbastanza fastidiosi quegli schizzi d'immagini digitali che delle volte sono stati proiettati per dare vita a certe sensazioni. Quegli schizzi l'ho sentiti come spruzzi di colore insensati e causa di rovina su un bel quadro.
In ogni caso nel complesso posso dire di avere visto un bello spettacolo, in cui gli attori hanno giocato il ruolo fondamentale. D'altra parte si tratta di teatro d'attore e il resto delle componenti sceniche può cadere in secondo piano.
Questi Fantasmi
di Eduardo De Filippo
regia Carlo Giuffré
luci Umile Vainieri
scene e costumi Aldo Terlizzi
musiche Francesco Giuffré Personaggi e interpreti (in o. di e.): Raffaele, portiere (anima nera) - Piero Pepe due facchini (anime condannate) - Giuseppe Piacquadio e Pietro Meglio Gastone Califano (anima libera) - Claudio Veneziano Pasquale Lojacono (anima in pena) - Carlo Giuffré Carmela, sorella di Raffaele (anima dannata) Antonella Lori Maria, moglie di Pasquale (anima perduta) - Maria Rosaria Carli Alfredo Marigliano (anima irrequieta) - Paolo Giovannucci Armida, moglie di Alfredo (anima triste) - Antonella Cioli Silvia e Arturo, loro figli (anime innocenti) Pina Perna e Francesco D'Angelo Saverio Califano, maestro di musica - Giuseppe Sala Il professor Santanna (anima utile, ma non compare mai)
Chicago, 1929: la crisi economica colpisce l'America e il mondo intero. Operai perdono il lavoro e muoiono di fame, mentre gli imprenditori non si comportano con umiltà davanti a questa catastrofe, ma anzi, accecati dalla loro sete di ambizione e di guadagno, si disinteressano dei lavoratori, a favore dei loro illegittimi affari. Mauler (Paolo Pierobon) è uno di questi capitalisti, un pezzo grosso dell'industria della carne macellata, da cui dipendono tanti altri imprenditori, che non fanno altro che contrattare prezzi e merci, senza pensare minimamente ai loro ex operai - licenziati - caduti in disgrazia. C'è solo un'anima buona in questa vicenda, una sognatrice con l'intento di salvare l'umanità dalla miseria: Giovanna D'Ark (Maria Paiato) - palese il riferimento a Giovanna D'Arco - che cercherà di moralizzare gli imprenditori tramite la parola di Dio e, se a un certo momento la sua parola sembra avere la meglio, in un secondo le cose ricadono nuovamente, e anche lo stesso Mauler, che inizialmente aveva sembrato ascoltare i consigli della donna, si ridà proprio nel finale all'avidità per gli affari che l'aveva contrassegnato all'inizio. La morte di Giovanna conclude la pièce e il suo nome viene fatto santo, di una santità di scherno però: Santa Giovanna dei Macelli.
Si tratta della prima regia di Luca Ronconi su un testo brechtiano e si può dire che questo primo tentativo sia stato molto felice. La scena è contrassegnata da una gru sulla sinistra in cui si ergono tutte le figure del potere - come Mauler o il capo dei Cappelli Neri Lennox (Michele Maccagno), vale a dire quell'ordine che dovrebbe servire nella parola di Dio, ma che in realtà vuole salvaguardare solo i suoi interessi materiali, in cui la stessa Giovanna si trova all'inizio per poi in seguito distaccarsene. La gru è il simbolo del "potere sociale", del potere esercitato nella forza della propria autorità convenzionale, un'autorità che alla fine diventa oggetto di stupidità. Giovanna salirà sulla gru solo al momento della morte, quando gl' imprenditori ce la metteranno per decretarla ironicamente santa. Gli uomini di affari sono simbolicamente tutti racchiusi dentro dei barattoli di carne in scatola - sono proprietari di fabbriche di questi oggetti: hanno perso ormai la loro umanità, non sono soltanto uomini che pensano ai loro prodotti, ma lo sono materialmente diventati. Solo Mauler non è racchiuso dentro uno di questi barattoli, lui d'altra parte dimostra in certi frangenti del dramma di essere ancora un uomo, ma non abbastanza per restarlo per sempre. I Cappelli Neri sono significatamente illustrati con costumi da soldati: difendono la parola di Dio con la forza e non solo: difendono i loro interessi con la forza, prendendo solo come un pretesto la parola di Dio. Gli operai sono invece rappresentati nella loro più terribile miseria, costretti a rinunciare al rispetto altrui per guadagnare qualche soldo o addirittura per mangiare una minestra. Sulla scena è disposto anche un pannello per proiezioni video - supportato da una serie di "televisioni" in primo piano, in cui passano le immagini. Molti video vengono proiettati e il loro contenuto, spesso simbolico, si relaziona con gl'interventi dei personaggi sulla scena.
Unica piccola pecca che ravviso in questo spettacolo è la mancanza di un unico registro recitativo. Gli attori si comportano molto bene singolarmente, ma con tecniche diverse tra loro. Sopra a tutto emerge il fatto che la Paiato fa uso di un tipo di recitazione tipicamente brechtiana di estraniamento seguendo i canoni del Teatro Epico, mentre Pierobon sembra veramente vivere appieno il suo personaggio, facendo pensare al più comune metodo di Stanislavskij.
In ogni caso si tratta veramente di un'ottima opera d'insieme di cui il Maestro Ronconi può sentirsi a parer mio pienamente soddisfatto.
Piccolo Teatro Grassi
dal 28 febbraio al 5 aprile 2012
Santa Giovanna dei macelli
di Bertolt Brecht
traduzione Ruth Leiser e Franco Fortini
regia Luca Ronconi
scene Margherita Palli
costumi Gianluca Sbicca
luci A. J. Weissbard
musiche a cura di Paolo Terni
interventi filmici Emanuele Di Bacco, Nicolangelo Gelormini
con (in ordine alfabetico) Francesca Ciocchetti, Roberto
Ciufoli, Gianluigi Fogacci, Giovanni Ludeno, Michele Maccagno, Alberto
Mancioppi, Francesco Migliaccio, Massimo Odierna, Maria Paiato, Paolo Pierobon,
Fausto Russo Alesi, Elisabetta Scarano
una produzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, The
State Academic Maly Theatre of Russia, Mosca
in collaborazione con Centro Sperimentale di Cinematografia
- Sede Lombardia
per gentile concessione dell'editore Suhrkamp Verlag,
Frankfurt am Main
Un po’ di storia. il febbraio del 2009 ha contrassegnato l'ultimo
concerto a Roma degli Oasis. Per ricordare quell’evento ecco un prezioso
documento che ricorda quella sera: una recensione scritta da Flavia Clari
OASIS
20.02.2009 Roma - Palalottomatica
“Rock ‘n’ roll star” Con questa canzone si apre il più
atteso concerto dell’anno.
Finalmente dopo 5 anni torna in Italia la band inglese amata
da tutta Europa: OASIS!!
Sono le ore 21.00, il Palalottomatica di Roma è colmo di
fan, dal 2° ma ancor di più dal 3° anello si vedono soltanto TANTE teste... Sono
i ragazzi del Parterre che sono lì dalle otto di mattina per vedere il più
vicino possibile la loro band preferita; Tra i posti degli anelli c’è
addirittura gente in piedi o seduta per le scale. Un concerto sold out infatti
già da novembre erano terminati tutti i biglietti.
Si spengono tutte le luci della sala, la folla inizia ad
urlare e a gridare il loro nome, sul palco iniziano ad alternarsi delle luci a
strobo seguite da luci occhi di bue come se stessero cercando la band…Ed eccoli
apparire: i fratelli Gallagher, Andy & Gem sotto la loro classica canzone
di apertura: “Fuckin in the Bushes”.
Luci blu, Liam conquista il centro del palco, assume la sua
classica posizione un po’ storta davanti al microfono e il concerto ha inizio!
Con quale canzone migliore poteva aprire il concerto e
spiegare come si sentiva se non con Rock ‘n’ roll star?? “Tonight I'm a rock n
roll star!!” E ci ha fatto sentire a tutti come delle vere star del rock ‘n’
roll ...
Comincia così un grande mix di brani vecchi e nuovi da Lyla
a Shock of the lightning (singolo tratto dall’ultimo album della band inglese)
e l’ostilità tra i due fratelli Gallagher è sempre più accentuata e il tipico
atteggiamento di Liam di andarsene mentre canta il fratello è stato ben
visibile nella canzone “ The Masterplan”.
Ma il brano che accende il corpo e l’anima del pubblico è
solo uno: “What’s The Story Morning Glory” che trasforma il palalottomatica
come un vero inferno: le luci tingono il palco e la folla di rosso e milioni di
fan saltano, ballano e gridano “in quell’aere senza stelle e senza tempo”.
Ma sono fan destinati e che appartengono al paradiso,
infatti, una lieve luce azzurra illumina il palco e l’unica luce che illumina
la folla è la fiamma degli accendini sventolati. Come se fosse un coro di
angeli si sente soltanto la voce del pubblico che da sola inizia la canzone più
dolce e lenta degli Oasis: “I’m outta time”.
Non poteva non mancare la più bella canzone mai scritta dai
fratelli Gallagher... Un colpetto di tosse... Tempo stabilito dalle bacchette della
batteria... e la chitarra acustica che dà inizio a un brano colonna sonora di
molte storie d’amore: “Wonderwall” ; innamorati che si baciano e si abbracciano
dolcemente, persone che si dedicano questa canzone attraverso il telefono, una
chiamata alla loro amata che non ha fatto in tempo a prendere il biglietto. È
come se l’attenzione per un attimo si spostasse dal cantante agli occhi del tuo
amato, come se in quell’istante in mezzo a un milione di persone esisteste solo
tu e lui.
Ma l’apoteosi del concerto si ha con la fantastica canzone:
“Don’t look back in anger” un esibizione da brivido; Noel con la sua chitarra
ci fa emozionare e ci lascia cantare da soli il ritornello di questo
meraviglioso brano: “And so, sally can wait, She knows its too late as were
walking on by. Her soul slides
away, But dont look back in anger. I heard you say”. Ma la cosa più
bella, oltre a sentire solamente la nostra voce, è stato vedere sul grande
schermo del palco le nostre facce che cantavano con gioia e felicità questa
splendida canzone, come se fossimo noi le vere star!
E con il brano “I Am the Walrus” (cover dei The Beatles) si
conclude purtroppo questo incantevole sogno che tutti noi avremmo voluto che
durasse per l’eternità.
Anch’io ho partecipato a questo straordinario evento ed è
stato bellissimo, stupendo, magnifico averli tutti a pochi metri, incrociarne
lo sguardo, anche solo per un attimo, cantare con loro e anche più forte di
loro. Terrò sempre il ricordo di quella sera e per qualche giorno questo
sorriso inebetito che dal 20 febbraio ho stampato in faccia e che questa band
mi ha regalato.
Paola Zaramella è una giovane attrice emergente. "Nata tra le montagne della Valle d’Aosta, è cresciuta
nell’orto della nonna in mezzo a piante e fiori profumati. Ha iniziato a fare teatro quando ancora non aveva finito la
scuola e recitava in francese, che è la sua seconda lingua. Poi si è formata come attrice teatrale. Attualmente è impegnata a coltivare, con cura e dedizione,
il suo percorso professionale". Sono queste parole della stessa Paola, creatrice di un progetto molto interessante di cui mi parla: "Carie. Piccoli drammi contemporanei". " Si tratta di un progetto video che raccoglie brevi
componimenti teatrali, cioè brevi storie o meglio piccoli drammi da me scritti,
diretti e interpretati. Siamo in 3 persone a lavorarci sopra, oltre a me c'è
Caterina Di Iulio che si occupa di costruire le scene e Francesca Nota che fa
le riprese e i montaggi video. Non abbiamo una produzione alle spalle; non abbiamo uno
spazio a disposizione dove provare; non abbiamo un teatro, ma abbiamo comunque
voglia di lavorare. Per realizzare i video usiamo superfici disponibili: case
prestate da amici, ambienti naturali, strade …
Per il futuro pensiamo di realizzare altre
"carie/storie" con la speranza che il nostro progetto possa
essere un domani apprezzato e sostenuto da qualcuno.
Propongo in questa sede, a questo riguardo, uno di questi brevi lavori: "Il Signor Testa Alta" (sopra). Quante volte una donna incontra nella vita uomini sbagliati? Di quelli tutto fumo e niente arrosto? Tutta apparenza, poca sostanza? Questa è la tematica del video, reso pubblico su youtube. Il tutto è reso con grande ironia e comicità, un modo di dipingere piccole scenette con una vena comica veramente piacevole, ecco quando il teatro fatto bene diventa un importante mezzo di divertimento.
La contadina che s’innamora del
principe; il principe che s’innamora della contadina. Un amore che non può
essere ufficializzato, perché il principe è promesso a un’altra donna. L’amore
che uccide la contadina, che potrà rivedere il suo amato, per l’ultima volta, solo
sotto forma di spettro.
Questa è la sintetica trama della
celebre “Giselle”, con le musiche di Adolphe Adam e con coreografia di Jean
Coralli e di Juler Perrot, ripresa da Yvette Chauviré, andata in scena al
Teatro alla Scala di Milano per diversi giorni consecutivi – io faccio
riferimento allo spettacolo del 13 marzo.
Abbiamo visto una “Giselle” perfettamente
classica e tradizionale, in cui per l’occasione i primi ballerini sono stati Leonid Sarafanov,
nei panni del Principe Albrecht, e Olesia Novikova nel ruolo di Giselle. Ottima
l’interpretazione dei due, soprattutto della seconda, autrice di una prova
impeccabile sotto il piano tecnico e interpretativo. La Novikova è infatti
riuscita a rendere al meglio sia la Giselle contadina, dai tratti spontanei e
ingenui, sia la Giselle Willi, fantasma della notte, dai tratti lirici e
onirici. Anche il pubblico si è dimostrato entusiasta della prova della
ballerina e dell’intero balletto e lo ha salutato con grandi applausi e tanti “Bravo!-
Brava! -Bravi!”. Da non sottovalutare anche la prova del resto delle ballerine
e dei ballerini, tutti ammirevoli sul palcoscenico e sempre armoniosi, sia
nelle prove singole che di gruppo. Tra questi vorrei menzionare Denise Gazzo e
Marco Agostino, che, nel ruolo di contadini, hanno dato luogo a un bellissimo passo
a due: lei agile e leggera; lui muscolare, forse non perfetto tecnicamente, ma
veramente molto caldo nell’ interpretazione, che è arrivata emotivamente agli
spettatori con molta energia e intensità.
L’impianto scenografico è classico:
nel primo intervallo un bosco con una casetta contadina, in cui il bosco è reso
in parte da tendoni dipinti bidimensionali sullo sfondo, in parte da alberi
tridimensionali con tanto di chiome che incorniciano la scena. La casetta è
invece posta a sinistra ed è una struttura praticabile, in cui gli interpreti
entrano ed escono dalla sua porta. Nel secondo intervallo le luci si abbassano:
diventa notte. La casetta non c’è più ed è stata sostituita dalla grande lapide
mortuaria di Giselle. Il bosco invece permane, ma stavolta non ha toni vivaci
come nel primo tempo, ma l’atmosfera è divenuta oscura e misteriosa – il luogo
ideale per la danza delle Willi.
Anche l’Orchestra diretta da Paul
Connelly è stata in linea con il resto della messa in scena: precisa e pulita,
capace di rendere bene la semplicità timbrica e ritmica della musica romantica
di Adam.
Un bel balletto, bravi i ballerini,
organico l’impianto scenico, ottima la prova musicale: tutti gli elementi per
assistere con piacere a questo evento.
Esiste l’impossibile? No, non esiste. Grazie al sogno si può
raggiungere qualsiasi cosa, benché al sogno si aggiunga il mezzo, vale a dire
una concreta volontà di fare, di costruire: la capacità di dare vita all’impalcatura
che regge il sogno e, se questa non viene eretta con saldezza, il sogno diventa
solo una mera illusione.
È un po’ questa l’essenza dello spettacolo “Il volo di
Leonardo”, scritto, diretto e interpretato da Flavio Albanese, andato in scena
al Teatro Strehler del Piccolo di Milano nella minuta Scatola Magica. Leonardo da Vinci è uno dei più grandi geni dell’umanità – che banalità che ho detto. Un
genio che è riuscito a creare, a inventare qualsiasi cosa e tutto questo solo
provando, solo facendo tentativi, solo fallendo! Solo chi fallisce può trovare
una soluzione, perché solo chi agisce fallisce, e solo chi fallisce riuscirà un
giorno a volare! Come lo stesso Leonardo riuscirà alla fine dello spettacolo –
dopo vari tentativi che metteranno a dura prova il suo allievo. Uno spettacolo
che è un monologo, in cui Flavio Albanese interpreta non Leonardo, ma l’allievo
di cui parlavo: Zoroastro. Leonardo non compare mai, ma la sua immagine è resa dal
personaggio in scena, che ne racconta le gesta in una chiave a tratti comica, a
tratti d’intensa liricità, in cui emerge la vasta figura dell’artista –
architetto – ingegnere … del factotum Leonardo, che, certo, di errori ne ha commessi,
ma alla fine è sempre arrivato dove voleva e questo perché mai ragionò come un
uomo comune, ma con la propria mente, la mente di un genio.
Sulla scena ci sono solo pochi oggetti che ricordano Leonardo da Vinci, sopra a tutti una lavagna in cui sta disegnato il grande volto del
maestro. Flavio Albanese ha costruito lo spazio scenico e l’intero impianto
spettacolare molto bene ed è bravo a dialogare col pubblico durante la
rappresentazione, aiutato anche dalle piccole dimensioni della sala, che si
adatta perfettamente a uno spettacolo del genere. L’attore sta sul palcoscenico
per circa un’ora e si fa seguire con piacere, senza annoiare, rubando sorrisi.
Si può dire insomma che l’evento da lui portato non può prendere il nome di
illusione, ma di sogno, perché ha sognato di portare in scena la vita di
Leonardo e lo ha anche fatto costruendo un valido impianto spettacolare, che,
nella sua semplicità, è stato incisivo ed efficace al punto giusto.
Abbiamo parlato di uno spettacolo con soggetto una
particolare "Alice". Sara Bonci ci parla di un'altra
"Alice", stavolta messa in relazione con Amleto ...
Hamlice: saggio sulla fine di una società, penultimo
spettacolo della Compagnia della Fortezza - Amleto, immerso nei suoi pensieri,
dà il benvenuto al suo pubblico con una sorta di lamento di dolore, dimostrando
fin dall’inizio la pazzia del personaggio. Attorno a lui prende vita un mondo
bianco - che rimanda molto a un ospedale psichiatrico - e una serie di altre
strane figure shakespeariane o uscite direttamente dal paese delle meraviglie,
rese incantevoli grazie ai costumi di Emanuela Dall’Aglio e accompagnate
durante tutto lo spettacolo dalle musiche dal vivo di Andrea Salvadori.
L’immensa scena si sposta dall’esterno all’interno, attraverso continui
movimenti degli attori, che non smettono mai di abbandonare i loro spettatori.
L’occhio del pubblico non sa dove muoversi, se all’estrema sinistra, dove un
uomo sta dipingendo una tela, o tra la platea, in cui gli attori secondari si
muovono recitando i propri monologhi, o nel palco, dove Amleto pian pianino si
sta trasformando nella protagonista di Carroll. Dovunque si ponga lo sguardo,
riusciamo a immergerci dentro un incanto, fino alla fine, quando agli
spettatori vengono date delle enormi lettere da poter lanciare in aria. Il
pubblico è travolto dall’emozione: l’emozione di quelle lettere che volano, si scontrano,
libere di creare tutte le parole che vogliono. “Da Amleto ad Alice nel Paese
delle meraviglie, dalla tragedia del potere nel chiuso di un palazzo
all’anarchia di Carroll, al suo mondo alla rovescia e ancora oltre, in un
viaggio di cui non si conosce la fine. La trasformazione è la possibilità di
sottrarsi al proprio ruolo definito per sempre.” Queste sono le parole del
drammaturgo nonché regista Armando Punzo, vincitore del premio Ubu 2010 per lo
spettacolo precedente, che descrivono perfettamente il nucleo dello spettacolo
e il suo messaggio profondo. Amleto/Alice/Punzo è di fronte a noi per
dimostrare che chiunque è sempre in tempo a cambiare, a capovolgere una vita
rinchiusa tra mura vere o illusorie.
INTERPRETI: LESLIE BANKS, JOEL Mc CREA, FAY WRAY, ROBERT ARMSTRONG, NOBLE JOHNSON
EDIZIONE DVD: Sì, distribuito da SIRIO VIDE
Il conte Zaroff, esule politico russo sfuggito alla
Rivoluzione d'Ottobre e rifugiato su una sperduta isoletta nell'oceano, è il
tipico nobile ricco ed annoiato; buon vino, rilassanti sessioni al pianoforte e
opere d'arte da ammirare nel lussuoso salone del castello sono tutti piaceri
secondari, se messi a confronto con la sua unica, vera, grande passione: la
caccia. Anche quest'ultima però, sembra esser diventata semplice routine, per
un uomo che ha cacciato con successo ogni specie d'animale... tranne una. Ecco
l'idea geniale: far naufragare le navi di passaggio sullo stretto che lambisce
l'isola spostando le boe di segnalazione, accogliere e curare gli eventuali
superstiti nel suo vecchio maniero per poi trasformarli, ben rifocillati e
ristabiliti, nelle nuove prede delle sue battute di caccia. Le regole del gioco
sono semplici: i malcapitati, per riottenere la libertà, devono sopravvivere da
mezzanotte all'alba con a disposizione soltanto un coltello da caccia per
difendersi e un giorno di vantaggio per ambientarsi e nascondersi nella fitta
boscaglia che ricopre l'isola. Quando tra i naufraghi arriva, unico
sopravvissuto di un gruppo di amici, il celebre viaggiatore e cacciatore Robert
Rainsford, Zaroff non si lascia sfuggire l'occasione di lanciare la sfida ad un
avversario finalmente degno (sull'abilità dei predecessori di Bob vi sono
dettagliate TESTimonianze nella stanza dei trofei...). Messo alle strette, l'avventuriero si ritrova costretto ad
accettare, insieme alla giovane Eve (altra ospite speciale del generoso
anfitrione), l'offerta del folle nobile, un'autentica partita a scacchi all'
aperto ("outside chess", per dirla con le parole del conte).
Niente fronzoli né deviazioni in questo breve ma densissimo
thriller, raccontato con uno stile sobrio ed essenziale, ancora oggi
sorprendente per audacia e modernità del soggetto (tratto da un racconto di
Richard Connell). La storia, servita in un clima lugubre e allucinato -come gli
occhi perennemente sgranati del conte-, si regge sul gustoso ed ironico
espediente dello scambio dei ruoli (non è certo per caso che proprio ad un noto
cacciatore capiti di dover partecipare alla "CACCIA FATALE", come
recita il titolo altenativo del film), che, se da un lato inserisce una nota di
beffardo humor nero in una sceneggiatura quasi horror, dall'altro contribuisce
ad amplificare nello spettatore l'ansiogena sensazione dell'essere braccato (un
aiuto in tal senso giunge anche dallo splendido, frenetico montaggio della
battuta di caccia finale, nel quale i registi sfruttano abilmente certe
inquadrature in soggettiva che rendono vivida e concreta la fuga dei due
prigionieri). Caldamente consigliato ai cacciatori, ai quali la sceneggiatura
offre gentilmente una riflessione niente affatto scontata: "STAVO PENSANDO
ALL'INCOERENZA DELLA COSIDDETTA CIVILTA': L'ANIMALE DELLA GIUNGLA, CHE UCCIDE
SOLO PER SOPRAVVIVERE, VIENE DEFINITO SELVAGGIO; L'UOMO, CHE UCCIDE PER SPORT,
VIENE DEFINITO CIVILE...", dice l'amico medico a BOB, poco prima di
saltare in aria con la nave (eh, sì, è proprio vero: sono sempre i migliori che
se ne vanno!). La critica è ovviamente estensibile, più in generale, all'intero
genere umano, affetto da un cronico gigantismo antropocentrico che CI porta
troppo spesso ad arrogarci il diritto di stabilire cosa sia legittimo ,cosa sia
"normale"-per Zaroff è normalissimo cacciare, non importa chi o
cosa-, cosa sia civile e via dicendo... Menzione doverosa e speciale per il
personaggio del conte Zaroff -reso ottimamente dal bravo Leslie Banks-, che da
solo vale il prezzo del biglietto: figura enigmatica e contraddittoria (un
sadico sanguinario, ma anche un uomo di cultura al tempo stesso, capace di
mettersi a suonare una delicata partitura pianistica subito dopo aver ucciso un
uomo...lo "zio" Edgar Allan Poe probabilmente approverebbe...),
affascinante e inquietante, strano connubio di logos e istinto, eros e
thanatos; ancora, figura disorientante e urticante per sua stessa natura in
quanto specchio deformante delle pulsioni che probabilmente albergano, sopite,
in ciascun essere umano (non è proprio un santo nemmeno Robert, il quale, alla
giusta tirata moralistica del dottore di cui sopra, replica che la bestia
feroce, allo stesso modo del cacciatore, prova una certa estatica soddisfazione
a misurarsi con l'uomo, a (di)mostrarsi più forte, a sconfiggerlo...quasi
un'apologia dell'atto gratuito fine a se stesso, una confessione aberrante,
un'ammissione di colpevolezza estesa indebitamente alle altre specie animali da
parte di un (tipico?) essere umano.
Certo, operare una lettura nella duplice chiave ecologica e
psicanalitica di questo film può costituire un'operazione indebita, una
forzatura, ma d'altra parte la fruizione dell'arte è un fatto puramente
soggettivo e i valori, le idee, le convinzioni dello spettatore recitano un
ruolo determinate nella ricezione dell'opera. In mancanza di esplicite
indicazioni dell'autore, lo spettatore può a buon diritto sentirsi libero, se
crede, di formulare tutte le congetture (perché di questo si tratta, semplici
ipotesi interpretative, riflessioni personali senza alcuna pretesa oggettiva e
generalizzante) che ritiene legittime ed è quindi per questo motivo che non può
essere considerato improprio e iperbolico definire "LA PERICOLOSA PARTITA"
un film contro la caccia (in quanto manifestazione della violenza umana,
simbolo del residuo irrazionale ed istintuale che vive ancora nel cervello
umano, in coabitazione con il raziocinio).
Due remakes, "A GAME OF DEATH" di Robert Wise nel
1946 e "LA PREDA UMANA" di Roy Boulting nel 1956, per un film che ha
fatto scuola.Un gioiellino dimenticato da riscoprire, curioso in quanto
preludio -quasi una prova generale- al successivo lavoro di Schoedsack, la
pietra miliare "KING KONG" del 1933:la tensione costante,
l'ambientazione esotica, il senso dell'orrore sono tutti elementi riscontrabili
in entrambe le pellicole.
L'edizione DVD italiana, come purtroppo accade spesso, è
molto carente sul versante audio, proponendo un doppiaggio mediocre e commenti
musicali spuri rispetto a quelli originali; molto meglio optare per l'inglese
sottotitolato.
Una particolare Alice nel paese delle meraviglie e
l'autobiografia di una giovane ballerina concludono, venerdì 2 marzo, la
rassegna di teatro-danza "Invito di Sosta" al Teatro Comunale di
Castiglion Fiorentino, organizzata da Sosta Palmizi.
Alice's room _ versione duo
In "Alice's room_versione duo" di Giovanna
Velardi, con Alice Zanoni e la stessa regista, il palcoscenico è diviso
simbolicamente in due livelli di profondità da una rete. I toni della luce sono
cupi e severi. Nel piano più vicino al pubblico una donna si guarda con vanità
a uno specchio e si muove con gesti frenetici e malati: è la malattia del
potere che l'affligge, mentre, sullo sfondo, si muove con danza dolce e
delicata Alice: anche lei ha uno specchio, ma il suo non è lo specchio della
malattia, ma lo specchio del Sogno, quel Sogno che l'aiuterà a distruggere il
male: il malefico potere della regina. Inizialmente le danzatrici ballano
solitariamente e pian piano si avvicinano, arrivando infine a scontrarsi, in un
“duello” in cui Alice rimane intrappolata dentro la stessa rete divisoria,
divenuta ora un'arma. Ma poi riesce a liberarsi, le luci si schiariscono ed
escono dalla loro cupezza: Alice vince!
Il Sogno vince, quel Sogno che, in questo spettacolo come nella vita, seppur
nella sua apparente inconsistenza, si rivela più forte di qualunque
concretezza, di qualunque autorità.
Non sono riuscito a entrare in tutto e per tutto dentro questa
mise en scène - d'altra parte la mia
formazione teatrale solo in piccola parte dedita alla danza mi allontana dal
capire nella sua interezza i movimenti ballati. Nonostante questo lo spettacolo
mi è sembrato ben costruito, piacevole e fluido. Niente è stato lasciato al
caso e si nota una grande attenzione nella fase realizzativa. Brave anche le
performer, delle volte in conflitto, delle volte più vicine, anche se sempre in
una condizione di isolamento: il Sogno non può scendere a compromessi con
l'autorità!
Nella seconda pièce una ragazza sta al centro della scena e
ci racconta la sua carriera di ballerina accompagnata da vicende della sua vita
privata, sopra a tutto i particolari sui suoi amori passati. Si tratta di
"P.s. Martina La Ragione", con coreografia e regia di Simone Sandroni
e creazione e interpretazione di Martina La Ragione.
Un guardaroba sullo sfondo è "l'armadio" personale
di Martina, da cui attinge per le sue "trasformazioni", per portarci
da una vicenda della sua esistenza all'altra. Martina è sia protagonista del
palcoscenico che protagonista del "dramma" e ce lo racconta partendo
proprio dagli inizi: da quando era bambina, quando faceva le sue prime
coreografie di danza. Il tutto è narrato con un misto di comicità e tragicità,
in cui gli amori della ragazza hanno un ruolo fondamentale nei suoi scuotimenti
emotivi, che l'accompagnano, nel bene o nel male, per tutta la vita, facendola
crescere, trasformandola, facendola donna!
P.s. Martina La Ragione
La messa in scena a dire il vero ha un problema di fondo:
non è organica. Gli elementi scenici non sono incastrati sapientemente tra di
loro, ma sembrano essere stati inseriti tramite un criterio estetico e di gusto
e non tanto prendendo in considerazione l'intero impianto spettacolare. Anche
la sceneggiatura è povera e non riesce a uscire da quella banalità tipica
quando si tratta argomenti difficili da raccontare in modo originale. Anche la
musica è un problema, perché sembra essere inserita senza un regolare criterio
di entrata e di uscita. Anche un piccolo e sfortunato "incidente" ha
contrassegnato questo evento: alla fine vengono proiettate foto reali della
protagonista – espediente che non è stato di mio gusto, l'ho visto un po' come
un ricercato, facile e forzato modo di trovare il contatto empatico con il
pubblico, un po' come in musica si fa uso della settima diminuita per destare
pathos - e, proprio all'accensione del proiettore, sul pannello, è apparsa una
poco elegante marca dell'apparecchio.
La mia opinione è solo quella di un umile critico che
potrebbe benissimo sbagliarsi, ma, sia che il mio parere sia condiviso
collettivamente o meno, invito gli artisti a rivedere la loro creazione,
affinché possano raggiungere maggiore organicità e omogeneità.
Alice’room_versione duo
di Giovanna Velardi
con Alice Zanoni , Giovanna Velardi
disegno luci Danila Blasi
costumi Dora Argento
Musiche AAVV
P.s. Martina La Ragione
Deja Donne
coreografia e regia Simone Sandroni
creazione e interpretazione Martina La Ragione
scenografia a costumi Lenka Flory
disegno luci Tomiko Arai promo video Elisa Chianella
Essere immortale, vivere per interi secoli, essere nato uomo,
svegliarsi un giorno donna. Questa la storia di Orlando, personaggio creato
dalla penna di Virginia Woolf, portato in scena in "La commedia di Orlando", con regia e drammaturgia di Emanuela Giordano. Si tratta di un personaggio totale, un gentiluomo che cerca con insistenza il senso della vita; un senso che sembra non giungere mai, almeno fino alla fine, quando, finalmente, sarà l'amore a dare serenità all'anima di un Orlando diventato oramai donna.
Il/la protagonista vive tutta la sua interminabile vita - inframezzata da lunghi sonni - a inseguire qualcosa che non sa neanche lui/lei. Orlando insegue la pace interiore che non sa come raggiungere; il suo spirito amletico pieno di dubbi è irrefrenabile e lo guida alla scoperta dell'umanità - un'umanità che non cambia con il cambiare dei secoli, ma che rimane sempre la stessa. Motivo portante di tutta la pièce è l'importanza che riveste l'Arte per l'Orlando scrittore e Poeta, per l'Orlando sognatore dell'immortalità artistica, che riuscirà a raggiungere grazie alla grande opera da lui stesso creata: "La Quercia", che alla fine riuscirà anche a pubblicare.
La scenografia è molto interessante, dove delle scalinate poste nei diversi piani costruiscono lo spazio. Quando i personaggi in scena devono muoversi per dare luogo a immaginari spostamenti geografici, fanno uso di queste scalinate, disposte anche sullo sfondo, ed è molto suggestivo nel momento in cui questo accade nella penombra, dove gli attori - che rappresentano gli amici di corte di Orlando - portano in mano lanterne sprizzanti di luce. Tutta la vicenda è accompagnata ininterrottamente da intensi motivi di musica colta - suonata dal vivo dietro le quinte. Effetto questo che rafforza l'intento onirico del complesso, rafforzandone anche la poeticità.
Lo spettacolo risulta complessivamente ben organizzato. Buona anche la prova degli attori, anche quella della protagonista Isabella Ragonese, nei panni di Orlando.