29 marzo, 2012

"L'apparenza inganna" ... Siamo proprio sicuri di quello che siamo?



Teatro Signorelli di Cortona. Mercoledì 28 marzo 2012

Tullio Solenghi e Maurizio Micheli
Fingersi omosessuale per recuperare il lavoro perduto. Parte tutta da questa considerazione la vicenda di  François Pignon (Maurizio Micheli), da decenni contabile della “Sicurex”, un’industria di preservativi. Licenziato perché non giudicato all’altezza “di giocare nella squadra di Rugby dell’azienda”, e allo stesso tempo anche lasciato dalla moglie (Sandra Cavallini), sarà riassunto solo quando, su consiglio del nuovo vicino di casa (Enzo Saturni), tramite delle foto false mandate anonime al vecchio luogo di lavoro, si fingerà omosessuale, costringendo il presidente della “Sicurex” (Adriano Giraldi) a riassumerlo per evitare un grande scandalo.  François diventerà  così un personaggio prezioso per l’azienda e per i media, tanto è vero che sarà portato come icona fondamentale dal mondo omosessuale.  Tullio Solenghi  ha invece la parte dell'amministratore del personale dell’azienda, ed è lui a decidere di licenziare l’impiegato. L'amministratore è inizialmente un uomo che rifiuta che altri uomini possano avere altre tendenze sessuali: è quasi un omofobo, ma poi, a seguito della vicenda di François, non solo cambierà idea, ma troverà in sé stesso la sua parte di omosessualità che fino a quel momento si era mascherato.
La vicenda gira anche intorno a un’altra figura: l'impiegata dell’ufficio (Fulvia Lorenzetti), la “bellona” della “Sicurex”, a cui tutti fanno la corte, ma a cui lei non cede mai, neanche agli altri due colleghi (Paolo Gattini e Matteo Micheli) che fanno di tutto per conquistarla. Cederà alla fine solo a François, o meglio, lui cederà a lei, togliendosi finalmente la maschera che si era messo – una maschera che, tra l’altro, gli ha anche permesso di guadagnare la stima del figlio (Massimiliano Borghesi), che vede ora il padre come una sorta di eroe.
Il tutto si conclude con tutti i personaggi della scena che vanno in corteo a una festa-gay accompagnati dalla musica dei "Village People", come a volerci dire: “l’apparenza inganna, a dire il vero tutti noi abbiamo dentro qualcosa che non ha a che vedere con la tendenza sessuale a cui eravamo sicuri di essere predestinati”.
Questa è un po’ la trama sommaria di “L’apparenza inganna”, di Francis Veber, con la regia di Tullio Solenghi. Si tratta di una “commedia semplice”, dai ritmi comici ben innescati e ben giocati, che hanno fatto divertire il pubblico del teatro cortonese.
Molto interessante è la scenografia di questo spettacolo, una scenografia divisa in due piani, visibili al pubblico a intermittenza:  nel piano di sopra è la casa di François Pignon il luogo scenico, mentre nel piano basso si oscilla tra gli uffici della “Sicurex” e il ristorante “Il Becco Giallo”, dove vengono rappresentate varie azioni.
Una commedia senza tante pretese e il cui unico risultato deve essere quello di saper far ridere, e ci è riuscita, grazie all’ottima interpretazione degli attori in scena, sopra a tutti i protagonisti Tullio Solenghi e Maurizio Micheli, senza togliere comunque niente a tutti gli altri.

L’apparenza inganna
Di Francis Veber
Adattamento di Tullio Solenghi e Maurizio Micheli
Regia Tullio Solenghi
Scene Alessandro Chiti
Costumi Andrea Stanisci

Musiche Massimiliano Forza
Arrangiamenti Fabio Valdemarin
Disegno luci Filippo Caselli
Con:
Massimiliano Borghesi
Sandra Cavallini
Paolo Gattini
Adriano Giraldi
Fulvia Lorenzetti
Matteo Micheli
Enzo Saturni

Stefano Duranti Poccetti

28 marzo, 2012

"Dall'altra parte" di Antonio Castaldo. Finalmente in visione!



Era lunedì 26 dicembre quando parlavo del cortometraggio creato da Antonio Castaldo "Dall'altra parte". A quel tempo non ebbi la possibilità di metterlo in visione sul Corriere, perché ancora non reso pubblico. Finalmente il video del corto si trova su Youtube, ed è così che adesso posso mostrarlo al nostro pubblico di lettrici e di lettori. 



Dall’articolo di lunedì 26 dicembre:

Dall'altra parte
Idea e sceneggiatura di Antonio Castaldo
Regia di Antonio Castaldo e Pierfrancesco Bigazzi
Fotografia di Rossano Dalla Barba
con Eleonora Angioletti, Ciro Gallorano, Biga Ion, Piero Matteini e Umberto Rossi


Un ragazzo (Ciro Gallorano) si muove lungo un viale. Si sente disperato, malato! Ma di cosa? Della Diversità. Quella diversità che è ancora più pesante di un male fisico o psicologico: la diversità è un malessere ancora più profondo e "astratto". Si muove, cammina con passo tranquillo/ansioso e, lungo il percorso, entra in contatto con una serie di visioni: un omosessuale (Biga Ion) seduto su di una panchina, un vecchio (Piero Matteini), una ragazza (Eleonora Angioletti), che lo guarda con occhi profondi; si scontra poi con una massa di persone che, correndogli addosso, quasi lo sovrasta. Una serie di visioni, una serie d'incontri che alimentano l'angoscia del personaggio che, alla fine, dopo un climax ascendente di sfogo, si trova al telefono per spiegare ancora il suo malessere, un malessere che però, finalmente, saprà superare: potrà finalmente vivere con la sua diversità!

Questo è "Dall'altra parte" - proprio perché alla fine solo il saper riconoscere la propria diversità ci porta verso la salvezza - di Antonio Castaldo, un cortometraggio presentato mercoledì 21 dicembre al "Cinema Eden" di Arezzo in occasione della rassegna "Invisibili". Il corto è girato quasi interamente in bianco e nero e, solo nel finale, in cui il protagonista riesce a impossessarsi della sua vita e della sua diversità, il video simbolicamente si colora. "La paura rende prigioniero, la speranza può renderti libero": la scritta di apertura che appare sullo schermo, poi, dopo alcune immagini iniziali introduttive, il corto entra nel vivo, quando vediamo Ciro Gallorano camminare lungo il detto  viale - si tratta di quello della Facoltà universitaria di Lettere e Filosofia di Arezzo. Le immagini scorrono e nel sottofondo sentiamo la voce narrante dello stesso attore che con un monologo di grande intensità poetica e psicologica ci parla della sua condizione di "inetto", fino ad arrivare al punto della chiamata, dove termina la narrazione fuori-campo, mentre vediamo e sentiamo l'attore parlare al telefono cellulare, quando si è definitivamente svincolato dalle prigioni delle sue paure per liberarsi grazie alla speranza.
Questo è il primo lavoro cinematografico di Antonio Castaldo - regista nato a Napoli ma residente ad Arezzo - di cui già s'intuiscono le grandi capacità tecniche e, soprattutto, la facilità di trasporre i propri concetti interiori all'interno di uno schermo. Castaldo ha già altri ambiziosi progetti per il futuro e se continuerà su questa linea farà sicuramente molta strada.


Stefano Duranti Poccetti

25 marzo, 2012

VIAGGIO ATTRAVERSO L'IMPOSSIBILE - sogni di cinema, a cura di Francesco Vignaroli. Terza puntata, "Il Ladro" di Alfred Hitchcock, "Anche l'onestà può diventare colpevole".



IL LADRO 
(the wrong man)


USA, 1956 105' B/N


REGIA : ALFRED HITCHCOCK

INTERPRETI : HENRY FONDA, VERA MILES, ANTHONY QUAYLE, CHARLES COOPER, HAROLD J. STONE

EDIZIONE DVD : Sì, distribuito da WARNER HOME VIDEO (edizione estera con traccia audio in italiano)

A chi non è capitato, almeno una volta nella vita, di essere scambiato per qualcun altro?  Nel caso di Emmanuel "Manny" Balestrero, contrabbassista in un locale notturno, le conseguenze di questo errore si riveleranno tragiche. Manny, uomo onesto e appassionato al proprio lavoro, vive insieme alla moglie e ai due figlioletti un'esistenza relativamente tranquilla e felice; l'unico problema è una perenne mancanza di denaro, alla quale la coppia riesce ad ovviare con un approccio positivo ed ottimista nei confronti della vita. I guai cominciano quando Manny si reca in un'agenzia di assicurazioni per chiedere un prestito come anticipo sulla polizza della moglie, bisognosa di cure mediche costose. Scambiato dalle impiegate dell'assicurazione per il rapinatore che ha messo a segno diversi colpi nel quartiere, viene denunciato e la sera stessa arrestato dalla polizia. E' l'inizio di un'odissea che porterà Manny fino al processo, in mezzo a disagi ed umiliazioni di ogni tipo. La moglie Rose, nel frattempo, duramente provata dalla situazione, crolla e finisce ricoverata in clinica per un grave esaurimento nervoso che la porta alle soglie della pazzia. Incastrato da circostanze incredibilmente sfortunate -per vari motivi tutte le persone che potrebbero scagionarlo risultano irreperibili; la perizia calligrafica sembra inchiodarlo; i testimoni oculari delle rapine concordano nel riconoscerlo come il delinquente- nonostante l'assistenza di un avvocato tenace e comprensivo, Manny sembra destinato ad una sicura condanna; solo un errore del vero malvivente (neanche troppo somigliante al nostro protagonista), che gli costa la cattura in un negozio di generi alimentari, rimetterà le cose a posto.

Tratto da un fatto di cronaca realmente accaduto, è il film più umile, asciutto, anti-spettacolare e (solo apparentemente) dimesso del regista, un episodio del tutto anomalo e per questo interessante nell'itinerario artistico di "Hitch", distante anni luce dalle super produzioni  giallo/thriller hollywoodiane che verranno e che garantiranno al maestro l'etichetta di "mago del brivido". Sono le tonalità del grigio e gli accordi in minore le coordinate sensoriali dominanti in questa piccola grande opera, girata senza orpelli e a tratti quasi neorealista, attraversata da un'atmosfera  mesta e pessimista che impone un'assoluta austerità, sottolineata dalla rinuncia di Hitchcock ai suoi amati "cameos" (il regista, molto eloquentemente, si concede soltanto un breve prologo introduttivo nel quale avverte gli spettatori che in questo film non ricorrerà ai consueti registri narrativi funzionali alla creazione della tipica atmosfera hitchcockiana, bensì, trattandosi di una storia tratta da un caso vero, si limiterà ad attenersi alla realtà pura e semplice, di per sé di gran lunga superiore a qualunque sforzo di immaginazione).
C'è poco da spettacolarizzare, in effetti, in questa desolante e sconsolata cronaca del calvario di un uomo qualunque che di punto in bianco si vede stravolgere la propria esistenza senza una ragione comprensibile: è il CASO, l'agente autarchico per eccellenza, l'eterna variabile incalcolabile, a muovere gli ingranaggi della vita. Non c'è teodicea o ratio che tenga di fronte all'ingiustificabile e inspiegabile punizione che arriva a colpire un innocente: il caso dà, il caso toglie. In mezzo sta l'uomo, in balia degli elementi, spettatore  impotente (purtroppo) della propria vita, partecipante ad un gioco di cui non gli è concesso conoscere le regole.


A dare forma e sostanza alla visione hitchcockiana della condizione umana provvede con una formidabile prova Henry Fonda, abilissimo, nonostante fosse già un attore affermato, ad annullarsi fino ad assumere le sembianze dell' "uomo della porta accanto" attraverso una recitazione essenziale, misurata, asciutta, che lascia spesso agli sguardi il compito di esprimere ciò che nessuna parola potrebbe. Il suo Manny è un onest'uomo qualunque credibilissimo, nel quale diventa facile identificarsi (come negare che il senso di colpa, la paura della colpa, è uno dei tormenti universali dell'uomo? Rose impazzisce schiacciata da esso e lo stesso Hitchcock sembra particolarmente ossessionato dall'argomento,il quale ricorre come tema portante in altri suoi film, "VERTIGO" e "IO TI SALVERO' " su tutti), specie per chi ha vissuto esperienze analoghe anche se in scala ridotta; essere accusati ingiustamente, magari per piccole cose, è del resto un'esperienza piuttosto comune. Al cospetto del caso, nemmeno la certezza di compiere quotidianamente il proprio dovere e di procedere quindi nel percorso della rettitudine morale, offre all'uomo garanzie di riparo dalla sventura; in quest'ottica, assumono una forte valenza critica ed ironica (almeno agli occhi di chi scrive), i vari riferimenti alla religione, retaggi della robusta educazione cattolica -gesuita- ricevuta dal giovane Hitchcock: la madre che raccomanda a Manny di pregare per il processo; Manny che segue il dibattimento rigirandosi un rosario tra le mani, lo stesso che gli viene pietosamente lasciato dalla guardia carceraria al momento di entrare in prigione; la testimone d'accusa, che in una sorta di inquietante imitazione del bacio di Giuda a Cristo si reca a toccare il colpevole in aula, su richiesta del pubblico ministero... è il protagonista stesso a mettere in chiaro le cose quando, alla madre che lo esorta a pregare Dio affinché gli conceda la forza di affrontare il processo, replica laconicamente: "NON VEDO CHI MI POTRA' AIUTARE, SE NON AVRO' UN PO' DI FORTUNA!" E la fortuna (forse l'intervento di Dio, secondo il regista? Il dubbio in merito all'opinione di Hitch rimane, dato che alla scena dell'arresto del criminale antepone l'inquadratura di un'immagine del Cristo che Manny osserva con sguardo supplice) arriva subito dopo, con la maldestra rapina che costa la libertà al bandito. E' sempre la casualità dunque, in una sorta di processo circolare, che così come aveva dato origine all'apertura del cerchio (Manny scambiato per il bandito dalle impiegate dell'assicurazione), perviene alla sua chiusura (il "cattivo" compie un errore, si fa catturare da un negoziante, viene poi riconosciuto come il vero colpevole dallo stesso poliziotto che aveva arrestato Manny, fine dell'incubo). Seppure spettino dunque al caso le responsabilità -nel bene ma soprattutto nel male- maggiori in questa vicenda, non possono però venir meno le mancanze e la complicità della giustizia da un lato e delle persone comuni (testimoni d'accusa soprattutto) dall'altro. Quali garanzie di equità e affidabilità offre un sistema giudiziario che istruisce un processo "a diritto rovesciato", dove l'onere della prova spetta alla difesa anziché all'accusa (sì, perché, nonostante siano fallaci, tutte le argomentazioni dell'accusa paiono convincenti, e questo obbliga l'innocente a produrre vere prove contrarie, atte a neutralizzare quelle false)? Quale credibilità può vantare un corpo di polizia che dà prova di tale superficialità nel condurre le indagini (la ridicola perizia calligrafia, gli approssimativi confronti tra indiziati e testimoni, le umilianti passerelle del sospetto nei luoghi del delitto)? Quale pofessionalità dimostra un pubblico ministero che riporta come prove schiaccianti, travisandole completamente, le dichiarazioni rese dall'imputato (l'innocente passione di Manny per le corse dei cavalli diventa automaticamente un pretesto per insinuare che sia un giocatore incallito con ingenti debiti verso gli allibratori)? Se la macchina della giustizia assume qui gli inquietanti connotati del leviatano (a quale prezzo la giustizia?), non va certo meglio se ci si sofferma sul comportamento delle persone comuni: di quanta incoscienza e superficialità bisogna essere forniti, per accusare un uomo dopo averlo riconosciuto -una delle impiegate dell'agenzia- senza neanche averlo guardato (e non che gli altri testimoni abbiano proceduto ad un'identificazione tanto meno frettolosa)? Di quale autorità morale può godere un giurato che si rivolge in maniera tanto sprezzante e faziosa verso la Corte (circostanza abilmente sfruttata dal difensore di Manny per chiedere ed ottenere la ricusazione della giuria)? Con quale coraggio le testimoni potranno guardare Manny negli occhi (e infatti non ci riescono, liquidando il momento imbarazzante con finto sdegno) dopo aver appreso la verità? Come mai non hanno nemmeno la decenza di pronunciare due parole di scusa? Non c'è nulla che possa indurre all'ottimismo, in questa storia: tutto si risolve positivamente, ancora una volta, soltanto grazie al caso e non certo all'uomo! Quante probabilità di uscirne indenne avrebbe avuto Manny, pur con tutta la volontà e la forza di questo mondo, se il vero colpevole non fosse stato catturato e avesse dovuto quindi contare SOLO sulle proprie risorse? Sta proprio in questa amara constatazione il cuore del messaggio pessimistico di fondo trasmesso dal film: l'uomo non è padrone del proprio destino. Coerentemente a tale assunto, pur ritrovandosi costretto, data la volontà di attenersi ai fatti, a raccontare il lieto fine della storia, Hitchcock decide di affidare il finale ad un'asettica didascalia di chiusura, priva persino del commento sonoro trionfalistico di prassi. E' questa l'esposizione più fedele ed efficace di una conclusione felice solo formalmente: un'esperienza così terribile non può non lasciare strascichi psicologici permanenti in colui che l'ha vissuta e non basta un'assoluzione a cancellare le umiliazioni, i soprusi e le sofferenze patite da una mente che porta ormai impresso a fuoco il marchio dell'ingiustizia, come testimoniano gli occhi smarriti, stremati, increduli di Manny anche dopo aver saputo che il suo supplizio è finito (in quella che è forse la scena più intensa del film, il nostro si ritrova faccia a faccia col suo "carnefice", al quale riesce solo a dar la colpa dell'esaurimento della moglie, senza particolare enfasi né rancore, tale è lo stato di prostrazione in cui si trova Manny).
Viene spontaneo, almeno per lo spettatore italiano, stabilire un parallelo tra il film e quello che nella memoria collettiva del Paese rimane forse l'esempio più celebre di malagiustizia: il caso Tortora. Per un grossolano errore di valutazione nel corso di un'indagine su fatti di camorra (durante un sopralluogo in casa di un camorrista, viene rinvenuta un'agenda telefonica con su scritto, accanto ad un numero telefonico, il nome "TORTONA", poi scambiato per "TORTORA"), avviata sulla base delle dichiarazioni mendaci di alcuni pentiti, il noto giornalista e conduttore ligure fu arrestato, in un clima da gogna mediatica e nell'incredulità generale, il 17 giugno 1983, con l'accusa di associazione a delinquere di stampo camorristico; un'agendina col nome storpiato, alcune dichiarazioni di pentiti: tutti qua gli indizi sui quali si resse l'impianto accusatorio. Anche in questa circostanza fu il caso, agevolato dall'inefficienza della giustizia e dal pregiudizio della gente (semplicemente impressionante il clima giustizialista che pervase gran parte dell'opinione pubblica e della stampa dell'epoca), a sparigliare le carte di una vita intera, purtroppo in modo irreversibile : solo più di tre anni dopo, il 15 settembre 1986, arrivò l'assoluzione in appello per un uomo che aveva subito sette mesi di carcere e una condanna in primo grado a dieci anni di reclusione. Ma quello che il 20 Febbraio 1987 si ripresenta al pubblico televisivo con la sua amata "PORTOBELLO" è un individuo quasi irriconoscibile: invecchiato e recante nello sguardo i segni di una sofferenza indicibile, Tortora è la personificazione della sua stessa tragedia. Gli occhi acquosi di Manny assomigliano fin troppo nettamente a quelli immortalati in primo piano dalla telecamera di Raiuno quella sera di febbraio, e sono occhi che dichiarano a chiare lettere che nulla più sarà come prima. Sulla vicenda Tortora il regista Maurizio Zaccaro ha girato nel 1999 il discreto film "UN UOMO PERBENE ", con Michele Placido nei panni del protagonista.

Francesco Vignaroli 

23 marzo, 2012

"Questi Fantasmi" o l'immortalità del classico



Teatro Signorelli di Cortona. Martedì 20 marzo 2012


da sinistra: Piero Pepe e Carlo Giuffré
Essere convinti che ci siano fantasmi all'interno di un grande appartamento e che questi diano in dono molte somme di denaro, quando invece quelli non sono fantasmi, ma il terribile gioco che la moglie e l'amante tramano alle tue spalle: questa è la sorte di Pasquale Lojacono, non a caso definito "anima in pena". La trama di "Questi Fantasmi" di Eduardo De Filippo è fin troppo famosa perché se ne dia una spiegazione completa, quello che a noi interessa è che il classico non muore mai e che, nonostante il teatro abbia preso strade molto diverse da quelle tradizionali, ancora, quando nel boccascena vediamo davanti ai nostri occhi le scene del teatro napoletano del Novecento, siamo invasi da un grande incanto. Il teatro classico non morirà mai, sarà affiancato da altre correnti drammaturgiche - che in futuro otterranno anch'esse il titolo di "classiche" - ma non morirà mai, perché avrà sempre qualcosa da dirci, qualcosa da trasmetterci, soprattutto quando lo sviluppo del dramma è intrapreso da un gruppo di attori validi, come fortunatamente ho potuto ammirare io martedì 20 marzo al Teatro Signorelli di Cortona.
D'altra parte questo tipo di teatro è "teatro d'attore" ed è quindi fondamentale che gli interpreti siano perfettamente in sintonia con il testo scritto e gestuale. Certo è che Carlo Giuffré - regista della messa in scena - è una certezza nei panni del protagonista, sempre emotivo, caldo, attento al timbro della voce, attento alla gestualità e alla costruzione ritmica dello spazio. Mi è piaciuta molto la prova di tutti gli attori, e mi piace ricordare quella di Maria Rosaria Carli, nei panni di Maria, moglie di Pasquale. Maria è una bellissima giovane donna che ha amato un marito molto più vecchio di lei, ma che non riesce più ad amare, anche perché innamorata di un altro uomo: Alfredo Marigliano (interpretato da Paolo Giovannucci molto bene) ed è straordinario come riesce a rendere al meglio l'ambiguità del suo sentimento: da una parte vuole stare con il marito, benché dentro di sé lo consideri un fallito nella vita, dall'altra vuole seguire la sua passione e scappare via, cosa che non farà per un atto di pietà di Alfredo, il "fantasma" di Pasquale. La Carli nella sua interpretazione riesce ad arrivare a un risultato non semplice: non fa di Maria una donna peccaminosa e negativa, ma anzi è, come dice De Filippo una "anima perduta", che tradisce colpita da un senso di vuoto interiore, senza intenzioni malvagie nei confronti di Pasquale. Mi dispiace non poter parlare di tutti gli attori, ma mi accontenterò di dire che la componente attoriale ha fatto un ottimo lavoro nel suo complesso e che quindi sia le attrici che gli attori si sono comportati tutti molto bene.
Qualcosa da ridire invece sulla costruzione scenica. La scenografia è composta dalla grande sala dell'appartamento, accompagnata ai lati dall'apertura di due balconi in primo piano. C'è qualcosa che geometricamente non funziona in questa disposizione, è come se il mio occhio senta come forzati quei due balconi disposti a quel modo, come del resto il mio occhio ha reputato abbastanza fastidiosi quegli schizzi d'immagini digitali che delle volte sono stati proiettati per dare vita a certe sensazioni. Quegli schizzi l'ho sentiti come spruzzi di colore insensati e causa di rovina su un bel quadro.
In ogni caso nel complesso posso dire di avere visto un bello spettacolo, in cui gli attori hanno giocato il ruolo fondamentale. D'altra parte si tratta di teatro d'attore e il resto delle componenti sceniche può cadere in secondo piano.

Questi Fantasmi
di Eduardo De Filippo
regia Carlo Giuffré
luci Umile Vainieri
scene e costumi Aldo Terlizzi
musiche Francesco Giuffré
Personaggi e interpreti (in o. di e.):
Raffaele, portiere (anima nera) - Piero Pepe
due facchini (anime condannate) - Giuseppe Piacquadio e Pietro Meglio
Gastone Califano (anima libera) - Claudio Veneziano
Pasquale Lojacono (anima in pena) - Carlo Giuffré
Carmela, sorella di Raffaele (anima dannata) Antonella Lori
Maria, moglie di Pasquale (anima perduta) - Maria Rosaria Carli
Alfredo Marigliano (anima irrequieta) - Paolo Giovannucci
Armida, moglie di Alfredo (anima triste) - Antonella Cioli
Silvia e Arturo, loro figli (anime innocenti) Pina Perna e Francesco D'Angelo
Saverio Califano, maestro di musica - Giuseppe Sala
Il professor Santanna (anima utile, ma non compare mai)

Stefano Duranti Poccetti

22 marzo, 2012

"Santa Giovanna dei Macelli". Il primo connubio Ronconi - Brecht funziona al meglio!


Piccolo Teatro Grassi, Milano. Mercoledì 13 marzo

Chicago, 1929: la crisi economica colpisce l'America e il mondo intero. Operai perdono il lavoro e muoiono di fame, mentre gli imprenditori non si comportano con umiltà davanti a questa catastrofe, ma anzi, accecati dalla loro sete di ambizione e di guadagno, si disinteressano dei lavoratori, a favore dei loro illegittimi affari. Mauler (Paolo Pierobon) è uno di questi capitalisti, un pezzo grosso dell'industria della carne macellata, da cui dipendono tanti altri imprenditori, che non fanno altro che contrattare prezzi e merci, senza pensare minimamente ai loro ex operai - licenziati - caduti in disgrazia. C'è solo un'anima buona in questa vicenda, una sognatrice con l'intento di salvare l'umanità dalla miseria: Giovanna D'Ark (Maria Paiato) - palese il riferimento a Giovanna D'Arco - che cercherà di moralizzare gli imprenditori tramite la parola di Dio e, se a un certo momento la sua parola sembra avere la meglio, in un secondo le cose ricadono nuovamente, e anche lo stesso Mauler, che inizialmente aveva sembrato ascoltare i consigli della donna, si ridà proprio nel finale all'avidità per gli affari   che l'aveva contrassegnato all'inizio. La morte di Giovanna conclude la pièce e il suo nome viene fatto santo, di una santità di scherno però: Santa Giovanna dei Macelli.
Si tratta della prima regia di Luca Ronconi su un testo brechtiano e si può dire che questo primo tentativo sia stato molto felice. La scena è contrassegnata da una gru sulla sinistra in cui si ergono tutte le figure del potere - come Mauler o il capo dei Cappelli Neri Lennox (Michele Maccagno), vale a dire quell'ordine che dovrebbe servire nella parola di Dio, ma che in realtà vuole salvaguardare solo i suoi interessi materiali, in cui la stessa Giovanna si trova all'inizio per poi in seguito distaccarsene. La gru è il simbolo del "potere sociale", del potere esercitato nella forza della propria autorità convenzionale, un'autorità che alla fine diventa oggetto di stupidità. Giovanna salirà sulla gru solo al momento della morte, quando gl' imprenditori ce la metteranno per decretarla ironicamente santa. Gli uomini di affari sono simbolicamente tutti racchiusi dentro dei barattoli di carne in scatola - sono proprietari di fabbriche di questi oggetti: hanno perso ormai la loro umanità, non sono soltanto uomini che pensano ai loro prodotti, ma lo sono materialmente diventati. Solo Mauler non è racchiuso dentro uno di questi barattoli, lui d'altra parte dimostra in certi frangenti del dramma di essere ancora un uomo, ma non abbastanza per restarlo per sempre. I Cappelli Neri sono significatamente illustrati con costumi da soldati: difendono la parola di Dio con la forza e non solo: difendono i loro interessi con la forza, prendendo solo come un pretesto la parola di Dio. Gli operai sono invece rappresentati nella loro più terribile miseria, costretti a rinunciare al rispetto altrui per guadagnare qualche soldo o addirittura per mangiare una minestra. Sulla scena è disposto anche un pannello per proiezioni video - supportato da una serie di "televisioni" in primo piano, in cui passano le immagini. Molti video vengono proiettati e il loro contenuto, spesso simbolico, si relaziona con gl'interventi dei personaggi sulla scena. 
Unica piccola pecca che ravviso in questo spettacolo è la mancanza di un unico registro recitativo. Gli attori si comportano molto bene singolarmente, ma con tecniche diverse tra loro. Sopra a tutto emerge il fatto che la Paiato fa uso di un tipo di recitazione tipicamente brechtiana di estraniamento seguendo i canoni del Teatro Epico, mentre  Pierobon sembra veramente vivere appieno il suo personaggio, facendo pensare al più comune metodo di Stanislavskij. 
In ogni caso si tratta veramente di un'ottima opera d'insieme di cui il Maestro Ronconi può sentirsi a parer mio pienamente soddisfatto.

Piccolo Teatro Grassi
dal 28 febbraio al 5 aprile 2012
Santa Giovanna dei macelli
di Bertolt Brecht
traduzione Ruth Leiser e Franco Fortini
regia Luca Ronconi
scene Margherita Palli
costumi Gianluca Sbicca
luci A. J. Weissbard
musiche a cura di Paolo Terni
interventi filmici Emanuele Di Bacco, Nicolangelo Gelormini
con (in ordine alfabetico) Francesca Ciocchetti, Roberto Ciufoli, Gianluigi Fogacci, Giovanni Ludeno, Michele Maccagno, Alberto Mancioppi, Francesco Migliaccio, Massimo Odierna, Maria Paiato, Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi, Elisabetta Scarano
una produzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, The State Academic Maly Theatre of Russia, Mosca
in collaborazione con Centro Sperimentale di Cinematografia - Sede Lombardia
per gentile concessione dell'editore Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main


Stefano Duranti Poccetti

21 marzo, 2012

Un po' di storia. L'ultima volta degli Oasis a Roma


Un po’ di storia. il febbraio del 2009 ha contrassegnato l'ultimo concerto a Roma degli Oasis. Per ricordare quell’evento ecco un prezioso documento che ricorda quella sera: una recensione scritta da Flavia Clari



OASIS
20.02.2009 Roma - Palalottomatica

“Rock ‘n’ roll star” Con questa canzone si apre il più atteso concerto dell’anno.
Finalmente dopo 5 anni torna in Italia la band inglese amata da tutta Europa: OASIS!!
Sono le ore 21.00, il Palalottomatica di Roma è colmo di fan, dal 2° ma ancor di più dal 3° anello si vedono soltanto TANTE teste... Sono i ragazzi del Parterre che sono lì dalle otto di mattina per vedere il più vicino possibile la loro band preferita; Tra i posti degli anelli c’è addirittura gente in piedi o seduta per le scale. Un concerto sold out infatti già da novembre erano terminati tutti i biglietti.
Si spengono tutte le luci della sala, la folla inizia ad urlare e a gridare il loro nome, sul palco iniziano ad alternarsi delle luci a strobo seguite da luci occhi di bue come se stessero cercando la band…Ed eccoli apparire: i fratelli Gallagher, Andy & Gem sotto la loro classica canzone di apertura: “Fuckin in the Bushes”.
Luci blu, Liam conquista il centro del palco, assume la sua classica posizione un po’ storta davanti al microfono e il concerto ha inizio!
Con quale canzone migliore poteva aprire il concerto e spiegare come si sentiva se non con Rock ‘n’ roll star?? “Tonight I'm a rock n roll star!!” E ci ha fatto sentire a tutti come delle vere star del rock ‘n’ roll ...
Comincia così un grande mix di brani vecchi e nuovi da Lyla a Shock of the lightning (singolo tratto dall’ultimo album della band inglese) e l’ostilità tra i due fratelli Gallagher è sempre più accentuata e il tipico atteggiamento di Liam di andarsene mentre canta il fratello è stato ben visibile nella canzone “ The Masterplan”.
Ma il brano che accende il corpo e l’anima del pubblico è solo uno: “What’s The Story Morning Glory” che trasforma il palalottomatica come un vero inferno: le luci tingono il palco e la folla di rosso e milioni di fan saltano, ballano e gridano “in quell’aere senza stelle e senza tempo”.
Ma sono fan destinati e che appartengono al paradiso, infatti, una lieve luce azzurra illumina il palco e l’unica luce che illumina la folla è la fiamma degli accendini sventolati. Come se fosse un coro di angeli si sente soltanto la voce del pubblico che da sola inizia la canzone più dolce e lenta degli Oasis: “I’m outta time”.
Non poteva non mancare la più bella canzone mai scritta dai fratelli Gallagher... Un colpetto di tosse... Tempo stabilito dalle bacchette della batteria... e la chitarra acustica che dà inizio a un brano colonna sonora di molte storie d’amore: “Wonderwall” ; innamorati che si baciano e si abbracciano dolcemente, persone che si dedicano questa canzone attraverso il telefono, una chiamata alla loro amata che non ha fatto in tempo a prendere il biglietto. È come se l’attenzione per un attimo si spostasse dal cantante agli occhi del tuo amato, come se in quell’istante in mezzo a un milione di persone esisteste solo tu e lui.
Ma l’apoteosi del concerto si ha con la fantastica canzone: “Don’t look back in anger” un esibizione da brivido; Noel con la sua chitarra ci fa emozionare e ci lascia cantare da soli il ritornello di questo meraviglioso brano: “And so, sally can wait, She knows its too late as were walking on by. Her soul slides away, But dont look back in anger. I heard you say”. Ma la cosa più bella, oltre a sentire solamente la nostra voce, è stato vedere sul grande schermo del palco le nostre facce che cantavano con gioia e felicità questa splendida canzone, come se fossimo noi le vere star!
E con il brano “I Am the Walrus” (cover dei The Beatles) si conclude purtroppo questo incantevole sogno che tutti noi avremmo voluto che durasse per l’eternità.
Anch’io ho partecipato a questo straordinario evento ed è stato bellissimo, stupendo, magnifico averli tutti a pochi metri, incrociarne lo sguardo, anche solo per un attimo, cantare con loro e anche più forte di loro. Terrò sempre il ricordo di quella sera e per qualche giorno questo sorriso inebetito che dal 20 febbraio ho stampato in faccia e che questa band mi ha regalato.

Flavia Clari

19 marzo, 2012

"Carie. Piccoli drammi contemporanei", il progetto dell'attrice Paola Zaramella. Piccole ma intense storie, come quella dell'uomo dalla tanta apparenza ma dalla poca sostanza, vale a dire: "Il Signor Testa Alta" ...



Paola Zaramella. Photo Marzio Fachin
Paola Zaramella è una giovane attrice emergente. "Nata tra le montagne della Valle d’Aosta, è cresciuta nell’orto della nonna in mezzo a piante e fiori profumati. Ha iniziato a fare teatro quando ancora non aveva finito la scuola e recitava in francese, che è la sua seconda lingua. Poi si è formata come attrice teatrale. Attualmente è impegnata a coltivare, con cura e dedizione, il suo percorso professionale". Sono queste parole della stessa Paola, creatrice di un progetto molto interessante di cui mi parla: "Carie. Piccoli drammi contemporanei". " Si tratta di un progetto video che raccoglie brevi componimenti teatrali, cioè brevi storie o meglio piccoli drammi da me scritti, diretti e interpretati. Siamo in 3 persone a lavorarci sopra, oltre a me c'è Caterina Di Iulio che si occupa di costruire le scene e Francesca Nota che fa le riprese e i montaggi video. Non abbiamo una produzione alle spalle; non abbiamo uno spazio a disposizione dove provare; non abbiamo un teatro, ma abbiamo comunque voglia di lavorare. Per realizzare i video usiamo superfici disponibili: case prestate da amici, ambienti naturali, strade …
Per il futuro pensiamo di realizzare altre "carie/storie" con la speranza che il nostro progetto possa essere un domani apprezzato e sostenuto da qualcuno.     


Propongo in questa sede, a questo riguardo, uno di questi brevi lavori: "Il Signor Testa Alta" (sopra). Quante volte una donna incontra nella vita uomini sbagliati? Di quelli tutto fumo e niente arrosto? Tutta apparenza, poca sostanza? Questa è la tematica del video, reso pubblico su youtube. Il tutto è reso con grande ironia e comicità, un modo di dipingere piccole scenette con una vena comica veramente piacevole, ecco quando il teatro fatto bene diventa un importante mezzo di divertimento.

Stefano Duranti Poccetti

17 marzo, 2012

"Giselle". L'Amore non muore dopo la morte



La contadina che s’innamora del principe; il principe che s’innamora della contadina. Un amore che non può essere ufficializzato, perché il principe è promesso a un’altra donna. L’amore che uccide la contadina, che potrà rivedere il suo amato, per l’ultima volta, solo sotto forma di spettro.
Questa è la sintetica trama della celebre “Giselle”, con le musiche di Adolphe Adam e con coreografia di Jean Coralli e di Juler Perrot, ripresa da Yvette Chauviré, andata in scena al Teatro alla Scala di Milano per diversi giorni consecutivi – io faccio riferimento allo spettacolo del 13 marzo.
Abbiamo visto una “Giselle” perfettamente classica e tradizionale, in cui per l’occasione i primi ballerini sono stati Leonid Sarafanov, nei panni del Principe Albrecht, e Olesia Novikova nel ruolo di Giselle. Ottima l’interpretazione dei due, soprattutto della seconda, autrice di una prova impeccabile sotto il piano tecnico e interpretativo. La Novikova è infatti riuscita a rendere al meglio sia la Giselle contadina, dai tratti spontanei e ingenui, sia la Giselle Willi, fantasma della notte, dai tratti lirici e onirici. Anche il pubblico si è dimostrato entusiasta della prova della ballerina e dell’intero balletto e lo ha salutato con grandi applausi e tanti “Bravo!- Brava! -Bravi!”. Da non sottovalutare anche la prova del resto delle ballerine e dei ballerini, tutti ammirevoli sul palcoscenico e sempre armoniosi, sia nelle prove singole che di gruppo. Tra questi vorrei menzionare Denise Gazzo e Marco Agostino, che, nel ruolo di contadini, hanno dato luogo a un bellissimo passo a due: lei agile e leggera; lui muscolare, forse non perfetto tecnicamente, ma veramente molto caldo nell’ interpretazione, che è arrivata emotivamente agli spettatori con molta energia e intensità.
L’impianto scenografico è classico: nel primo intervallo un bosco con una casetta contadina, in cui il bosco è reso in parte da tendoni dipinti bidimensionali sullo sfondo, in parte da alberi tridimensionali con tanto di chiome che incorniciano la scena. La casetta è invece posta a sinistra ed è una struttura praticabile, in cui gli interpreti entrano ed escono dalla sua porta. Nel secondo intervallo le luci si abbassano: diventa notte. La casetta non c’è più ed è stata sostituita dalla grande lapide mortuaria di Giselle. Il bosco invece permane, ma stavolta non ha toni vivaci come nel primo tempo, ma l’atmosfera è divenuta oscura e misteriosa – il luogo ideale per la danza delle Willi.
Anche l’Orchestra diretta da Paul Connelly è stata in linea con il resto della messa in scena: precisa e pulita, capace di rendere bene la semplicità timbrica e ritmica della musica romantica di Adam.
Un bel balletto, bravi i ballerini, organico l’impianto scenico, ottima la prova musicale: tutti gli elementi per assistere con piacere a questo evento.



Giselle
Coreografia: Jean Coralli - Jules Perrot
Ripresa coreografica: Yvette Chauviré
Musica: Adolphe Adam
Direttore musicale: Paul Connelly
Scene e costumi: Aleksandr Benois
rielaborati da: Angelo Sala e Cinzia Rosselli
Direttore del Corpo di Ballo: Makhar Vaziev
Direttore dell’allestimento scenico: Franco Malgrande
Direttore dell’organizzazione e della produzione: Andrea Valioni


Giselle: Olesia Novikova
Il Principe Albrecht: Leonid Sarafanov
Il Duca di Courland: Matteo Buongiorno
La Principessa Bathilde: Raffaella Benaglia
La madre di Giselle: Monica Vaglietti
Hilarion: Alessandro Grillo
Wilfried: Riccardo Massimi
Il Gran Cacciatore: Matthew Endicott
Passo a due contadini: Denise Gazzo, Marco Agostino
Sei amiche di Giselle: Emanuela Montanari, Serena Sarnataro, Brigida Bossoni, Lara Montanaro, Chiara Fiandra, Giulia Schembri
Myrtha, Regina delle Willi: Sofia Rosolini
Due Willi: Antonella Albano, Emanuela Montanari
e il corpo di ballo del Teatro alla Scala

Stefano Duranti Poccetti



16 marzo, 2012

"Il volo di Leonardo" o, semplicemente, realizzare i propri sogni



Esiste l’impossibile? No, non esiste. Grazie al sogno si può raggiungere qualsiasi cosa, benché al sogno si aggiunga il mezzo, vale a dire una concreta volontà di fare, di costruire: la capacità di dare vita all’impalcatura che regge il sogno e, se questa non viene eretta con saldezza, il sogno diventa solo una mera illusione.
È un po’ questa l’essenza dello spettacolo “Il volo di Leonardo”, scritto, diretto e interpretato da Flavio Albanese, andato in scena al Teatro Strehler del Piccolo di Milano nella minuta Scatola Magica. Leonardo da Vinci è uno dei più grandi geni dell’umanità – che banalità che ho detto. Un genio che è riuscito a creare, a inventare qualsiasi cosa e tutto questo solo provando, solo facendo tentativi, solo fallendo! Solo chi fallisce può trovare una soluzione, perché solo chi agisce fallisce, e solo chi fallisce riuscirà un giorno a volare! Come lo stesso Leonardo riuscirà alla fine dello spettacolo – dopo vari tentativi che metteranno a dura prova il suo allievo. Uno spettacolo che è un monologo, in cui Flavio Albanese interpreta non Leonardo, ma l’allievo di cui parlavo: Zoroastro. Leonardo non compare mai, ma la sua immagine è resa dal personaggio in scena, che ne racconta le gesta in una chiave a tratti comica, a tratti d’intensa liricità, in cui emerge la vasta figura dell’artista – architetto – ingegnere … del factotum Leonardo, che, certo, di errori ne ha commessi, ma alla fine è sempre arrivato dove voleva e questo perché mai ragionò come un uomo comune, ma con la propria mente, la mente di un genio.
Sulla scena ci sono solo pochi oggetti che ricordano Leonardo da Vinci, sopra a tutti una lavagna in cui sta disegnato il grande volto del maestro. Flavio Albanese ha costruito lo spazio scenico e l’intero impianto spettacolare molto bene ed è bravo a dialogare col pubblico durante la rappresentazione, aiutato anche dalle piccole dimensioni della sala, che si adatta perfettamente a uno spettacolo del genere. L’attore sta sul palcoscenico per circa un’ora e si fa seguire con piacere, senza annoiare, rubando sorrisi. Si può dire insomma che l’evento da lui portato non può prendere il nome di illusione, ma di sogno, perché ha sognato di portare in scena la vita di Leonardo e lo ha anche fatto costruendo un valido impianto spettacolare, che, nella sua semplicità, è stato incisivo ed efficace al punto giusto.

Stefano Duranti Poccetti

10 marzo, 2012

Hamlice: tra Amleto e Alice


Abbiamo parlato di uno spettacolo con soggetto una particolare "Alice". Sara Bonci ci parla di un'altra "Alice", stavolta messa in relazione con Amleto ...


Hamlice: saggio sulla fine di una società, penultimo spettacolo della Compagnia della Fortezza - Amleto, immerso nei suoi pensieri, dà il benvenuto al suo pubblico con una sorta di lamento di dolore, dimostrando fin dall’inizio la pazzia del personaggio. Attorno a lui prende vita un mondo bianco - che rimanda molto a un ospedale psichiatrico - e una serie di altre strane figure shakespeariane o uscite direttamente dal paese delle meraviglie, rese incantevoli grazie ai costumi di Emanuela Dall’Aglio e accompagnate durante tutto lo spettacolo dalle musiche dal vivo di Andrea Salvadori. L’immensa scena si sposta dall’esterno all’interno, attraverso continui movimenti degli attori, che non smettono mai di abbandonare i loro spettatori. L’occhio del pubblico non sa dove muoversi, se all’estrema sinistra, dove un uomo sta dipingendo una tela, o tra la platea, in cui gli attori secondari si muovono recitando i propri monologhi, o nel palco, dove Amleto pian pianino si sta trasformando nella protagonista di Carroll. Dovunque si ponga lo sguardo, riusciamo a immergerci dentro un incanto, fino alla fine, quando agli spettatori vengono date delle enormi lettere da poter lanciare in aria. Il pubblico è travolto dall’emozione: l’emozione di quelle lettere che volano, si scontrano, libere di creare tutte le parole che vogliono. “Da Amleto ad Alice nel Paese delle meraviglie, dalla tragedia del potere nel chiuso di un palazzo all’anarchia di Carroll, al suo mondo alla rovescia e ancora oltre, in un viaggio di cui non si conosce la fine. La trasformazione è la possibilità di sottrarsi al proprio ruolo definito per sempre.” Queste sono le parole del drammaturgo nonché regista Armando Punzo, vincitore del premio Ubu 2010 per lo spettacolo precedente, che descrivono perfettamente il nucleo dello spettacolo e il suo messaggio profondo. Amleto/Alice/Punzo è di fronte a noi per dimostrare che chiunque è sempre in tempo a cambiare, a capovolgere una vita rinchiusa tra mura vere o illusorie.

Sara Bonci

08 marzo, 2012

VIAGGIO ATTRAVERSO L'IMPOSSIBILE - sogni di cinema. Seconda puntata: LA PERICOLOSA PARTITA, a cura di Francesco Vignaroli


LA PERICOLOSA PARTITA    USA, 1932  63' B/N
(the most dangerous game)

REGIA: ERNEST B. SCHOEDSACK, IRVING PICHEL

INTERPRETI: LESLIE BANKS, JOEL Mc CREA, FAY WRAY, ROBERT ARMSTRONG, NOBLE JOHNSON

EDIZIONE DVD: Sì, distribuito da SIRIO VIDE

Il conte Zaroff, esule politico russo sfuggito alla Rivoluzione d'Ottobre e rifugiato su una sperduta isoletta nell'oceano, è il tipico nobile ricco ed annoiato; buon vino, rilassanti sessioni al pianoforte e opere d'arte da ammirare nel lussuoso salone del castello sono tutti piaceri secondari, se messi a confronto con la sua unica, vera, grande passione: la caccia. Anche quest'ultima però, sembra esser diventata semplice routine, per un uomo che ha cacciato con successo ogni specie d'animale... tranne una. Ecco l'idea geniale: far naufragare le navi di passaggio sullo stretto che lambisce l'isola spostando le boe di segnalazione, accogliere e curare gli eventuali superstiti nel suo vecchio maniero per poi trasformarli, ben rifocillati e ristabiliti, nelle nuove prede delle sue battute di caccia. Le regole del gioco sono semplici: i malcapitati, per riottenere la libertà, devono sopravvivere da mezzanotte all'alba con a disposizione soltanto un coltello da caccia per difendersi e un giorno di vantaggio per ambientarsi e nascondersi nella fitta boscaglia che ricopre l'isola. Quando tra i naufraghi arriva, unico sopravvissuto di un gruppo di amici, il celebre viaggiatore e cacciatore Robert Rainsford, Zaroff non si lascia sfuggire l'occasione di lanciare la sfida ad un avversario finalmente degno (sull'abilità dei predecessori di Bob vi sono dettagliate TESTimonianze nella stanza dei trofei...). Messo alle strette,  l'avventuriero si ritrova costretto ad accettare, insieme alla giovane Eve (altra ospite speciale del generoso anfitrione), l'offerta del folle nobile, un'autentica partita a scacchi all' aperto ("outside chess", per dirla con le parole del conte).

Niente fronzoli né deviazioni in questo breve ma densissimo thriller, raccontato con uno stile sobrio ed essenziale, ancora oggi sorprendente per audacia e modernità del soggetto (tratto da un racconto di Richard Connell). La storia, servita in un clima lugubre e allucinato -come gli occhi perennemente sgranati del conte-, si regge sul gustoso ed ironico espediente dello scambio dei ruoli (non è certo per caso che proprio ad un noto cacciatore capiti di dover partecipare alla "CACCIA FATALE", come recita il titolo altenativo del film), che, se da un lato inserisce una nota di beffardo humor nero in una sceneggiatura quasi horror, dall'altro contribuisce ad amplificare nello spettatore l'ansiogena sensazione dell'essere braccato (un aiuto in tal senso giunge anche dallo splendido, frenetico montaggio della battuta di caccia finale, nel quale i registi sfruttano abilmente certe inquadrature in soggettiva che rendono vivida e concreta la fuga dei due prigionieri). Caldamente consigliato ai cacciatori, ai quali la sceneggiatura offre gentilmente una riflessione niente affatto scontata: "STAVO PENSANDO ALL'INCOERENZA DELLA COSIDDETTA CIVILTA': L'ANIMALE DELLA GIUNGLA, CHE UCCIDE SOLO PER SOPRAVVIVERE, VIENE DEFINITO SELVAGGIO; L'UOMO, CHE UCCIDE PER SPORT, VIENE DEFINITO CIVILE...", dice l'amico medico a BOB, poco prima di saltare in aria con la nave (eh, sì, è proprio vero: sono sempre i migliori che se ne vanno!). La critica è ovviamente estensibile, più in generale, all'intero genere umano, affetto da un cronico gigantismo antropocentrico che CI porta troppo spesso ad arrogarci il diritto di stabilire cosa sia legittimo ,cosa sia "normale"-per Zaroff è normalissimo cacciare, non importa chi o cosa-, cosa sia civile e via dicendo... Menzione doverosa e speciale per il personaggio del conte Zaroff -reso ottimamente dal bravo Leslie Banks-, che da solo vale il prezzo del biglietto: figura enigmatica e contraddittoria (un sadico sanguinario, ma anche un uomo di cultura al tempo stesso, capace di mettersi a suonare una delicata partitura pianistica subito dopo aver ucciso un uomo...lo "zio" Edgar Allan Poe probabilmente approverebbe...), affascinante e inquietante, strano connubio di logos e istinto, eros e thanatos; ancora, figura disorientante e urticante per sua stessa natura in quanto specchio deformante delle pulsioni che probabilmente albergano, sopite, in ciascun essere umano (non è proprio un santo nemmeno Robert, il quale, alla giusta tirata moralistica del dottore di cui sopra, replica che la bestia feroce, allo stesso modo del cacciatore, prova una certa estatica soddisfazione a misurarsi con l'uomo, a (di)mostrarsi più forte, a sconfiggerlo...quasi un'apologia dell'atto gratuito fine a se stesso, una confessione aberrante, un'ammissione di colpevolezza estesa indebitamente alle altre specie animali da parte di un (tipico?) essere umano.
Certo, operare una lettura nella duplice chiave ecologica e psicanalitica di questo film può costituire un'operazione indebita, una forzatura, ma d'altra parte la fruizione dell'arte è un fatto puramente soggettivo e i valori, le idee, le convinzioni dello spettatore recitano un ruolo determinate nella ricezione dell'opera. In mancanza di esplicite indicazioni dell'autore, lo spettatore può a buon diritto sentirsi libero, se crede, di formulare tutte le congetture (perché di questo si tratta, semplici ipotesi interpretative, riflessioni personali senza alcuna pretesa oggettiva e generalizzante) che ritiene legittime ed è quindi per questo motivo che non può essere considerato improprio e iperbolico definire "LA PERICOLOSA PARTITA" un film contro la caccia (in quanto manifestazione della violenza umana, simbolo del residuo irrazionale ed istintuale che vive ancora nel cervello umano, in coabitazione con il raziocinio).

Due remakes, "A GAME OF DEATH" di Robert Wise nel 1946 e "LA PREDA UMANA" di Roy Boulting nel 1956, per un film che ha fatto scuola.Un gioiellino dimenticato da riscoprire, curioso in quanto preludio -quasi una prova generale- al successivo lavoro di Schoedsack, la pietra miliare "KING KONG" del 1933:la tensione costante, l'ambientazione esotica, il senso dell'orrore sono tutti elementi riscontrabili in entrambe le pellicole.

L'edizione DVD italiana, come purtroppo accade spesso, è molto carente sul versante audio, proponendo un doppiaggio mediocre e commenti musicali spuri rispetto a quelli originali; molto meglio optare per l'inglese sottotitolato.

Francesco Vignaroli 

05 marzo, 2012

Il Sogno di Alice contro il potere; Monologo di una ragazza ballerina. Ultima sosta della Sosta a Castiglion Fiorentino


Una particolare Alice nel paese delle meraviglie e l'autobiografia di una giovane ballerina concludono, venerdì 2 marzo, la rassegna di teatro-danza "Invito di Sosta" al Teatro Comunale di Castiglion Fiorentino, organizzata da Sosta Palmizi.

Alice's room _ versione duo
In "Alice's room_versione duo" di Giovanna Velardi, con Alice Zanoni e la stessa regista, il palcoscenico è diviso simbolicamente in due livelli di profondità da una rete. I toni della luce sono cupi e severi. Nel piano più vicino al pubblico una donna si guarda con vanità a uno specchio e si muove con gesti frenetici e malati: è la malattia del potere che l'affligge, mentre, sullo sfondo, si muove con danza dolce e delicata Alice: anche lei ha uno specchio, ma il suo non è lo specchio della malattia, ma lo specchio del Sogno, quel Sogno che l'aiuterà a distruggere il male: il malefico potere della regina. Inizialmente le danzatrici ballano solitariamente e pian piano si avvicinano, arrivando infine a scontrarsi, in un “duello” in cui Alice rimane intrappolata dentro la stessa rete divisoria, divenuta ora un'arma. Ma poi riesce a liberarsi, le luci si schiariscono ed escono dalla loro cupezza:  Alice vince! Il Sogno vince, quel Sogno che, in questo spettacolo come nella vita, seppur nella sua apparente inconsistenza, si rivela più forte di qualunque concretezza, di qualunque autorità.
Non sono riuscito a entrare in tutto e per tutto dentro questa mise en scène - d'altra parte la mia formazione teatrale solo in piccola parte dedita alla danza mi allontana dal capire nella sua interezza i movimenti ballati. Nonostante questo lo spettacolo mi è sembrato ben costruito, piacevole e fluido. Niente è stato lasciato al caso e si nota una grande attenzione nella fase realizzativa. Brave anche le performer, delle volte in conflitto, delle volte più vicine, anche se sempre in una condizione di isolamento: il Sogno non può scendere a compromessi con l'autorità!

Nella seconda pièce una ragazza sta al centro della scena e ci racconta la sua carriera di ballerina accompagnata da vicende della sua vita privata, sopra a tutto i particolari sui suoi amori passati. Si tratta di "P.s. Martina La Ragione", con coreografia e regia di Simone Sandroni e creazione e interpretazione di Martina La Ragione.
Un guardaroba sullo sfondo è "l'armadio" personale di Martina, da cui attinge per le sue "trasformazioni", per portarci da una vicenda della sua esistenza all'altra. Martina è sia protagonista del palcoscenico che protagonista del "dramma" e ce lo racconta partendo proprio dagli inizi: da quando era bambina, quando faceva le sue prime coreografie di danza. Il tutto è narrato con un misto di comicità e tragicità, in cui gli amori della ragazza hanno un ruolo fondamentale nei suoi scuotimenti emotivi, che l'accompagnano, nel bene o nel male, per tutta la vita, facendola crescere, trasformandola, facendola donna!
P.s. Martina La Ragione
La messa in scena a dire il vero ha un problema di fondo: non è organica. Gli elementi scenici non sono incastrati sapientemente tra di loro, ma sembrano essere stati inseriti tramite un criterio estetico e di gusto e non tanto prendendo in considerazione l'intero impianto spettacolare. Anche la sceneggiatura è povera e non riesce a uscire da quella banalità tipica quando si tratta argomenti difficili da raccontare in modo originale. Anche la musica è un problema, perché sembra essere inserita senza un regolare criterio di entrata e di uscita. Anche un piccolo e sfortunato "incidente" ha contrassegnato questo evento: alla fine vengono proiettate foto reali della protagonista – espediente che non è stato di mio gusto, l'ho visto un po' come un ricercato, facile e forzato modo di trovare il contatto empatico con il pubblico, un po' come in musica si fa uso della settima diminuita per destare pathos - e, proprio all'accensione del proiettore, sul pannello, è apparsa una poco elegante marca dell'apparecchio.
La mia opinione è solo quella di un umile critico che potrebbe benissimo sbagliarsi, ma, sia che il mio parere sia condiviso collettivamente o meno, invito gli artisti a rivedere la loro creazione, affinché possano raggiungere maggiore organicità e omogeneità.


Alice’room_versione duo
di Giovanna Velardi
con Alice Zanoni , Giovanna Velardi
disegno luci Danila Blasi
costumi Dora Argento
Musiche AAVV

P.s. Martina La Ragione
Deja Donne
coreografia e regia Simone Sandroni
creazione e interpretazione Martina La Ragione
scenografia a costumi Lenka Flory
disegno luci Tomiko Arai promo video Elisa Chianella


Stefano Duranti Poccetti

04 marzo, 2012

"La commedia di Orlando". Vivere da immortali in un mondo di mortali


Teatro Signorelli di Cortona. 29/02/2012


Essere immortale, vivere per interi secoli, essere nato uomo, svegliarsi un giorno donna. Questa la storia di Orlando, personaggio creato dalla penna di Virginia Woolf, portato in scena in "La commedia di Orlando", con regia e drammaturgia di Emanuela Giordano. Si tratta di un personaggio totale, un gentiluomo che cerca con insistenza il senso della vita; un senso che sembra non giungere mai, almeno fino alla fine, quando, finalmente, sarà l'amore a dare serenità all'anima di un Orlando diventato oramai donna. 
Il/la protagonista vive tutta la sua interminabile vita - inframezzata da lunghi sonni - a inseguire qualcosa che non sa neanche lui/lei. Orlando insegue la pace interiore che non sa come raggiungere; il suo spirito amletico pieno di dubbi è irrefrenabile e lo guida alla scoperta dell'umanità - un'umanità che non cambia con il cambiare dei secoli, ma che rimane sempre la stessa. Motivo portante di tutta la pièce è l'importanza che riveste l'Arte per l'Orlando scrittore e Poeta, per l'Orlando sognatore dell'immortalità artistica, che riuscirà a raggiungere grazie alla grande opera da lui stesso creata: "La Quercia", che alla fine riuscirà anche a pubblicare.

La scenografia è molto interessante, dove delle scalinate poste nei diversi piani costruiscono lo spazio. Quando i personaggi in scena devono muoversi per dare luogo a immaginari spostamenti geografici, fanno uso di queste scalinate, disposte anche sullo sfondo, ed è molto suggestivo nel momento in cui questo accade nella penombra, dove gli attori - che rappresentano gli amici di corte di Orlando - portano in mano lanterne sprizzanti di luce. Tutta la vicenda è accompagnata ininterrottamente da intensi motivi di musica colta - suonata dal vivo dietro le quinte. Effetto questo che rafforza l'intento onirico del complesso, rafforzandone anche la poeticità.
Lo spettacolo risulta complessivamente ben organizzato. Buona anche la prova degli attori, anche quella della protagonista Isabella Ragonese, nei panni di Orlando.


La commedia di Orlando

regia e drammaturgia di Emanuela Giordano

con:
Isabella Giordano: Orlando
Guglielmo Favilla: Hall
Andrea Gambuzza: Judy
Claudia Gusmano: Hill
Fabrizio Odetto: Greene Arciduca Marmaduke
Laura Rovetti: Gitano, Faith

musiche originali della Bubbez Orchestra
eseguite dal vivo da
Giovanna Famulari  Violoncello
Massimo De Lorenzi Chitarra

scene e costumi
Giovanni Licheri e Alida Cappellin


Stefano Duranti Poccetti