20 gennaio, 2014

"Hedda Gabler". Il coraggio di Vivere e il Coraggio di morire. Di Massimo Quarta


Teatro Mecenate. Giovedì 16 Gennaio 2014

Recensire un dramma di una simile portata, devo ammettere, mi pone in uno stato d'animo molto critico, non nei confronti dello spettacolo, s'intende, ma verso ciò che lo spettacolo stesso ha provocato in me.
Nella serata del sedici, quando mi sono diretto al Teatro Mecenate, sapevo poco o nulla di quest'opera di Ibsen, accenni vaghi, rimasugli delle lezioni liceali di italiano dell'anno passato (spero premierete la mia sincerità, senza dar troppo peso a questa lacuna).
Prima ancora che incominciasse lo spettacolo, la mia attenzione è stata catturata dalla scena, dalla sua composizione cupa, tetra dove il colore nero l'ha fatta da padrone. Un'atmosfera che pesa e che trascina lo sguardo dello spettatore in un vuoto apparente, dove la "luce" penetra con difficoltà; un'atmosfera che annuncia una fine imminente.
Hedda Gabler è un personaggio complicato, che racchiude in sé miriadi di sfumature e di sentimenti. Sicuramente negli anni - e parliamo di più d'un secolo dalla prima messa in scena, avvenuta nel gennaio del 1891- sono stati colti, in tempi e luoghi sempre differenti, i diversi colori che Ibsen ha saputo donare a questo personaggio, che ormai rappresenta una delle icone drammaturgiche femminili di maggior successo nel mondo del teatro.
La regia di Antonio Calenda, la prima di uno spettacolo dell'autore norvegese, inquadra la protagonista in un'ottica soprattutto filosofica, legando, come afferma lui stesso in un'intervista rilasciata al giornale "La Nazione", “il mondo interiore di Hedda alle correnti di pensiero di Freud e Nietzsche”. I riferimenti a quest'ultimi, infatti, non mancano: alcuni dialoghi con il giudice Brack hanno tutta la parvenza di sedute psicoanalitiche, dove emergono, grazie al confronto tra i due, tutte le contraddizioni e la dicotomia di sentimenti che vivono in Hedda.
Il giudice Brack interpretato da Luciano Roman diventa un'affascinante quanto mai cinico uomo d'affari, un uomo per il quale il fine giustifica sempre i mezzi; emblema di questa società spietata, sarà proprio lui, alla fine, a mettere alle corde Hedda.
Una Hedda Gabler che fin dall'inizio ci appare come insonne, insoddisfatta della sua vita, una vita che in effetti non ha voluto, ma nella quale ha voluto trovarsi per comodità. Un matrimonio di convenienza che non porterà i frutti desiderati, ma che acuirà invece quella sua "noia di vivere", quello spleen e quel malessere esistenziale che porta sempre con sé.
Profondamente annichilita e annoiata, crudele e bellissima, preferisce giocare con le persone, averle sotto il suo comando, piuttosto che vivere di loro, con loro.
Tuttavia, il ritorno di Ejlert Løvborg minerà irremediabilmente quell’idilliaco paradiso borghese che Hedda pensava di essere riuscita a costruirsi intorno.
Løvborg, scrittore talentuoso, ma sregolato, finalmente "redento", metterà in crisi la sicurezza della famgilia Tesman e tutte le loro certezze. Proprio attraverso Løvborg, unico personaggio puro di questo dramma, riusciamo a scorgere in piena platealità la piccolezza, la mediocrità di Jørgen Tesman e l'arrivismo, l'egoismo di Hedda Gabler.
Hedda, che resterà sempre combattuta dal suo desiderio di tragressione, affascinata anche per questo motivo dallo sregolato scrittore, e, dall'altra parte, dalla paura di rimanere sotto uno scandalo. Innamorata e gelosa di Løvborg propria per la sua più grande qualità: avere il coraggio di vivere. Quel coraggio che le manca per vivere come veramente desidera e non, per esempio, subordinata economicamente ad un marito che non ha mai amato.
La soluzione è una ed è, allo stesso tempo, quasi elogiata da Hedda, quando propone lo stesso a Løvborg, come unica possibilità per dimostrare veramente di essere liberi e di avere il giusto coraggio per farlo, per riuscire a scappare da quella realtà che non ha più nulla di idilliaco. Per fuggire dai detestati vincoli familiari, per fuggire dalle avances del giudice, per fuggire dalla sua stessa solitudine, per fuggire dalla noia.
Un colpo alla nuca: il coraggio di vivere diventa così il coraggio di morire.
Grazie a Manuela Mandracchia, bellissima e perfetta nelle vesti di Hedda, devo soprattutto questa riflessione, ma, ovviamente, lei e tutta la compagnia hanno saputo rendere questo dramma con intelligenza, ironia e in primis con immensa passione. Grazie.

Massimo Quarta


di Henrik Ibsen
regia Antonio Calenda
con Manuela Mandracchia, Luciano Roman e (in o.app.) Jacopo Venturiero, Simonetta Cartia, Federica Rosellini, Massimo Nicolini, Laura Piazza
musiche Germano Mazzocchetti
scene Pier Paolo Bisleri
luci Nino Napoletano
costumi Carla Teti


Produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia/ Compagnia Enfi Teatro

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