29 giugno, 2012

"Film da riscoprire", di Olga Renzi: "Le vacanze di Monsieur Houlot"



Les vacances de M. Hulot (Francia, 1953)

Genere: Commedia
Regia: Jacques Tati
Sceneggiatura: Jacques Tati, Herni Marquet, Pierre Aubert, Jacques Lagrange                  
Fotografia: Jacques Mercanton, Jean Mousselle
Musiche: Alain Romans                                                                                                                                                                               
Produttore: Fred Orain


Nell'articolo precedente avevo parlato dell'omaggio che Chomet aveva fatto al grande autore francese Tati, ora mi sembra giusto illustrarvi uno dei suoi capolavori. La trama del film si svolge presso un villaggio balneare dove Monsieur Houlot si reca per passarvi le vacanze. Una trama vera e propria in realtà non c'è e il film si costruisce su piccole gags nelle quali Houlot/Tati, spesso suo malgrado, si ritrova coinvolto insieme a tutti gli altri personaggi che vivono nella sua pensione. Così una ruota della macchina diventa una corona da morto, il frustino diventa una spada, le porte lasciate aperte da Houlot fanno entrare correnti d'aria portando scompiglio alle altre persone e così via..
Le giornate vengono regolarmente scandite da un ritmo ciclico che fa sì che alcune situazioni si ripetano come la campana del gelataio o l'altoparlante della spiaggia ad esempio. Houlot con la sua figura alta, il cappello in testa e la pipa sempre in bocca è diventato nell'immaginario cinematografico una figura iconica come lo Charlot di Chaplin. Ed è da Chaplin e dai personaggi di Buster Keaton infatti che Tati riprende la fisicità, la capacità di esprimersi mimicamente senza l'uso della parola, ad esclusione di quel «gramelot» che è presente in tutti i suoi film. E così Houlot, personaggio gentile, un po' ingenuo, molto solo, ci fa tenerezza nelle sue dimenticanze, nel suo modo di essere così distratto e poco attento nei confronti dell'universo che lo circonda. Il suo modo di vivere, a tratti un po' infantile, ci permette di affezionarci a lui e al film che prende da subito toni malinconici e sognanti. La vacanza, che spesso è tanto sognata sia dagli adulti che dai bambini, quando volge al termine e tutti i pensionanti si devono salutare, lascia un leggero retrogusto amaro e malinconico in bocca.
Tati fa di Houlot una figura poetica, un uomo così alto che potrebbe toccare il cielo con un dito ma che, allo stesso tempo, ha ancora l'animo di un bambino. Tati al riguardo diceva:
           
[...]Confusione è la parola della nostra epoca. Si va troppo in fretta. Ci dicono tutto          quello che dobbiamo fare. Organizzano le nostre vacanze. La gente è triste.    Nessuno fischietta più  per strada [...] sarà sciocco, ma mi piacciono le persone             che fischiettano per strada ed io  stesso lo faccio. Credo che il giorno in         cui non            potrò più fischiettare per strada sarà una  cosa gravissima.




Il film alla fine è un piccolo saggio di poesia, sognante e delicato. Un viaggio nel passato, quando si andava in vacanza per riposare e staccare la spina dalla vita di città. Tati successivamente ha ripreso in mano la pellicola due volte: nel 1963 ne ha realizzato un nuovo montaggio con una nuova colonna sonora e nel 1975 ha aggiunto al film un'altra sequenza di quattro minuti.
Il film vinse nel 1953 il Premio Louis-Delluc e fu candidato nel 1956 agli Oscar per la miglior sceneggiatura e il miglior soggetto. Nel 1954 fu inserito, attraverso  il National Board of Review of Motion Pictures  tra i migliori film stranieri di quell'anno. 

Olga Renzi

27 giugno, 2012

"I giorni dei giovani leoni" di Gino Pitaro, un romanzo per i giovani che non si scoraggiano



Parlare ai giovani nel linguaggio dei giovani non è cosa facile; ma più difficile, io credo, è interpretare la condizione giovanile oggi e raccontare le difficoltà di una generazione che, come ben sappiamo, non ha prospettive di futuro. Per chi, come me, ha vissuto gli anni degli studi  in un periodo storico molto diverso, anche se poi non così lontano, studiare significava prepararsi alla vita, quella che ognuno di noi sceglieva, consapevole che dopo la scuola c’era il lavoro e non  sarebbero mancate le opportunità per inserirvisi. Oggi sappiamo che la situazione del mondo del lavoro è profondamente cambiata, che la “flessibilità” tanto auspicata negli Anni Ottanta, è diventata strumento di precariato e disoccupazione, che il “cambiamento” che il mondo del lavoro richiedeva alla Scuola era un cambiamento che non  portava l’individuo a modificare certi suoi comportamenti rispetto alle trasformazioni in atto, bensì a una perdita di identità lavorativa e, con essa, del proprio ruolo sociale. Dico questo perché ho molto creduto nell’Orientamento e come molti insegnanti ritenevo che fosse un dovere preparare i giovani all’ingresso nel mondo del lavoro. Oggi, di fronte alle trasformazioni in atto, mi chiedo in che cosa abbiamo sbagliato, anche se sono consapevole che è il “sistema” nel suo insieme che ha generato il paradosso di una generazione “senza futuro”.

Ho voluto premettere tutto questo perché il libro I Giorni dei Giovani Leoni di Gino Pitaro, un giovane autore al suo esordio con il romanzo, mette a fuoco  con chiarezza la situazione delle nuove generazioni, sospese tra il vecchio e il nuovo, senza grandi prospettive  né ambizioni, ma con speranze mai del tutto sopite, anzi, direi, con il desiderio e la capacità di aprirsi a nuovi orizzonti, nel tentativo di creare un mondo nuovo e diverso.
La storia, ambientata tra il decennio trascorso e gli ultimi anni del berlusconismo, si svolge in un momento imprecisato eppure attuale, così come attuali sono i temi trattati e i personaggi nei quali molti possono riconoscere una parte del proprio vissuto. Mario, il protagonista del romanzo, è un giovane studente calabrese che studia architettura a Bologna, ma aspira a iscriversi al DAMS, la facoltà di arte, musica e spettacolo. Vive con altri quattro amici in una casa in affitto e conduce una vita abbastanza ordinata, tra università, lavoro al call center e brevi occasioni di svago, come una serata in discoteca presso un centro sociale o una gita a Saturnia in tenda con Miriam, Kevin, Francesca e Davide, i ragazzi con i quali condivide riflessioni ed esperienze. Dal rapporto con gli  amici s’intravedono alcuni dei problemi che maggiormente coinvolgono i giovani di oggi: la canna fumata in compagnia per evadere dalla solita routine, la noia esistenziale, l’omosessualità dichiarata da parte di uno del gruppo, la mancanza di obiettivi chiari e precisi da raggiungere, fino ad arrivare alle corse clandestine in auto, situazione nella quale Mario rimarrà involontariamente coinvolto.

Ma rispetto agli amici che frequenta Mario è un “diverso”, così come “diverso” apparirà sempre agli occhi dei colleghi di lavoro. Il suo mondo, incentrato sulla costruzione del proprio futuro, è racchiuso tra l’università e il lavoro al call center, attività che svolge con una serietà pensosa e  riflessiva, sempre pronto a non farsi fagocitare dall’ambiente esterno e, pur se rimane disponibile nei confronti degli altri, mantiene una propria linea di condotta e di pensiero che lo rende autonomo e, quindi, diverso agli occhi degli altri. “ Aveva spesso la sensazione – ci dice il narratore nel presentarlo – di essere una persona che fa fatica a farsi ascoltare non tanto a spiegarsi quanto a riuscire nell’intento che ciò che comunica sia recepito come qualcosa di interessante, anche nel senso più modesto del termine, insomma degno di nota”. Così Mario, che svolge il suo lavoro part-time in un call center sarà sempre al centro dell’attenzione dei colleghi proprio per la sua riservatezza, per lo scrupolo con cui svolge un lavoro che altri disprezzano, per il fatto che non aspira a fare carriera alla Beatwind, ma allo stesso tempo perché, nonostante tutto, sembra essere più apprezzato degli altri dalla Dirigenza e, quindi, sistematicamente evitato dai colleghi o messo sotto tiro da Jenny, la team leader della compagnia telefonica.
Gino Pitaro
Dal libro emerge uno spaccato del mondo del lavoro che è sì settoriale, perché teso ad indagare uno dei pochi lavori che oggi sono riservati a giovani diplomati o laureati, ma coerente con il mondo più grande che l’Autore lascia intravedere sullo sfondo, fatto di rivalità, di invidie più o meno esplicite, di frustrazioni e ambizioni mai sopite, con uno scavo psicologico che mette a nudo la realtà dei vari protagonisti che si aggirano in un mondo dove tutto è codificato, dettato da regole e imposizioni e dove le gerarchie sociali rispecchiano quelle che vigono nel mondo esterno. Nei momenti in cui non arrivano telefonate Mario legge dei libri ed è lì, nel call center, che scopre che i libri “fanno paura”, perché “chi legge è pericoloso[…] perché non può essere incasellato in un prospetto, e la cultura è fuori da ogni schema inerte. Chi è colto – dice il narratore – pensa liberamente, non ha condizionamenti, e gli altri credono che possa dire o fare qualcosa che li coinvolga in un modo indesiderato”. E’ questo, a mio avviso, l’emblema della sua diversità, perché in un mondo in cui la scuola non è più un punto di riferimento, avere interessi personali, leggere Pavese o Dostoevskij, è considerata una perdita di tempo, qualcosa che non ha rapporti con il “fare”, cioè con quella operatività che è la premessa del business, del successo, del benessere.

In realtà Mario non coltiva solo gli interessi legati alla sua formazione, ma è aperto come tutti i giovani al “nuovo” e, come loro, convive con il web, condividendone esperienze e suggestioni. Ama la musica, perché essa è un tramite fra l’uomo e il mondo (“la musica – si legge a pag.89 – compie il grande miracolo di farci guardare il mondo con occhi diversi, e ad ogni ascolto si esce rinnovati e ricettivi alle voci di amore, gioia, rabbia, disagio e dolore che provengono dal nostro pianeta. Le note trasformano gli esseri viventi, e cambiando la realtà generano in modo nuovo il mondo intorno”); ma si interessa anche di ufologia e proprio su Facebook farà amicizia con Erika, una ragazza che condividerà con lui esperienze ed interessi. Anche l’amore ha importanza nella vita di Mario, e sia con Miriam che con Erika proverà, come tutti, le emozioni che questo sentimento può suscitare, aprendosi gradatamente alla vita e avviandosi verso una maturità emotiva e comportamentale che avrà bisogno di molte altre prove prima di essere consolidata.
L’altro versante della vita di Mario è rappresentato dall’Università. Studente-lavoratore, egli guarda al futuro inserendosi oltre che nei meccanismi di un mondo del lavoro alienato, in quelli, altrettanto straniati di un’università vissuta come un “rito”, come un mondo a sé, che è necessario affrontare se si aspira a qualcosa di diverso nella vita, ma che certamente non risponde più a quel bisogno di sapere e di crescita culturale che era alla base del suo statuto primario.

Se questo è il suo vissuto quotidiano, fatto di piccole o grandi esperienze, di sogni e di lavoro, di studio e riflessioni, sullo sfondo si affaccia, nitida e ricorrente, l’immagine della sua terra, la Calabria, “luogo di ritorno – come afferma l’Autore – che diviene metafora di un rimando esistenziale, oltre che luogo di appartenenza dell’anima”. E’ la Calabria, quella che il giovane studente si porta dentro, una terra forte e radicata nelle sue tradizioni, ma anche capace di lottare per il suo riscatto (si vedano i moti di Reggio, qui rievocati). E’ la sua saggezza atavica, intrisa di sofferenza e di coraggio, di antiche culture e di accoglienza dove convivono ancora etnie diverse quella che emerge, a mio avviso, nelle continue riflessioni del protagonista sulla vita, sul “chi siamo”, sul senso del divino che è in noi. Ed è proprio qui, nel ritorno alla sua terra e nel contatto con la stupenda bellezza dei suoi paesaggi che Mario percepisce la sua appartenenza ad un mondo diverso. Nell’ultima pagina del romanzo si legge infatti: “Si approssimò sul parapetto del lungomare, respirò profondamente ed ebbe la percezione intensa e sottile che le esperienze che aveva già vissuto e quelle del futuro avrebbero fatto di lui un uomo di un mondo nuovo, con altre donne e uomini nuovi. Non sapeva perché, ma era così”.

E’ stato giustamente osservato che il romanzo può essere considerato “come un romanzo di formazione giovanile del nuovo millennio, secondo il concetto di cosa è giovane oggi”, in quanto dalla lettura emerge con chiarezza l’idea che essere giovani non è più legato allo stato anagrafico di una persona, bensì è un modo di essere e di rapportarsi con se stessi e con gli altri. Oggi è giovane chi sa sintonizzarsi sui temi di fondo che riguardano l’uomo e l’ambiente, chi si batte per un’economia sostenibile, chi si oppone alla globalizzazione selvaggia in nome di un’individualità che rifiuta di essere annullata e calpestata, chi aspira a un mondo rinnovato e a una spiritualità capace di infondere speranza e ridare certezza ai valori, siano essi quelli ereditati da una tradizione millenaria, o quelli nuovi che lentamente stanno emergendo. Per questo, come afferma l’Autore, “Il libro intende rivolgersi a una generazione trasversale, in una realtà sociale dove ‘essere o non essere giovani’ è diventato qualcosa di diverso rispetto al passato, di dilatato e che si nutre di aspetti esistenziali che una volta erano parametri rigidi”.

Un libro per tutti, dunque, per giovani e meno giovani, perché come afferma Mario nel corso di una conversazione con Miriam, esiste per alcuni una sorta di “gioventù matura” che concede loro il grande privilegio di non invecchiare e, insieme, “il dramma di morire giovani”. E questo, a mio avviso, è oggi sempre più possibile, solo che si abbia la forza o la capacità di porsi in ascolto, sforzandosi di decodificare i messaggi che dal web si diffondono nella rete globale e uniscono gli uomini in forme di pensiero e di convivenza nuove e, mi auguro, portatrici di pace e di speranza per l’umanità.


Fernanda Caprilli



Link utili per saperne di più:







25 giugno, 2012

Musicisti italiani quasi dimenticati: Niccolò Jommelli (Aversa 1714 – Napoli 1774)... Rivalutiamo la nostra musica colta!



Quanti di noi girando per le città avranno letto, chissà quante volte, nomi di musicisti e si saranno chiesti chi saranno mai costoro e perché mai si saranno meritati questo marmoreo ricordo postumo ?
Lo spunto me lo diede qualche tempo fa il mio amico Leonardo, pregandomi di scrivere qualcosa su un musicista che non se lo “filava” nessuno e poi, visto che lui ci abitava in quella via…
Eccoci qui a ricordare Niccolò Jommelli, compositore campano figlio di un ricco mercante: Francesco Antonio e della moglie Margherita Cristiano.  Già all’età di undici anni studiava musica, dopo aver preso lezioni dal maestro del coro di Aversa Muzzillo, al conservatorio Sant’Onofrio di Napoli, sotto la guida dei maestri Durante, Feo e Prota. Passò al Conservatorio della Pietà dei Turchini sotto i maestri Fago, Basso e Sarcuni per completare gli studi. Il suo primo incarico lo ottenne dal marchese di Vasto e di Pescara come Maestro di cappella e debuttò con la sua opera comica L’errore amoroso  nel 1737 al teatro Nuovo di Napoli: un successo. L’anno dopo scrisse Odoardo, sua prima opera seria, che fu rappresentata al Teatro dei Fiorentini. Ottenne così diverse commissioni a Roma, sotto la protezione del futuro cardinale inglese Henry Benedict Stuart. A Bologna, invece, incontrò padre Martini, che rimase molto colpito dalla capacità del musicista ed entrò così nell’Accademia Filarmonica; strinse col padre francescano una profonda amicizia che durò per tutta la vita. A Venezia, tramite Johann Adolf Hasse (allievo di Scarlatti e amico di Quantz), che conobbe a Napoli, ebbe modo di avere l’incarico di direttore del conservatorio degli Incurabili e qui scrisse principalmente musica sacra, per poi spostarsi a Ferrara e a Padova. era già u compositore affermato quando si recò a Vienna nel ’49, dove conobbe di persona, stringendo anche con lui un’amicizia che durò tutta la vita, Metastasio ed entrò così in contatto con l’ambiente relativo alla riforma del melodramma. Scrisse Achille in Sciro, Catone in Utica e una seconda versione di Didone abbandonata- la prima venne scritta tre anni prima a Roma. Tornò a Roma e grazie ai suoi protettori Stuart e Alessandro Albani, quest’ultimo nipote di papa Clemente XI, ottenne l’incarico di aiuto maestro di cappella in S. Pietro. Non si fermò molto qui, dopo aver ricevuto, infatti, offerte da Mannheim, Lisbona… qualche anno dopo andò a Stoccarda dal duca Carlo Eugenio di Wurttemberg come Ober-Kapellmeister. Curioso l’aneddoto che volle Casanova protagonista di un’usanza forse a lui sconosciuta: nel teatro, per ordine del duca, bisognava mantenere il più rigoroso silenzio, mentre in altri teatri non era affatto così a quel tempo, fino a quando il duca non si sarebbe espresso. Casanova invece applaudì, estasiato da un’aria, nel silenzio più totale del teatro.
Nella sua permanenza a Stoccarda ebbe modo di staccarsi dallo stile metastasiano arricchendo le sue opere di una maggiore intensità ed espressione drammatica, di una più solida struttura scenico-musicale e di un maggior coordinamento tra musica e  sviluppo drammatico. Le sue finezze delle coloriture nelle arie di bravura ed i suoi recitativi accompagnati, preferiti a quelli secchi tradizionali, segnarono una svolta nell’opera seria – guardò con interesse all’opera francese. Ebbe a disposizione i migliori coreografi, scenografi, musicisti. Il suo librettista Verazi si rifaceva non alla mitologia romana, ma a quella greca e insieme crearono molte opere serie, comiche, serenate, musica sacra. Con la moglie malata pensò che l’aria salubre di Aversa le avrebbe giovato, ma purtroppo la donna non ce la farà e morirà nel ’69. Per dissapori con la corte del duca, Jommelli ne approfittò per fare un viaggio in Italia e tornò definitivamente a Napoli. Nella lettera alla sorella Nannerl del 29 maggio del ‘70 Wolfang Amadeus Mozart scrisse in italiano sull’incontro con Jommelli alla prova di Armida abbandonata: Carissima sorella mia. Hieri l’altro fùmmo nella prova dell’opera del sig:. Jomela, la quale è una opera, che è ben scritta, e che me piace veramente; il sig: Jomela ci a parlati, è era molto civile […]”Ancora il 5 giugno alla sorella in un miscuglio di italiano, francese, tedesco e dialetto salisburghese : […] L’opera di Jommelli, è bella ma troppo seria e antiquata per il teatro; la De Amicis (Anna Lucia De Amicis  n.d.a.) canta  in maniera incomparabile, come Aprile (Giuseppe Aprile n.d.a.) , che ha cantato a Milano. Le danze sono ignobilmente pompose; […]”. Lo storiografo della musica Charles Burney nel suo viaggio musicale in Italia, nell’incontro del 26 ottobre del ‘70 ce lo descrive così: […] “E’ un uomo assai corpulento, il suo viso mi ricorda quello di Haendel, per quanto sia nei modi assai più mite ed affabile. Lo trovai in veste da camera, seduto a scrivere dinanzi ad uno strumento. […]  mi congedai nel modo più amichevole da questo grande compositore che è senza dubbio uno dei migliori ora viventi in tutto il mondo; se dovessi classificare i compositori d’opera italiani […] lo farei nell’ordine seguente: Jommelli, Galuppi, Piccini, Sacchini. […]”. Ormai le mode cambiavano i gusti musicali ed il nostro Jommelli, dopo il fallimento di  Ifigenia in Tauride, cadde in depressione e subì un colpo apoplettico che gli provocò una emiparesi nella parte destra del corpo. Decise di dedicarsi esclusivamente alla musica sacra ed ecco il suo ultimo capolavoro: il Miserere a due voci e orchestra.
Morì  nella notte, a causa di un secondo colpo apoplettico, tra il 25 e il 26 agosto 1774. Con una raccolta fondi da parte di tutti i musicisti di Napoli si procedette al funerale e alla tumulazione nella chiesa del convento di Sant’Agostino della Zecca. Chissà se ora il mio amico Leonardo in quella via ci abita più volentieri?


Massimo Montella










22 giugno, 2012

La Divina Commedia di Nekrošius: immagini e visioni di un originale viaggio attraverso il mondo dantesco


Teatro Comunale, Modena. 26 maggio 2012

Il 26 e 27 maggio scorsi è andato in scena al Teatro Comunale di Modena lo spettacolo Divina Commedia del regista lituano Eimuntas Nekrošius, all’interno dell’ottava edizione del festival VIE organizzato da Emilia Romagna Teatro. Una nuova sfida per il regista di fama internazionale, riconosciuto come una delle eccellenze della scena teatrale contemporanea, che per questo spettacolo ha scelto di confrontarsi con uno dei capolavori della letteratura italiana, testo di riferimento della nostra stessa identità nazionale. Lo spettacolo è arrivato a Modena subito dopo il debutto mondiale a Brindisi, dove l’idea era nata durante un laboratorio teatrale, e il lavoro di Nekrošius non ha tradito le aspettative.
Raccontare il teatro di Nekrošius non è solo difficile ma inevitabilmente riduttivo, perché ogni suo spettacolo va visto, per non dire che va vissuto. È un concentrato di immagini, simboli, richiami metaforici, dove buona parte delle potenzialità dello spettacolo dipende da quello che si vede sul palcoscenico e da quello che la scena riesce a evocare. Bisogna lasciare da parte la nostra tradizione - soprattutto quella legata alla lettura del testo dantesco - e lasciarsi condurre dall’interpretazione del tutto personale che il regista fa dell’opera, senza altri riferimenti esterni alla scena. Lo spettacolo funziona se lo spettatore si lascia immergere nella creativa immaginazione del regista, se supera l’iniziale stordimento linguistico (come sempre lo spettacolo è recitato in lituano con sottotioli in italiano) lasciando parlare le scene, gli oggetti, la musica che svolge un’importante funzione drammaturgica, e senza dubbio l’espressività a tuttotondo degli attori.
La scenografia della Divina Commedia è posta su di un fondale nero, l’oscurità domina tutto lo spettacolo, ma su di essa intervengono le luci a delimitare gli spazi e a focalizzare lo sguardo sui numerosi personaggi che appaiono in scena. Una grande sfera scura occupa in secondo piano un lato del palcoscenico, e ad essa si contrappone la porta dell’Inferno, nera anch’essa ma a specchio, simile piuttosto ad un muro dove i dannati sbattono ripetutamente. Dietro il passaggio verso l’altro mondo, sul fondo, si scorgono il pianoforte e un tamburo, i due principali strumenti che danno vita alle musiche suonate in scena, che spaziano dal moderno al contemporaneo, e che ora fungono da raccordo tra i diversi momenti del viaggio di Dante, ora introducono i peccatori, in altri casi invece fungono da commento, da voce altra rispetto alla scena. Ai lati del proscenio troviamo due sedie e a terra, appoggiati su di un piano rialzato, due libri che non rimandano solo alle prime due cantiche dell’opera dantesca che sono al centro dello spettacolo, Inferno e Purgatorio, ma che più di una volta diventano oggetti di scena. I due libri sono segnati con post-it colorati, che da un lato danno l’idea di testi vissuti e riletti più volte, e dall’altro rimandano alla modernità, alla nostra quotidianità, come a simboleggiare l’attualità di un’opera che ha superato il tempo. Nekrošius del resto attualizza molto il viaggio di Dante attraverso i due regni ultraterreni, così come umanizza i personaggi a partire in particolare dai protagonisti, Dante e Beatrice, a seguire Virgilio e tutti gli altri.
L’originalità di Nekrošius si esprime anche attraverso i suoi attori, da quelli che compongono la Compagnia Meno Fortas a quelli più giovani che provengono dalla Scuola di recitazione di Vilnius. Agli attori giovani va il merito di aver dato forza alle scene corali in cui dannati e peccatori incontrano Dante e Virgilio, ovvero a quei momenti in cui la scena è tutta costruita sul gesto, sulla corporeità degli attori, sui loro movimenti che scandiscono impeccabilmente le coreografie, arricchite a volte di piccole acrobazie. Basti ricordare al riguardo uno dei vari Papi che Dante incontra, il quale si cimenta in una vera e propria scalata al trono: mentre il Papa tenta di accomodarsi, le anime dei peccatori continuano a portare in scena sedie che mettono una sopra l’altra, fino a formare una colonna che diventa sempre più irraggiungibile per il pontefice, e quando le sedie finiscono arrivano i cuscini ad allontanare definitivamente il trono. Nei diversi passaggi gli attori sono compatti, perfettamente sincronizzati, mai una sbavatura, lontani dalle quelle imperfezioni che spesso scorgiamo sui nostri palcoscenici, dovute a cali di attenzione da parte degli attori. I giovani della scuola diretta da Nekrošius mostrano una tecnica e un rigore attoriale che a volte noi rimpiangiamo sui palcoscenici dei giorni nostri.
Ai componenti della Compagnia Meno Fortas va invece riconosciuta la capacità di esprimere al meglio la non sempre facile caratterizzazione dei personaggi scelta dal regista, nonché la capacità di reggere il palcoscenico in uno spettacolo della durata di oltre quattro ore, in cui spicca senza dubbio il protagonista. Un esempio del primo caso può essere l’attrice Ieva Triškauskaité che interpreta il ruolo di Beatrice, protagonista femminile lontanissima nello spettacolo di Nekrošius  dal nostro immaginario consolidato di donna angelicata. La Beatrice del regista lituano infatti quando entra in scena ha degli atteggiamenti sbarazzini, è una giovane donna che scherza con Dante, a cui si rivolge con suoni acuti simili al grido di un uccello. I due mostrano grande complicità e parlano attraverso i movimenti del corpo, si incontrano prima ancora che Dante inizi il suo viaggio, prima che incontri Virgilio, e il loro dialogo di gesti e vocalità si sviluppa attraverso tutto lo spettacolo. È Beatrice che segue le tappe del cammino di Dante, le sue entrate in scena appaiono a volte come un commento agli incontri di lui con le anime, ed è lei la figura con cui Dante si confronta più da vicino. Da questo punto di vista è contestabile l’affermazione che è stata fatta presentando lo spettacolo, secondo la quale l’attenzione del regista si concentra sulle figure di Dante e Virgilio, poiché quest’ultimo non risulta una presenza forte sul palcoscenico e non spicca come la guida che noi conosciamo. Virgilio appare più come una spalla di Dante, lo accompagna nel suo viaggio ultraterreno ma non lo istruisce, non ha i modi di fare né la voce del maestro, e di fatto è Dante il perno attorno al quale ruota ciò che viene rappresentato. In una sorta di definizione di ruoli Dante, interpretato da uno straordinario e profondo Rolandas Kazlas, è il protagonista indiscusso, colui che vive la storia e la scena stessa, segnandola con un’interpretazione ai massimi livelli; Virgilio, interpretato da Vaidas Vilius, è il compagno che condivide con Dante immagini e momenti del viaggio; Beatrice è il filo rosso che percorre lo spettacolo, la spinta iniziale per Dante a intraprendere il cammino e il punto d’arrivo di esso, con un’apertura verso quell’ultima tappa, il Paradiso, che viene accennato nel finale. E quello di Beatrice è anche il personaggio che maggiormente cresce durante lo spettacolo, dalla giovane sbarazzina dell’inizio alla donna sicura che si presenta come guida verso il regno dei giusti.
Ogni personaggio che Nekrošius sceglie di mostrare nella sua Divina Commedia ha una precisa e originale caratterizzazione: di Caronte ad esempio smorza l’immagine di demone severo dagli occhi infuocati mettendo in scena un personaggio che fuma una sigaretta facendo cerchi con il fumo; di Pia de’ Tolomei invece accentua l’incisività del suo racconto. Ad ogni personaggio si legano inoltre delle immagini: la coreografia degli attori giovani che con i loro movimenti rappresentano i suicidi trasformati in alberi; Paolo e Francesca che nel ricordare la loro vicenda sottolineano i due libri presenti in scena uniti dalla stessa asticella; un insolito Messaggero che vestito da postino passa tra le anime con un carretto e raccoglie le loro cartoline; il vestito scuro di Beatrice che viene colorato dai post-it che i dannati le attaccano addosso, post-it che poi ricadono a terra come coriandoli al muoversi di lei in modo leggiadro – immagine difficile a rendersi a parole, ma di grande impatto scenico!
La Divina Commedia di Nekrošius è fatta di visioni che ora stupiscono ora incantano lo spettatore, in ogni caso lo catturano in un crescendo emotivo. L’immagine finale parla da sola: sul fondo da un lato viene ricostruita Firenze con un plastico dei principali monumenti della città e con gabbie da uccelli a forma di edificio (oggetti già utilizzati scena durante lo spettacolo); dall’altro lato la grande sfera si apre a metà (a simboleggiare i due emisferi della concezione geografica dantesca) e il palcoscenico si illumina di rosso, il rosso del fuoco, ma anche della passione. Il gruppo di attori giovani circonda in una danza la riproduzione di Firenze, mentre Dante e Beatrice sono in primo piano l’uno di fronte all’altra. Dante si stacca e si avvicina al proscenio, si pone di profilo rispetto al pubblico e allarga le braccia in alto, tanto da rendere l’effetto visivo di tenere tra le mani la sfera. Poi inizia lentamente ad avvicinare le braccia fino quasi a chiuderle, tra le sue mani resta un piccolo spazio, quel tanto che basta per farci stare un libro, uno di quelli in scena che viene preso da uno dei personaggi e gli viene sospinto tra le mani. Se in quella sfera ci leggiamo il mondo, Dante lo abbraccia tutto e lo racchiude nella sua opera, in quel cammino umano e senza tempo che è la Divina Commedia, a cui Nekrošius rende l’omaggio della sua genialità registica.

Sara Nocciolini


DIVINA COMMEDIA
di  Dante Alighieri
regia  Eimuntas Nekrošius
scene  Marius Nekrošius
costumi  Nadežda Gultiajeva
musiche originali  Andrius Mamontovas
luci  Džiugas Vakrinas
con  Rolandas Kazlas, Vaidas Vilius, Darius Petrovskis, Simonas Dovidauskas, Marija Petravičiūté, Beata Tiškevič, Julija Šatkauskaité, Ieva Triškauskaité, Milda Noreikaité, Pijus Ganusauskas, Vygandas Vadeiša, Paulius Markevičius, Audronis Rūkas, Remigijus Vilkaitis
produzione  Compagnia Meno Fortas, coprodotto da Fondazione Stanislavsky (Mosca), Baltic House Festival di San Pietroburgo e Lithuanian National Drama Theatre
in collaborazione con  Teatro Pubblico Pugliese, Ministero della Cultura Lituano e Aldo Miguel Grompone, Roma
organizzazione internazionale  Aldo Miguel Grompone

18 giugno, 2012

“Il Mistero Buffo nella versione pop 2.0”. Uno smile per iniziare :-)


Piccolo Teatro Strehler, Milano. Mercoledì 13 giugno 2012

:-) Non è canonico iniziare una recensione con uno smile –benché questo tipo di scrittura sia entrata, per lo meno in un certo senso, nel nostro gergo. In ogni modo credo che non ci sia modo migliore per parlare del divertentissimo spettacolo di e con Paolo Rossi “Il Mistero Buffo nella versione pop 2.0”, visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano, in cui il comico si cimenta nel rappresentare parodicamente la vita di Gesù, anche aiutato in scena dal musicista Emanuele Dell’Aquila, in veste, tra l’altro, di “attore-spalla” del protagonista. Non è facile parlare di questo spettacolo, non è facile soprattutto spiegare quanto sia stato dilettevole. La Commedia non si può spiegare, si può solo vedere e apprezzare. Quello che si può dire è che non è facile, oggi come oggi, ammirare vere Commedie (un genere che purtroppo è diventato un sottogenere), ma per fortuna con Paolo Rossi permane di queste una grande dignità: con lui si parla di Commedia, con la “C” maiuscola.

Si comincia con una “ouverture” in cui il comico fa ironia sull’odierna situazione ecclesiastica, prendendo di mira anche lo stesso Papa, “Così rigido che anche quando cade non si scompone, rimane tale!”. Si continua poi con un omaggio a Dario Fo e al genere da lui inventato: il Grammelot, ed è così che Paolo Rossi ci racconta le vicende di un improbabile Gesù grazie alla sua bravura gestuale, che riempie di significato le parole in un antico dialetto padano –volutamente- quasi senza senso. L’attore strappa gli applausi e le risate del pubblico quando, nel secondo tempo, rinunciando al Grammelot, ci racconta storie del Gesù bambino e lo fa in modo, ancora, molto spassoso. Alla fine Paolo Rossi si rende conto che ha bisogno di un’attrice che interpreti il ruolo di Maria, ed è così che giunge sul palcoscenico Lucia Vasini, nei panni di una diva oramai fuori di testa e che, inaspettatamente, recita al meglio la sua parte nel momento in cui viene chiamata a interpretarla, dando vita all’unico momento drammatico dello spettacolo – d’altra parte l’antico Mistero non prevedeva solo parti comiche, ma anche tragiche.

Il finale è forte, quando un manichino viene inchiodato a una croce e issato verso l’alto in modo che tutti gli spettatori possano ammirarlo: quello è Gesù Cristo, che, anche se tornasse in terra, sarebbe ancora una volta incompreso, torturato e nuovamente crocifisso da una plebe ignorante.
Non è mai scurrile la comicità di Paolo Rossi, al contrario di suoi altri colleghi; nonostante tratti un tema delicato, la sua vena comica non è mai lontana dal rispetto per le persone e per l’Alta Figura del Cristo.
Le musiche di Emanuele dell’Aquila si adattano molto bene allo spettacolo –quasi un varietà, in cui è equilibrata la mano registica di Carolina De La Calle Casanova- e i due formano una coppia affiatata.
Breve ma esemplare la prova di Lucia Vasini, capace di commuovere il pubblico all’interno di un più ampio cerchio di comicità.



Il Mistero Buffo nella versione pop 2.0
regia di Carolina De La Calle Casanova
musiche composte ed eseguite dal vivo da Emanuele Dell’Aquila
con la partecipazione straordinaria di Lucia Vasini
produzione La Corte Ospitale
in collaborazione con la Fondazione Giorgio Gaber

Stefano Duranti Poccetti






15 giugno, 2012

“Black Room. La Capitale del Vizio”. Una serata all’Inferno



"Inferno" di Andrè Goncalves
Abbandono l’aria aperta di Milano per entrare all’interno dello Spazio Oberdan, nella “Black Room”, dove qualcosa di magico prende vita. Più che magico, si dovrebbe dire infernale, in un ambiente dove due maschere di Paperino e di Minnie sono collocate in una bruna atmosfera, che fa pensare a quella dell’Inferno. Le maschere si avvicinano “minacciose” agli spettatori, come a voler dire: “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate…”. Benvenuti signore e signori, siete giunti all’Inferno, dove si consumeranno i Sette Peccati Capitali!
Si comincia con il peccato di Teseo: L’Ira, dove il racconto di Bettina Bartalesi "Muori!" prende vita con la bravissima Valeria Barreca, molto abile nei cambi di ritmo, nel passare dai toni alti ai toni bassi, dai timbri irosi a quelli più lirici; brava a costruire un personaggio complesso –e doveva farlo veramente in poche parole- in cui venga giustificata l’esagerazione dell’Ira. Bisogna dire - avrei dovuto dirlo prima, ma non sarà un problema spiegarlo ora- che le brevi rappresentazioni sceniche portate sul palco non sono altro che la “trasposizione viva” dei racconti di sette scrittori arrivati finalisti a questa particolare serata. Solo alla fine scopriremo il vincitore (se non avete voglia di leggere l’articolo, se siete dunque degli accidiosi, basterà che leggiate le ultime righe e lo scoprirete), ma prima di giungere a tale verdetto continuiamo con il secondo peccato capitale: l’Avarizia, dove entra in scena un ottimo Matteo Tex, con “La morte aurea del Sign. Gino Lui” di Alessandro Continiello. Qui l’attore sfrutta al meglio l’intero spazio scenico (non solo inteso come spazio frontale del palco, ma come intero luogo teatrale), tanto è vero che delle volte ce lo troviamo davanti, delle volte siamo costretti a girarsi all’indietro, perché Gino Lui sta ora recitando tra il pubblico: un’ottima costruzione spaziale direi, peccato che una larga parte degli spettatori è un po’ pigra e vede solo quello che sta davanti, non avendo l’intenzione di girarsi all’indietro.
Valeria Barreca in "Muori!"
Si sa che spesso gli “Aspiranti Scrittori” peccano di Superbia, ed è proprio questo il titolo del terzo peccato capitale, in cui Rossana Carretto riesce a dare spessore al testo di Fabrizia Scorzoni, che alla lettura risulta un po’ banale e appariscente, in uno spettacolo che sembra farci capire questo:  In molti scrivono, ma sono pochi gli scrittori validi, e quelli che sono validi hanno il dono dell’umiltà.
L’ingresso in scena di Vincenzo Zampa è dirompente e trasforma la scena in una sorta di night-club, in cui un uomo e una donna, seminudi e in atteggiamenti sensuali, fanno da cornice all’interpretazione del protagonista… i protagonisti: lui e una bambola gonfiabile. Si capirà che parliamo della “Lussuria” e dello spettacolo “Circolo Vizioso”, su racconto di Paolo Ottomano, dove si fa forte anche l’interazione con il pubblico, soprattutto con quello femminile – per ovvie ragioni – che l’attore, per così dire, “infastidisce”. Niente di esagerato comunque, non fatevi tante fantasie e non stupitevi troppo, il gioco teatrale ha dei limiti che non possono essere valicati. Bravo Vincenzo Zampa a dare a questo testo forza, slancio e molta dinamicità, approfittando anche dei luoghi deputati dello spazio scenico e della complicità col pubblico.
È un dialogo quello tra Rossana Carretto e Silvia Pernarella, che danno vita a “DONNEsenza AFFARI” di Daria D., riguardo al peccato dell’Accidia. La Carretto è l’accidiosa, mentre la Pernarella è la donna frenetica, accecata dallo stress del lavoro e dal raggiungimento dei suoi obiettivi sociali. Funziona bene questo dialogo contrastante tra la donna perdigiorno e quella sempre in convulso movimento; due forze contrastanti che, innescandosi bene tra di loro, creano con puntualità risvolti comici, e fanno di questa rappresentazione, grazie alla bravura delle due attrici, e anche a un testo ben congegnato, una piacevole mise en scène.

Marta Pizzigallo in "L'invidiosa"
Siamo quasi alla fine e tocca all’Invidia. Marta Pizzigallo si confronta con il bel racconto “L’invidiosa” di Niva ragazzi e lo fa molto bene. Sta fissa, accanto a un’entrata secondaria del teatro, quasi al centro della sala, e recita da ferma. È brava a creare, seppur immobile, lo spazio scenico intorno a sé: ci riesce soltanto grazie alle modulazioni timbriche della sua voce. In sottofondo, intanto, echeggiano rumori onomatopeici che plasmano brillantemente l’atmosfera: si tratta di schiamazzi d’amore, sospiri di coppie che si danno piacere e buon tempo (così scriveva con eleganza il Boccaccio). D’altra parte la storia è quella di una donna e della sua invidia per l’amore provato dalle giovani coppie.
Cosa ci manca adesso? Solo il peccato di Gola, dove ritroviamo, ancora una volta, Rossana Carretto, insieme a Tito Ciotta (l’organizzatore dell’evento che non mi dimenticherò di ringraziare nel finale). “Per il tuo bene” è un testo teatrale di Maria Adele Popolo, in cui uno scrittore ingrassato viene esortato dalla moglie a dimagrire. Lei farebbe di tutto per raggiungere il suo scopo, anche comprargli una larva di tenia e fargliela ingerire! Il dramma è un po’ povero e un po’ banale, ma i due attori riescono a farlo vivere in modo distinto, riuscendo a dare dinamicità a una sceneggiatura piuttosto piatta.
La serata si è quasi conclusa, si continua con la presentazione degli autori in concorso e con un intermezzo musicale molto interessante, in cui Laura Vignes alla voce e Vanni Terzi alla fisarmonica ci fanno ascoltare l’elegante musica francese di Édith Piaf. La voce della Vignes è veramente eccezionale: sensuale e delicata, mai smielata, accompagnata del resto da un musicista del suo stesso calibro, perfettamente fluido e a suo agio sullo strumento.
  
Tito Ciotta in "Per il tuo bene"
La giuria, composta da giudici competenti nell’ambito delle discipline dell’Arte (competenti per modo di dire, c’ero anche io, giudicate un po’ voi) – a parte me, Daniela Basilico, Paolo Bosisio, Claudio Burdi, Fabrizio Canciani, Wanda Castelnuovo, Vincenzo Costantino, Cristina Di Canio, Paola Galassi, Ornella Fontana, Salvatore Longo, Daniela Marrapodi, Maria Pietroleonardo, Andrea Pinketts, Giampiero Raganelli, Emilio Russo, Gigi Saccomandi, Ambretta Sampietro, Federico Tavola-  decreta il racconto vincitore della serata. Rullo di tamburi… “Il vincitore è ‘DONNEsenzaAFFARI’ di Daria D.!”, afferma la presentatrice Sabrina Minetti e la serata finisce qui, con la targa consegnata alla vincitrice. Il mio articolo invece non è ancora finito, perlomeno non prima di aver reso merito all’organizzatore del tutto: Tito Ciotta, che per mesi e mesi si è impegnato a rendere reale un sogno e c’è riuscito. Una serata stupenda “Black Room. La Capitale del Vizio”, in cui è stato interessante capire il meccanismo che porta un testo letterario a trasformarsi in rappresentazione (tra gli attori va anche ricordata la partecipazione di Camilla Cattaneo, Gabrio Monza, Francesca Piscione, Alan Scelfo ed Erica Vitali), e questo è stato ancora più suggestivo in un’atmosfera che ricordava tanto quella dell’Inferno. 


Stefano Duranti Poccetti

13 giugno, 2012

Interviste ad attori: la magia del palco e del set. Carlà Dujany Solaro si racconta...



Tra teatro, cinema e televisione; dall’ Europa all’America; Da Tinto Brass a Terence Hill… una ricca carriera quella dell’attrice Carlà Dujany Solaro, che si racconta al nostro giornale:

Ciao Carlà, puoi presentarti brevemente ai lettori del Corriere dello Spettacolo?

Mi presento: mi chiamo Carlà Dujany, cognome di origine valdostana, di conseguenza divenuto francese in quanto la valle, per chi non lo sa, apparteneva alla Haute Savoie ed in seguito fu conquistata dall’Impero Romano! Storia a parte, invece Solaro è il  cognome di mia madre, usato per la prima volta nel film di Brass, che l’ha preferito a Dujany (più facile, ovvio) e da allora rimase quello, ma io scrivo tutti e due.

Nella tua vita ti sei dedicata sia a teatro, cinema e televisione… Hai una preferenza tra questi tre linguaggi?

Amo tutte e tre le cose: un attore deve sapersi adeguare, però ritengo che il cinema, il grande set, rimane la mia passione più grande, più magica, anche se oggi come oggi uno si accontenta di quello che gli viene proposto… di questi tempi!



Qual è l’esperienza artistica che ricordi con maggior piacere?

Bella domanda. Sarebbe banale dire tutte, in quanto ogni esperienza è diversa dall’altra e quindi bella, interessante, istruttiva, eccitante, ma forse direi che il luogo in cui mi sono sentita più a casa è una “Mecca del cinema”, parlo di Los Angeles, in cui ricordo bellissime esperienze.

E quella che ricordi con maggior dispiacere, se si può dire?

Quella con maggior dispiacere è quella in cui mi sono ritrovata a fare una figurazione speciale, con tanto di battute, invece del ruolo assegnatomi, ma, la cosa peggiore in assoluto, è stato vedere e ascoltare le mie battute da un’altra attrice che ha fatto quel ruolo al posto mio. Andai su tutte le furie con la persona (l’"agente"), che mi ci mandò e con l’aiuto-regista che, ovviamente, non ne sapeva nulla… fu una cosa vergognosa. Sarebbe stato da lasciare il set, ma, dato che sono una signora per bene (e purtroppo questo non paga), rimasi!

Parlavi prima dell’ottima preparazione americana per quanto riguardo il tuo lavoro. Tu hai lavorato in molti paesi d’Europa e del mondo, quali credi siano quelli dove esiste una migliore organizzazione sotto questo aspetto?

Senza dubbio, dal punto di vista organizzativo, l’America, anche se al secondo posto metterei l’Italia, a seconda delle produzioni però!

Cosa ne pensi dell’odierna situazione italiana? Un teatro trascurato, una televisione delle volte dannosa?

Penso che ormai, purtroppo, essendo incentrato tutto sulla televisione, è un peccato che la gente non vada più spesso a teatro o al cinema. Non siamo comunque obbligati a guardare quello che ci propongono in tv. Ora è arrivata anche l’interattività: scegli tu.

C’è un incontro che ha cambiato la tua vita?

No, direi che nessun incontro ha cambiato la mia vita.

Quali sono invece i personaggi che hai conosciuto che per te sono stati più importanti?

Ma, guarda, sono state tutte belle e, più o meno, piacevoli esperienze, devo dire che Tinto è stato per me un grande maestro anche nel suo genere e forse sono l’unica o una delle poche a dirlo e che non si lamenta o si pente di quello che ha fatto, perché Brass, che considero prima di tutto un amico, sa fare maestosamente bene il suo lavoro. È molto preciso e pignolo nelle scene e nelle inquadrature. Lo ringrazio molto per le belle esperienze passate insieme. Per quanto riguarda gli attori è ovvio che per me l’incontro con il grande Terence Hill è stato il massimo- il mio idolo da ragazzina, innamorata di quegli occhi che ho sempre sognato e che sono rimasti fulminanti anche adesso. Ricordo quella mattina che andai sul set: mi stavano truccando quando lui arrivò e fu Lui a venire da me a presentarsi… Un vero Signore con la “S” maiuscola! quale attore o attrice di oggi più improbabile  avrebbe fatto la stessa cosa? Mah…

Hai mai provato la sensazione che la tua bellezza è stata messa sopra il tuo talento?

Sì, purtroppo sempre, anche se io mi ritengo una bellezza, se si può dire, normale, come ce ne sono tante. Forse è il fascino quello che conta e dove mi rispecchio di più. Non sento che mi siano state date grandi occasioni per esprimermi a livello artistico.

Qual è il ruolo che hai interpretato che ti è rimasto più impresso?

Indubbiamente il ruolo di Michelle, la protagonista di “Snuff killer”, in cui sono una madre che cerca la propria figlia rapita, una madre che per ritrovarla si cala nei personaggi più ombrosi e squallidi che ci siano. Ho vissuto molto intensamente Michelle, talmente tanto che, specialmente in alcune scene di violenza, mentre giravamo, hanno dovuto calmarmi, perché ero troppo calata nel ruolo- pensa fin dove un attore può arrivare da sentirsi male!

È faticoso essere considerata per le strade non tanto la Carlà che si è, ma la Carlà attrice e personaggio?

No, per niente faticoso e, devo dire la verità: non mi e mai successo. Piuttosto sì, l’etichettatura di tintobrassina quella è rimasta un bel po’, ma, anzi, io sono felicissima quando mi riconoscono o mi guardano, come per dire: “Ma quella l’ho già vista e non ricordo dove e in quale ambiente o situazione”, o vengono timidamente a chiedermi se sono io che ho fatto questo e quest’altro. Ben venga!

curata da Stefano Duranti Poccetti

08 giugno, 2012

VIAGGIO ATTRAVERSO L'IMPOSSIBILE - sogni di cinema, a cura di Francesco Vignaroli. Sesta puntata: "I RACCONTI DELLA LUNA PALLIDA D'AGOSTO"



I RACCONTI DELLA LUNA PALLIDA D'AGOSTO     GIAPPONE, 1953  97' B/N
(Ugetsu monogatari)

REGIA : KENJI MIZOGUCHI

INTERPRETI : MASAYUKI MORI, SAKAER OZAWA, MACHIKO KYO, KINUYO TANAKA, MITSUKO MITO

EDIZIONE DVD : Sì, distribuito da EAGLE PICTURES





Giappone, periodo Sengoku: tra un assalto al villaggio da parte dei militari e l'altro, il vasaio Genjuro e il fratello contadino Tobei lasciano mogli e campagna per tentare la sorte in città, con la prospettiva di vendere un grosso quantitativo di manufatti. Genjuro sogna di aprire un grande magazzino per incrementare il proprio giro d'affari; Tobei vuol racimolare i soldi per comprarsi un'armatura e divenire samurai al servizio di un signore. Va male ad entrambi: il primo finisce irretito da un amore soprannaturale e proibito che lo lascia sul lastrico, mentre la moglie Miyagi muore, vittima di un'aggressione; l'altro riesce ad ottenere con l'inganno (consegna al nobile del quale vuole diventare vassallo, come prova del proprio valore bellico, la testa di un valoroso guerriero nemico che in realtà ha fatto seppuku -harakiri-, millantandone l'uccisione) l'agognata investitura a samurai, salvo poi abbandonare tutto dopo aver scoperto che la moglie ha iniziato a prostituirsi in un bordello dopo aver subito uno stupro. Alla fine, tutti fanno ritorno al villaggio per ricominciare la vecchia vita: sotto la guida dello spirito della moglie defunta e dello sguardo bisognoso del figlioletto Genichi, Genjuro riprende la propria attività, mentre Tobei impugna di nuovo la zappa insieme alla moglie Ohama.

Leone d'argento a Venezia 1953 -tre anni dopo la vittoria tutta giapponese di "RASHOMON"-, il film, tratto da due racconti di Akinari Ueda pubblicati nel 1776 ("L' ALBERGO DI ASAJI" e "LA LUBRICITA' DEL SERPENTE"), esce nel periodo d'oro del cinema giapponese, trovandosi a cavallo tra "VITA DI OHARU" del 1952 -forse l'opera più celebre e significativa di Mizoguchi- e il capolavoro kurosawiano "I SETTE SAMURAI", che uscirà l'anno successivo.Molto interessante il confronto tra quest'ultimo e "I RACCONTI DELLA LUNA PALLIDA D'AGOSTO", due film quasi contemporanei che, pur essendo ambientati nello stesso tumultuoso periodo (l'era Sengoku, del resto, è probabilmente la fase storica maggiormente rievocata dal cinema giapponese), utilizzano approcci stilistici e semantici diametralmente opposti: da un lato, l'umanesimo combinato all'elegia della vita in chiave epico/avventurosa, conditi da inserti umoristici, dell' "imperatore"; dall'altro, la dolente, statica (il cinema d'azione non è particolarmente congeniale a Mizoguchi, che, pure, in questo film propone scene insolitamente "mosse" per il suo standard abituale) e quasi incruenta parabola sulla vanità dell'apparenza e dell'ambizione realizzata dal più anziano dei due grandi maestri nipponici.







Per una volta, Mizoguchi fa retrocedere sullo sfondo le figure femminili per rappresentare in primo piano la fulminea ascesa e caduta di due uomini distrutti dal desiderio di superare i propri limiti, storditi da un gigantismo sproporzionato ("COME L'OCEANO, L'AMBIZIONE NON HA LIMITI", chiosa Tobei con la moglie) rispetto alle loro stesse possibilità di azione e comprensione. E come non riconoscere, nella cupida estasi di  un Genjuro letteralmente trasfigurato dal desiderio (come si nota dal cambiamento del suo carattere, sempre più insofferente e ostile nei confronti di tutto ciò che ostacola la produzione, sia esso il conflitto bellico o addirittura il figlio che gioca tra i vasi in preparazione), l'immagine di un qualsiasi imprenditore medio dei tempi nostri, ipnotizzato dalle promesse del capitale? Hai voglia ad assicurare questi moderni Ulisse all'albero della nave con metri e metri di corda (i moniti delle mogli, soprattutto Ohama): il richiamo delle sirene che rispondono ai nomi di successo, ricchezza, ostentazione, fama e bellezza (come nel caso di Genjuro), è irresistibile. E le donne? Già, che ne è delle donne, lasciate sole nel bel mezzo della procella? Come sempre avviene nei film di Mizoguchi (e pure nella realtà), sono loro le vittime designate in un mondo a misura d'uomo e dall'uomo dominato, nonostante spetterebbe proprio al gentil sesso -nella visione del mondo ideale del regista, uomo cresciuto in mezzo alle donne-, il ruolo-guida nella società; l'universo di Mizoguchi, ed è questa un'altra differenza di capitale importanza rispetto a Kurosawa, parla al femminile.E' molto probabile che sia il netto maschilismo di Kurosawa (cresciuto, viceversa, in un contesto familiare particolarmente virile), mai sfociante nella misognia -è bene dirlo-, quanto il femminismo convinto di Mizoguchi, dipendano dal vissuto personale dei due cineasti. Non inganni, quindi, il ruolo apparentemente subalterno riservato alle donne di questa storia: sono sempre loro, nel bene e nel male, ad orientare e condizionare (in questo caso grazie anche alla dimensione ultraterrena) le azioni degli uomini: è per amore di Ohama che Tobei rinuncia alla ridicola pantomima del samurai, gettando nel fiume i simboli del sucesso e riappropriandosi dei più consoni indumenti da contandino, in una sorta di "risveglio" da una finzione nella quale aveva finito per credere; è a causa dello sciagurato incontro con un'inquietante e misteriosa femme fatale, capace di sedurlo toccando i tasti giusti (la promessa del piacere e della bellezza assoluti), che Genjuro, artigiano quindi artista -e come tale, sensibile al fascino dell'estetica-, capitola. La principessa fantasma, morta anch'essa di morte violenta per mano dell'uomo, non è altro che la personificazione delle illusioni, delle chimere e delle tentazioni che perturbano la mente di Genjuro, che si concede di vedere ciò che vuol vedere: tutto è troppo bello (la villa, il giardino, l'amore, il bagno...il paradiso) per essere vero; una volta rinsavito (grazie alla provvidenziale protezione della preghiera buddista dipintagli sul corpo da un santone) e ritrovatosi con un pugno di mosche in mano, il vasaio decide di tornare a casa, ed è ancora una volta una presenza soprannaturale e femminile, quella della moglie, ad accoglierlo indicandogli la strada da seguire: "LE TUE ILLUSIONI SONO FINITE. RIPRENDI IL TUO LAVORO IN PACE, ORA SEI DI NUOVO TE STESSO". Ma quanto è costata, a Miyagi, la sbandata del marito! Solo il sacrificio di una donna ha reso possibile il mantenimento della speranza nel futuro (il figlio Genichi che, quasi consapevole di ciò, versa la ciotola di riso che gli dà Ohama, sopra il tumulo della mamma) di un mondo che rimane forse irredimibile: da antologia della crudeltà la scena dell'aggressione subita da Miyagi, vittima di alcuni diperati che non si fanno scrupolo di assalire e derubare una donna indifesa che ha pure un bambino sulle spalle!
Perché, in ultima analisi, Mizoguchi decide di ricorrere al soprannaturale? Forse perché la metapsichica, come le passioni di cui si fa portatrice in questo film, fa appello alla componente irrazionale presente in ognuno di noi. Ma è anche il contesto generale, come riconosce Tobei (" LA GUERRA HA OFFUSCATO LE NOSTRE MENTI"), a modificare il comportamento delle persone, specie se tale contesto è dominato dalla manifestazione più terrificante che ci sia dell'irrazionalità collettiva: la guerra. Chi è più folle tra colui che dà corpo ai propri sogni (fantasmi), e colui che decide di perseguirli cementandoli col sangue?

L' edizione DVD, buona per quanto concerne la qualità delle immagini, offre -giustamente, onde evitare il solito scempio dei doppiaggi posticci- la sola traccia audio originale con sottotitoli in italiano.

Francesco Vignaroli

06 giugno, 2012

"Molto meglio di A Chorus Line", la morte del Teatro



Al Pietro Aretino prende vita il musical di Uberto Kovacevich “Molto meglio di A Chorus Line”. E la sala sembra trasformarsi in un trionfo di colori sulle note di brani che hanno ripercorso la storia del musical: da “Mein Herr” a “Easy to be hard”, da “Don’t rain on my parade” a “When you’re good to mama”. Uno spettacolo esilarante studiato da Uberto Kovacevich  per gli allievi della Libera Accademia per salutare la stagione di saggi che si è aperta sabato scorso e che terminerà il primo luglio prossimo, con la “Lisistrata” di Aristofane. Tempi comici curati nel dettaglio, coreografie semplici, ma di grande effetto scenico e bravura degli interpreti non potevano che dare come risultato una pièce ben riuscita. Pièce resa unica da un inaspettato cambio di registro. L’intuizione del regista, l’aver scritto un copione che non lasci spazio a momenti morti, culmina infatti nel monologo di carattere critico-nostalgico affidato a Elena Romagnoli: la morte del teatro. Stabile sostituito da un discount, dove è ormai possibile comprare di tutto, tranne la polvere che si respirava sul palcoscenico. Unica pecca, l’acustica, sicuramente non eccellente, portata però a un buon livello grazie allo sforzo dei ragazzi della Libera Accademia, che ce l’hanno messa veramente tutta. Trattandosi della versione in chiave comica del celebre “A Chorus Line”, il regista si è divertito a portare in scena i tipi di possibili attori presenti a un provino: dall’apolide di Capolona - diventata subito un tormentone, grazie alla capacità di Clarissa Cilia di cambiare repentinamente il registro linguistico (dalla variante di Capolona all’italiano perfetto) senza alcuno sforzo, rendendo la variazione con la giusta mimica -  alla soubrette napoletana, la donna di mondo che non si lascia scalfire, interpretata dalla neodiplomata Maria Anna Vona, che, sulle note del brano a lei affidato di Lisa Minelli, è riuscita a trasformare il piccolo teatro in un angolo di cabaret, grazie alla sua potente voce e alle sue movenze (in questo caso curate direttamente dal regista Kovacevich) in uno sfarzoso abito anni ‘30. Per lei, gli applausi fragorosi del pubblico. Ma il merito va a tutti i ragazzi, impossibile nominarli tutti. La ballerina di charleston (Sara Daveri), l’ingenua ragazza di campagna (Francesca Pantaleone), il Dongiovanni del momento (Stefano Concialdi). Ragazzi che, a turno, si sono messi alla prova, regalando al pubblico momenti di puro divertimento e una performance finale di tre brani corali “Season of love”, “You can’t stop the bit” e “Take off with us”. 

“Molto meglio di A Chorus Line”
di Uberto Kovacevich
Coreografie di Francesca Ceccatelli
Giochi coreografici di Sara Daveri e Uberto Kovacevich
Direzione musicale di Alessandra Cartocci
regia di Uberto Kovacevich
con Samuel Blandini, Clarissa Cilia, Lucia Cioncolini, Stefano Concialdi, Sara Daveri, Stefano Graverini, Antonella Imbriani, Elena Molino, Francesca Pantaleone, Elena Romagnoli, Maria Anna Vona


Micaela Caporale