20 ottobre, 2014

“Vocazione” di Danio Manfredini. La vocazione invisibile. Di Cristina Zanotto


Teatro delle Passioni, Modena, Festival Vie – Modena. Sabato 11 ottobre 2014

Ho rivisto Manfredini dopo quasi sette anni.
La prima volta lo vidi sul palco per lo spettacolo Il Sacro segno dei Mostri, sempre all’interno del Vie Festival a Modena.
Questa volta lo ritrovo, sempre sullo stesso palco, con lo spettacolo Vocazione.
Con la parola vocazione si individua una persona che ha un trasporto innato nel vivere un certo tipo di vita, che ha una particolare sensibilità.

La vocazione, qualcosa di forte che spinge la persona a intraprendere una strada che sente dal di dentro, che è quella e quella soltanto. Vocazione è sacrificio, passione, amore incondizionato verso qualcosa che non sai nemmeno se ti farà bene, se ti farà felice.
Vocazione è un istinto a percorre una strada che non sai bene nemmeno tu dove finisce.

Manfredini porta in scena Vocazione, un viaggio se vogliamo nei meandri intimi dei pensieri dell’attore, nelle sue paure, nel desiderio di diventare qualcuno, di essere ricordato, la paura del fallimento, la rassegnazione nella vecchiaia.
Un quadro comico, ironico e a tratti straziante. Lo racconta attraverso pezzi di suoi spettacoli e di personaggi di lavori importanti come Nina del Gabbiano di Cechov, Minetti di Thomas Bernhard, (lo incontriamo all’inizio, il ritratto dell’anziano divo la cui esistenza sembra possibile solo nei panni di Re Lear). E poi c’è il Canto del cigno di Cechov e l’attore fallito di Un anno con 13 lune di Fassbinder, diventato il cinico uomo d’affari pronto ad abbandonare l’amante incolpandola della sua misera fine, lei che per lui ha cambiato sesso.

Un palco quasi spoglio, qualche sedia ai lati della scena, un telo bianco che fa da sfondo. Al fianco di Manfredini c’è Vincenzo Del Prete, suo fedele compagno di lavoro che in scena sembra incarnare il ruolo della ragionevolezza. I due attori accompagnano lo spettatore in una discesa nei meandri della “disperazione attoriale”, in un vortice di personaggi e di situazioni, l’attore dannato, imprigionato dai suoi costumi, dalle sue molteplici realtà che non sono la sua realtà, la “condanna” consapevole di svuotarsi ogni volta che si entra sul palco, di annullarsi, per dare spazio al personaggio. La tragica commedia degli eventi.
Ciò che tocca nel profondo, a mio avviso, è la capacità di trasformazione di Manfredini in scena che è uno spettacolo per gli occhi e il cuore, un teatro fatto d’uomo e ci si rende conto di come la forza del palcoscenico sia nella potenza del personaggio che porta il pubblico in un'altra dimensione. Non servono effetti scenici strabilianti, musiche assordanti o invenzioni assurde, basta l’attore ma quello che ti smuove qualcosa dal di dentro, che ti fa stare seduto li in quel momento, nella platea buia, e non desideri andare da altre parti se non rimanere in quell’istante, quello che ti fa ridere e commuovere nel rapido cambio del respiro.

Come dice il Maestro:
quando dico lavori “teatrali” intendo che siano in grado di sollevare dei sentimenti. Una sorpresa, un incanto, un particolare stato d’animo. Il teatro per me va a collocarsi in quella zona dell’arte che smuove un dentro.” [D.Manfredini]

Manfredini smuove “il di dentro” e ti fa uscire dal teatro con l’anima frammentata, col cuore che trabocca di qualcosa che non sai definire, ma è soprattutto in quelle volte che succede che capisco perché amo il teatro.


Cristina Zanotto

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