15 aprile, 2014

“Via D’Amelio 19-cronaca di una morte annunciata”: è bello morire per ciò in cui si crede. Di Francesca Saveria Cimmino


Nuovo Teatro Sanità, Napoli. Dall’11 al 13 aprile 2014

“Via D’Amelio 19-cronaca di una morte annunciata” diretto ed interpretato da Ciro Pellegrino (che ne ha curato anche le musiche), in scena dall’11 al 13 aprile 2014 presso il Nuovo Teatro Sanità di Napoli, è interpretato da Sergio Savastano, Paola Maddalena, Sara Missaglia e Fabio Balsamo. Via D’Amelio 19 era la via dove abitava Maria Pia Lepanto, madre di Paolo Borsellino; e fu lì che il 19 luglio 1992 il magistrato anti-mafia e quattro agenti della sua scorta rimasero vittime di un’esplosione. Solo Antonino Vullo si salvò. Si prova, ancora una volta, a raccontare la vita di un uomo che sentiva e sapeva di avere “la morte alle spalle”, specialmente dopo la strage di Capaci, in cui Giovanni Falcone, la moglie Francesca e tre poliziotti persero la vita, il 23 maggio 1992. Due colleghi, due amici, due confidenti. Quando Falcone morì, Borsellino si svuotò di entusiasmo e passione: la perdita dell’amico fu una ferita profonda, un colpo all’anima. In realtà, già nel 1983 con l’uccisione di Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio Istruzione, il giudice provò un forte dolore. Pian piano, la mafia colpiva tutti e sarebbe arrivato anche il loro momento; ne erano ben consci.  “Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano”, fu proprio Paolo a citare questa frase di Ninni Cassarà durante un’intervista rilasciata a Lamberto Sposini.
  Lo spettacolo è un rewind sulla vita di Borsellino utilizzando installazioni audio-visuali, già sperimentate precedentemente dal regista Pellegrino. La frase “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola” tratta dall’opera Giulio Cesare di W. Shakespeare, riecheggia dal principio alla fine di una messa in scena di circa sessanta minuti. È difficile raccontare un uomo che ha vissuto per la giustizia e per le sue idee; è complesso perché, oltre a lasciare un immenso amaro in bocca, Borsellino, come Falcone e poche altre persone oneste, hanno lasciato un vuoto, un esempio, un insegnamento. Bisognava lottare la mafia e doveva essere un movimento sociale, culturale e morale di tutti; ma così non fu. “La mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci”. Borsellino non si capacitava della corruzione che perfino nel suo settore si era radicata e questo ha procurato un forte dispiacere a chi onestamente e con dedizione svolgeva il proprio mestiere. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati uccisi con l’unica accusa di essere state persone per bene. Ci hanno creduto, hanno creduto che dopo di loro le idee sarebbero rimaste e avrebbero continuato a camminare sulle gambe di altri uomini. Così è stato. Il loro esempio, il loro sacrificio, la loro morte ha portato ad una frattura indelebile ma anche ad una nuova consapevolezza, ad una coscienza morale. Lo scopo era cambiare ciò che non piaceva e, prima ancora, imparare ad amarlo. La casa di sua madre era disegnata sulla sua agenda con una freccia e un cerchio, volti a significare il ritorno al nido. Ed è proprio in prossimità di quel nido che Borsellino trova la vita come la morte. L’abbraccio della madre alla nascita che simbolicamente torna negli ultimi istanti della sua vita. Una morte che segue quella di Giovanni Falcone di 57 giorni. Paolo Borsellino era a conoscenza che non avrebbe visto l’esito del suo lavoro:  aveva paura per la sua scorta, sapeva che dall’alto non stessero prendendo le misure cautelari richieste e previste. Comprendeva che il prossimo sarebbe stato lui; ma immaginava che tutto ciò avrebbe scosso le coscienze della gente. Una lunga amicizia quella con Falcone, sin da quando indossavano i calzoni corti. Dalla sua morte Paolo si è chiuso in casa: niente più cinema, teatro, passeggiate. Da quel momento il giudice ha iniziato ad avere una libertà vigilata mentre i mafiosi erano a spasso. Un sistema completamente rovesciato: da lì la paura iniziava a farsi sentire, ma Borsellino, prima di tutto, aveva coraggio. Dalla morte di Falcone era sotto i riflettori: si conoscevano tutte le sue abitudini, tutti i suoi spostamenti. Fin quando l’amico Giovanni visse, Paolo era colui che sdrammatizzava tutto; poi perse il sorriso. Provò ad abituare i figli all’idea di vivere senza un padre. Si sforzò di assentarsi e far staccare il cordone ombelicale. Il 19 luglio 1992 in Via D’Amelio 19, senza scrupoli e senza etica, cinque persone sono state fatte esplodere per mano di Giuseppe Graviano, colui che ha premuto quel tasto del telecomando. Da quel giorno sono trascorsi 22 lunghissimi anni; eppure sembra ieri. Paolo Borsellino ha raggiunto l’amico storico: “Aspettami Giovanni che arrivo. Ora stiamo a casa. È bello morire per ciò in cui si crede”. E, probabilmente, questo è il momento più interessante della scelta registica di Pellegrino. Il vero amore consiste nell’amare ciò che non piace e poterlo cambiare. Forse non hanno potuto cambiarlo, ma hanno fatto aprire gli occhi alla gente: hanno fatto comprendere che bisogna crederci e bisogna lottare. L’Italia ha perso, allora, due simboli, due volti che hanno modificato radicalmente la nostra Storia. Li ha persi ma mai dimenticati; e questa è la nostra forza in una immensa sconfitta. Complesso raccontare tali personalità, il rischio è sempre quello di scadere nella banalità. Forse qualche punto poteva essere approfondito, rimarcato. Forse una maggiore analisi, anche psicologica, avrebbe reso il lavoro ancor più originale. Ogni attore era narratore e personaggio e in questo il regista ha trovato un valido escamotage per poter raccontare, prima e dopo, da dentro e da fuori, una storia dalle mille sfumature e forme. Non era una sfida semplice.

Francesca Saveria Cimmino


VIA D’AMELIO,19
Con Paola Maddalena, Sara Missaglia Sergio Savastano, Ciro Pellegrino, Fabio Balsamo.

Scritto e diretto da Ciro Pellegrino

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