01 marzo, 2014

VIAGGIO ATTRAVERSO L'IMPOSSIBILE - sogni di cinema, a cura di Francesco Vignaroli. Puntata numero 16: " UN CONDANNATO A MORTE E’ FUGGITO".


UN CONDANNATO A MORTE E’ FUGGITO         

FRANCIA 1956  97’ B/N
(Un condamné à mort s’est échappé)

REGIA : ROBERT BRESSON

INTERPRETI : FRANCOIS LETERRIER, ROLAND MONOD, CHARLES LE CLAINCHE, JEAN-PAUL DELUMEAU, JACQUES ERTAUD

EDIZIONE DVD : SI’, distribuito da SAN PAOLO MULTIMEDIA

Lione, 1943: prigioniero dei tedeschi nel Fort de Montluc, il tenente Fontaine (Leterrier), membro della resistenza francese, decide di non aspettare l’esecuzione della condanna a morte che pende sul suo capo, e a tale scopo organizza con astuzia e pazienza un meticoloso piano di fuga, trovando nel giovanissimo compagno di cella Jost un insperato e decisivo alleato sulla strada per la libertà.

Diario di un’evasione secondo Bresson, uno dei registi più rigorosi ed essenziali della storia del cinema, un vero e proprio asceta della settima arte. Agli antipodi rispetto al successivo, classico filone carcerario all’americana, tutto imperniato sull’azione e sulla tipizzazione dei personaggi -per fare un paio di esempi noti: “FUGA DA ALCATRAZ” (1979) e “LE ALI DELLA LIBERTA’ “(1994)- , il regista francese affronta un tema potenzialmente spettacolare applicando alla lettera, come sempre, il suo credo cinematografico, sulla scia della lezione dei fratelli Lumière: è il cinematografo, inteso come rappresentazione immediata e senza abbellimenti della realtà, il giusto approccio ideologico alla macchina da presa e non il cinema, visto come fabbrica di sogni e illusioni (come voleva invece George Méliès); da qui ne consegue un utilizzo moderato e piuttosto statico delle inquadrature, prive di quella dinamicità e dei virtuosismi acrobatici che caratterizzano solitamente il cinema d’azione. Essenzialità, semplicità e rigore sono dunque le regole fondamentali e sufficienti per fare un film, almeno secondo il Maestro francese. Che ci comunica subito le sue intenzioni con l’esplicita didascalia autografa che precede il film, un vero e proprio manifesto programmatico, una perentoria dichiarazione di intenti: “QUESTA E’ UNA STORIA VERITIERA, IO VE LA DO COSI’ COM’ E’ REALMENTE, SENZA ORPELLI”…più chiaro di così! Con il trattamento bressoniano, l’avventuroso racconto autobiografico di André Devigny (presente sul set in qualità di consulente tecnico) che ha ispirato la pellicola viene reso nella sua parte più umana, cioè come cronaca quotidiana, raccolta e introspettiva, della lotta di un uomo contro una prigionia più interiore che fisica, un occasione per mettere alla prova le proprie capacità, una sfida ai propri limiti che va oltre la naturale volontà di sopravvivenza: “PERCHE’ LO FAI?” , gli domanda il vecchio e rassegnato Blanchet, rinchiuso nella cella accanto, riferendosi al progetto dell’evasione, e Fontaine gli risponde: “PER LOTTARE. LOTTARE CONTRO IL MURO, LOTTARE CONTRO ME E CONTRO LA PORTA”. Al centro di tutto ci sono il protagonista e il suo senso d’oppressione, come ci mostrano  gli strettissimi campi e i claustrofobici primi piani (del viso, delle mani, degli oggetti) con cui il regista segue la lenta marcia di avvicinamento alla salvezza del tenente Fontaine; l’azione è limitata al minimo indispensabile per mantenere la narrazione fluida e comprensibile, e si concentra per lo più nei minuti finali, quelli dell’evasione; per il resto, Bresson decide di rinunciavi, riuscendo comunque ad appassionarci alla sorte del protagonista e a creare pathos e suspense grazie a pochi, semplici elementi statici, come i rumori degli oggetti, le espressioni dei volti e i dubbi interiori di Fontaine (Jost è un semplice prigioniero oppure una spia?). C’è una scena all’inizio del film che è sintomatica del rapporto che il regista ha con l’azione, e per questo vale la pena di citarla: l’inquadratura mostra Fontaine seduto nel retro dell’auto che lo sta portando in carcere; accanto a lui c’è un altro prigioniero, ammanettato ad un terzo uomo che non vediamo; approfittando di una sosta della macchina per l’attraversamento di un tram, Fontaine apre lo sportello ed esce tentando la fuga a piedi, ma le guardie lo riacciuffano prontamente e lo riconducono al suo posto. Ebbene, tutta la sequenza della fuga e dell’immediata cattura susseguente avviene fuori campo, e noi riusciamo soltanto ad intuirla, poiché la camera rimane all’interno dell’abitacolo dell’auto, fissa sulla figura dell’altro prigioniero, il quale si mostra impassibile per tutta la durata della scena, che si chiude con Fontaine che viene ammanettato in malo modo, con l’ausilio del calcio di una pistola; questo lascia intuire un’imminente violenza ai danni del protagonista, che ancora una volta però non vediamo direttamente (la scena sfuma appena in tempo), ma la deduciamo, nella sequenza successiva, dal viso insanguinato di Fontaine, giunto ormai alla prigione: ciò che non è essenziale allo sviluppo della storia, non viene mostrato (ciò vale anche per la violenza), e questo certosino lavoro di sottrazione trova la sua giustificazione nella volontà radicale, da parte di Bresson, di raggiungere un’assoluta purezza d’espressione. La trasparenza innanzi tutto, come nel caso dell’opera presente: il voto di povertà, o, meglio, di essenzialità, la caratterizza ad ogni livello, compreso quello recitativo, con la scelta di utilizzare attori non professionisti ai quali viene imposta una recitazione sottotono e monocorde, vedere l’impressionante e costante assenza di espressione nel volto del protagonista per credere; e compreso, infine, quello uditivo, con la rinuncia ad una colonna sonora vera e propria, eccezion fatta per il ricorrente quanto suggestivo utilizzo della “MESSA IN DO MINORE” di Mozart, unico spazio musicale in un film dominato dai rumori e dai silenzi. La sola, apparente concessione alle esigenze dello spettacolo sembra essere l’utilizzo dell’io narrante, impiegato in realtà per esprimere la dimensione essenzialmente intima della vicenda, così come viene elaborata nella mente del fuggiasco. Il risultato dà pienamente ragione al “cinema delle origini” professato dal regista: quello cui ci troviamo di fronte è un assoluto capolavoro, uno struggente ed emozionante canto di libertà –tanto fisica quanto mentale- condotto con estremo pudore e innervato da una continua ed elevata tensione morale, il tutto all’insegna di un voluto pauperismo, ottenuto grazie all’impiego di un’ineguagliabile razionalità di utilizzo dei mezzi espressivi del cinema. Finale liberatorio, tanto per i due evasi quanto per noi spettatori, con la macchina da presa che finalmente ci concede un po’ di respiro con un campo lungo, emblematicamente rivolto, tuttavia, verso un orizzonte di oscura incertezza.
Il film è conosciuto anche con il titolo originale alternativo “LE VENT SOUFFLE OU’ IL VEUT”, perché, secondo le parole dello stesso Bresson, “IL FILM E’ UN MISTERO. IL VENTO SOFFIA DOVE VUOLE”.

Oltre alla classica edizione DVD, il film è disponibile anche nel bel cofanetto cartonato della collana “Grandi film/grandi firme”, edita sempre da “SAN PAOLO”, che al disco aggiunge un breve ed interessante saggio del critico Claudio G. Fava.


Francesco Vignaroli

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