08 febbraio, 2014

"Giulio Cesare" di William Shakespeare. "Una meschina cosa come Cesare". Di Massimo Quarta


Teatro Mecenate, Arezzo. Mercoledì 5 Febbraio 2014

"Che ammasso di rifiuti, che putrido carnaio, questa Roma, che si fa usar come materia vile ad accendere il fuoco onde s'illumina una meschina cosa come Cesare!" [Cassio, atto I, scena III]

Tre porte, una poltrona e poc'altro. Non ci si illuda però, neppure al cospetto di un grande imperatore, l'essenziale diventa visibile agli occhi: l'ambientazione onirica, tale fin dal principio, è pregna di simboli che racchiudono concetti chiave di tutta l'opera. In particolare le porte e le mani, quasi incantatrici, che da dietro le porte "sbucano" rappresentano il potere del palazzo: pronto a sporcare le proprie mani di sangue e nello stesso istante a pulirle vicendevolmente con le altre; pronto a nascondersi tra le colonne, o nelle fattispecie tra le porte, del "Campidoglio" e, nascondendo il proprio viso nel buio, a congiurare e colpire un altro potere, uno migliore. Queste mani, oserei dire artigli, sone le mani di una Roma avida, sporca e corrotta. In questo lavoro di controscena la compagnia è stata costantemente presente e impeccabile, riuscendo, anche attraverso questi escamotage scenici e stilistici, a mettere perfettamente in risalto aspetti che, data la grande riduzione del testo, sarebbero non potuti emergere.
La regia di Baracco, infatti, scarna il testo del celebre drammaturgo inglese, ottenendo così un brillante risultato: il raggiungimento del'osso, del midollo della tragedia: un linguaggio riadattato, coinciso e diretto, accessibile e allo stesso tempo nel rispetto dell'Autore, e un numero esiguo di attori (quando si dice "pochi, ma buoni!") hanno permesso una resa più che efficace, che non tarda a mostrarci come sia piccolo e misero l'uomo che brama con ossessione e avidità il potere, che, oltrettutto, come cantava un genovese un paio di decenni fa, non può mai essere buono.
In tutto ciò, nondimeno, c'è una grande assenza, quella del protagonista: Giulio Cesare non è mai fisicamente in scena, eppure lo è sempre indirettamente, attraverso dissidi interni e non dei e tra i vari personaggi. Una scelta coraggiosa, ma più che mai azzeccata. Rappresentare il potere, quello che dovrebbe essere il più nobile, con la sua assenza, non solo è stilisticamente una scelta semantica raffinata, ma, volendo attualizzare un po' la situazione, quanto mai una verità e una realtà dei nostri giorni. La Roma di Shakespeare non è lontana, purtroppo, dalla nostra.
In ogni caso, Cesare rimane sulla bocca di tutti, specie su quella dei congiurati, anche in punto di morte, quando si rendono conto dell'errore... come spesso accade, ormai troppo tardi.
Quando le Idi di Marzo arrivano in scena, in un'atmosfera che a qualcuno potrebbe apparire come un po' troppo pulp, Cesare è un posto vuoto. Questa scelta, inoltre, ha permesso di dare maggior risalto anche ad altri personaggi, in particolare Bruto e Cassio, interpretati rispettivamente da Giandomenico Cupaiuolo e Roberto Manzi.
Sebbene non vengano ricordati come massimi esempi di splendore, Bruto e Cassio, per non parlare anche degli altri, rimangono ugualmente grandi esempi di uomini politici, combattuti, ciascuno a modo suo, da forti battaglie etiche e filosofiche. Nonostante tutto, anche pensando a loro, l'attualizzazione con gli odierni uomini politici rattrista gli spiriti.

Massimo Quarta


adattamento Vincenzo Manna e Andrea Baracco
regia Andrea Baracco
con Giandomenico Cupaiuolo, Roberto Manzi, Ersilia Lombardo, Lucas Waldem Zanforlini, Livia Castiglioni, Gabriele Portoghese
foto Giuseppe di Stefano
scene Arcangela di Lorenzo
consulente ai costumi Mariano Tufano
disegno luci Javier Delle Monache
regista assistente Malvina Giordana

produzione 369gradi

Lungta Film/ Teatro di Roma

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