10 gennaio, 2014

Sebastiano Triulzi, racconta la contemporaneità. Intervista curata da Andrea Axel Nobile


Sebastiano Triulzi, giornalista, scrittore, uomo di cultura che cerca sempre di raccontare la realtà con una prospettiva letteraria, cosa che lo rende unico nel suo stile. Da molti definito il capostipite della “letteratura giornalistica” contemporanea, è amato e seguito dai giovani per il suo linguaggio. Quando s’incontra un uomo di cultura, come lui, si fa quasi sempre un viaggio di sola andata, in nuovi paradigmi, in nuovi mondi e negli angoli più remoti di ognuno di noi.

Sebastiano tu sei uno dei giornalisti e scrittori fra più amati tra i giovani. Nonostante questo grosso periodo di crisi che sconforta, ci sono tanti che ci provano ancora, cosa ti senti di consigliare?

Francamente non penso di essere nella posizione di poter dare consigli né mi sento un esempio per qualcuno. Nei miei due mondi lavorativi – il giornalismo e l’università – la precarietà è una costante. Ogni tanto vagheggio di gettare metaforicamente la mia bacchetta come Prospero e di ricominciare altrove, ma credo che questa sia la dannazione della generazione a cui appartengo, e certo anche di quella successiva alla mia: agognare un’ancora di salvezza che non potrà mai arrivare. Oltre ad un senso del vuoto, che non implica necessariamente il desiderio immediato di precipitarvi dentro; un vuoto che cerca di essere supplito dal pieno degli oggetti colmo di bisogni indotti, come sosteneva Pasolini in anticipo sui tempi. Abbiamo progresso sì, non certo sviluppo, su questo forse siamo tutti d’accordo. Ai miei studenti ripeto che c’è una sola strada da percorrere: quella dell’impegno; che bisogna inseguire i propri sogni; che non bisogna smettere di cercare, qualsiasi cosa stiamo cercando. Dico loro anche altro però: che i dadi sono truccati, ad esempio. Marx lo scrive in francese, forse un vezzo (“Les Dés Sont Pipés”). La sua analisi del capitalismo mi sembra così vicina ai nostri tempi, come quando parla dell’impoverimento dei lavoratori e della diminuzione relativa dei salari, quando afferma che lungi dall’emanciparci dal lavoro oggi ne sembriamo sempre più schiavi; quando affronta il concetto di plusvalore e il modo fraudolento con cui viene guadagnato; quando sogna, in un senso cristologico, di far vivere l’essere umano al di sopra delle proprie possibilità. Dovremmo restituire il Capitale alla storia della letteratura occidentale, come abbiamo fatto con la Bibbia, con l’Iliade e l’Odissea, con il teatro shakespeariano, certo considerandolo interamente un’opera così piena di pregi e difetti, febbrile, talvolta pedissequa, spesso storta o delirante, però geniale.
In Italia abbiamo conosciuto l’aspetto grottesco e plebiscitario, disumanizzante e ottuso dell’ottimismo del liberalismo, incarnato dal ventennio berlusconiano. In questo senso, e solo in questo senso, abbiamo un vantaggio sull’Europa, anche se non so quanti effettivi anticorpi possiamo aver sviluppato. Abbiamo introiettato – perché ripetuta fino allo sfinimento - una delle presunzioni del capitalismo, quella di essere umanitario, di essere generoso; ci hanno detto che gli imprenditori sono dei benefattori perché creano lavoro e quindi dobbiamo stare loro vicini e andare loro in soccorso, poiché sono necessarie la nostra cura e la nostra premura quanto indispensabili sono le nostre sovvenzioni (attraverso la mano dello Stato). Quale ipocrisia! Le nostre sono vite della non felicità, come forse lo sono state quelle dei nostri genitori, ma senza l’utopia che ha segnato gli anni Sessanta. Dai romanzi degli scrittori italiani è sparita la categoria dei ribelli con causa, dei sognatori e utopisti: la mancanza di vere prospettive lavorative, l’assenza di diritti e di tutele per i giovani, la prevaricazione dei potenti, la gestione delle risorse pubbliche come affari privati, la vessazione della burocrazia e delle Istituzioni, forti contro i deboli e asserviti con i forti, lo sfruttamento e la povertà che ne sono derivati, hanno ristretto drammaticamente ogni istanza di felicità delle nuove generazioni in Italia. C’è una tale rabbia nelle strade che non sentirla è da sordi. E questa rabbia s’è trasformata in odio generazionale, poco importa se violenta o rassegnata; i figli odiano i loro padri perché hanno fatto debiti sulle loro teste rendendoli poveri per sempre, perché non li hanno protetti, tradendo un atavico compito sociale; perché hanno lasciato in eredità una mentalità collettiva corrotta fin nelle budella. E per altri mille e uno perché. Se salta il patto sociale che ci lega gli uni agli altri sono guai. Per ora la protesta non si è trasformata in una visione politica, è rimasta fine a se stessa come l’atto di sfasciare un bancomat, o la violenza organizzata dall’estrema destra negli stadi, o gli scontri con le forze dell’ordine. Forse avendo constatato con mano le ipocrisie e gli orrori dell’ideologia ancora non abbiamo trovato una soluzione costruttiva e veramente inclusiva, oltre a quella di essere imprenditori di se stessi. Bisogna continuare a cercare questa soluzione e a prendere esempio da quanto di buono accade sul territorio.

Nei tuoi articoli si respira un’aria, non solo puramente giornalistica ma anche molto letteraria, attenta alla contemporaneità, ma quale è la tua fonte di ispirazione?

Sempre più spesso mi accorgo che la letteratura è il mio punto di vista. Prima tutto questo era forse solo più istintivo, ora mi sembra più consapevole - o ne sono consapevolmente rassegnato. Osservo i contesti attorno a me – le persone, gli atteggiamenti, i sentimenti - confrontandoli con le storie che ho letto, o viceversa, come se potessero davvero comunicare, come se uno potesse illuminare l’altro. I miei amici sopportano pazientemente questi miei racconti, spesso exempla all’incontrario. Mi rammarico per quanto non ho trattenuto e conservato, ma ci sono sempre nuove parole che sostituiscono quelle precedenti; le parole sono foglie, sono folletti che dicono «l’anima ci manda», ricorda la splendida Lode di Ysolt di Pound? I libri sono ingressi, sono soglie di cui ho bisogno per leggere l’altro o la realtà. C’è una cosa di cui sono però convinto: leggere libri non dà alcuna superiorità morale. Questa supponenza è tipica dell’uomo occidentale acculturato ed io stesso non ne sono stato immune quando ero più piccolo. Guardare i nostri programmi televisivi sui libri o entrare in un’aula universitaria potrebbe essere un buon modo per osservare il tipo di vanità di cui sto parlando. Chi ama leggere crede che tale azione comporti di per sé una elevazione, il che determina un sentimento di superiorità: se ami la buona musica, i buoni libri, o hai un’ammirazione per la cultura, allora automaticamente sei dotato di un’anima migliore. Che sciocchezza! La cultura come campo morale, come eccellenza è un terreno minato, e secondo me il razzismo culturale è pericolosissimo, al limite si può utilizzare solo all’interno della propria categoria. Le biblioteche dei nazisti erano piene di libri; moltissimi, e non solo i gerarchi erano amanti del bello e della musica, avevano il culto della lingua, erano eruditi e collezionisti d’arte.

La tua letteratura viene sancita come “letteratura giornalistica”, come ti risenti in questa dimensione  letteraria?

Il giornalismo è una forma di espressione della letteratura. Non ti permette di pensare tanto, perché devi scrivere velocemente e quindi un’autocritica rigorosa è ardua da fare. Faccio mio ciò che mi disse un giorno Eduardo Galeano: «C’è una concezione classista che mette i libri nel piano più alto dell’altare e il giornalismo nei sobborghi poveri. Non ci credo. Credo invece che abbiamo una responsabilità quando scriviamo, qualsiasi sia la forma che scegliamo».
Sebastiano Triulzi al Noir Festival di Courmayeur

Che rapporto hai con la rete? pensi che il web ha sancito la fine dell’approfondimento culturale come processo minoritario rispetto alla classica divulgazione?

Il primo browser che ho usato si chiamava Netscape, il che può far capire anche da quanto tempo agisco e al contempo sono agito dalla Rete. Mi immagino che avranno immagazzinato così tanti dati che non sanno cosa farsene veramente. Per il marketing forse hanno un valore solo i più recenti. La nostra spazzatura digitale, una volta che non ci saremo più, interesserà solo ai nuovi storici, psicostorici per citare Asimov, che lessi avidamente quand’ero adolescente. Non credo assolutamente che il web abbia ristretto il campo di azione culturalmente parlando, è vero invece l’inverso: un ricercatore, come un investigatore o un semplice consumatore, ha accesso ad una moltitudine di dati e informazioni che prima non poteva in alcun modo raggiungere. Questo pone altri problemi, come l’uso corretto delle fonti o la proprietà intellettuale, il rischio di accontentarsi di ciò che si trova sulla rete o il fatto che tutto ciò che viene pubblicato potenzialmente rimane per sempre visibile. Secondo la teoria del non progresso della storia di Foucault dietro ogni scoperta c'è una parte negativa che non avevamo visto all'inizio, magari presi dall'entusiasmo. Ed è terribilmente vero.  

Il web ha portato anche un impoverimento linguistico, sia nella lingua quella parlata che scritta, questo lo si evince anche delle tecniche di scrittura degli articoli, che ricercano sempre di più  un linguaggio stringato e veloce. Quale pensi che sia l’evoluzione di questo processo culturale?

Non ho formule per il futuro ma posso dire che non sono d’accordo sull’impoverimento linguistico. Sul web non ci sono solo articoli giornalistici, c’è molto altro. Un discorso a parte meriterebbe il controllo dell’informazione e il fatto che la salvaguardia degli interessi dell'industria (culturale e non solo) venga spesso prima dell'interesse generale. E quando ne saprò di più, potrò risponderle sul rapporto tra neuroscienza e linguistica (o letteratura); vorrei continuare a fare ricerca all’università proprio su questo punto che mi sembra essenziale, sui cambiamenti che l’avvento del digitale sta apportando nel nostro rapporto con la parola. Per ora mi posso limitare ad un discorso generale.
La lingua è sempre in movimento, almeno quanto il segno è arbitrario. Sappiamo, in primo luogo per esperienza, che la lingua è fatta da una comunità di parlanti e che si conserva proprio perché si rinnova; altrimenti, se si smette di usarla e dunque di alterarla, muore. In assoluto però potremmo pensare alla nostra lingua come l’insieme di tutti i segni possibili, di tutte le loro continue e incessanti combinazioni, qualcosa «di esatto e di occulto» per citare lo scudo manganelliano. Il che mi fa pensare al sogno forse illusorio ma non per questo meno potente, di tanti poeti o scrittori: quello del primato del significante sul significato, della parola vuota, pura presenza. Se non ricordo male, proprio nella sua autobiografia Carmelo Bene sostiene che il significato è una sorta di sasso in bocca al significate, nel senso che rende meno bella la parola. Certo lui lavorava sulla voce, sul timbro, sull’elemento musicale. Non voglio arrivare al paradosso per cui possiamo cogliere il senso di ciascuna parola solo quando questa è in opposizione a tutte le altre. Voglio dire, leopardianamente, che più una lingua abbonda di parole più mi sembra perfetta per la letteratura, o anche per spiegare noi stessi e ciò che ci circonda. Dire che siamo colonizzati dall’inglese suona come una ovvietà; d’altronde la nostra subalternità è economica, è politica, è culturale, ecc., e allora perché non dovrebbe essere anche linguistica? Eppure c’è sempre la possibilità di una rivincita come insegnano le letterature postcoloniali. L’atro giorno in autobus una ragazza, parlando di un ex fidanzato, ha usato questa espressione: «m’ha stolkato». Ecco che significa destare l’immagine di un oggetto, di una situazione. Al festival del Noir, ho visto un film che spero arrivi in Italia, si intitola Dom Hemingway: l’intero film è un tripudio di iperboli e metafore, paradossi e metonimie, e il fatto che possano risultare volgari mi è indifferente. L’invenzione linguistica, che qui ha la precedenza sulla trama, contiene in sé elementi di magia.
Nella modernità linguistica sento una ricchezza, non un limite, nonostante abbia spesso la testa rivolta al passato: ed è vero anche l’inverso secondo me, che è possibile assaporare la gioia dell’antico proprio perché continuamente la lingua si trasforma e muta nel corso del tempo. Mia figlia Sofia, che frequenta la quinta elementare, ha dovuto imparare a memoria Il sabato del villaggio, e dopo un momento di spaesamento («che lingua è?»), ha scoperto un mondo. Il suo verso preferito è questo: I fanciulli gridando / Su la piazzuola in frotta / E qua e là saltando, Fanno un lieto romore, ed è chiaro il perché, l’identificazione è possibile anche con le parole non solo attraverso le immagini. Pur sapendo che nessuno può decidere del senso ultimo di qualcosa, sono convinto che la parola preceda sempre l’oggetto: abbiamo accesso alla conoscenza del mondo solo se disponiamo di segni già codificati all’interno del linguaggio, ed è per questo che aiuta moltissimo possedere una bagaglio linguistico il più ampio possibile. Allo stesso tempo però la lingua è inafferrabile. È ancora e per sempre credo, come la pantera di Dante, di cui si percepisce ovunque il profumo ma che è impossibile da catturare. Questa immagine mi ha sempre restituito un senso di grande vitalità e di altrettanta libertà.   

Ultimamente hai pubblicato un tuo nuovo lavoro da scrittore? C’è ne puoi parlare un po’?

Il più recente è un saggio su Giorgio Manganelli come giornalista del fantastico. Ne parlerò al convegno internazionale Media allo specchio: letteratura e giornalismo, curato da Eny Di Iorio e Franco Zangrilli, il 16 gennaio a Firenze. Il Manga, così veniva chiamato dai suoi amici, fu un avido lettore di riviste di fantascienza, in particolare dei «classici di Urania»: dedicò anche alcuni articoli all’argomento extraterrestri in tempi in cui gli avvistamenti dei dischi volanti si stavano diradando, cercando di definire insieme il suo senso del fiabesco o di indagare la relazione tra scienza e tecnologia, sempre seguendo la cifra del paradosso intelligente, dell’ironia accattivante, dell’affabulazione infinita, da Gran Mentitore come avrebbe voluto essere. Se per altri scrittori italiani il fantastico era un dispositivo per speculare sul sociale, per lui al contrario serviva a determinare i propri paradisi e inferni interiori - intesi come mappe generatrici di immagini, come un altrove di figure e situazioni eterne, nella convinzione però che l’inferno sia sempre, minutamente quotidiano, sempre intollerabile in quanto monotono, sempre in un luogo centrale della città, della casa, dell’io. Sapeva benissimo che la visione degli UFO si presentava, junghianamente, nei termini di un’allucinazione: questa visione celava il desiderio che un senso potesse mostrarsi all’orizzonte - il che, aggiungo, è anche una caratteristica delle religioni. L’essere umano è caratterizzato dalla costante ricerca del senso e della sua sostanziale inafferrabilità - che Lacan chiama l’irreale -, e la letteratura di fantascienza, nel legame che stabiliva con la psiche, possedeva per Manganelli il dono di offrire delle risposte.

Quali sono i progetti su cui sta lavorando?


Sto scrivendo un libro per Codice edizioni, una sorta di inchiesta sulle politiche di sostegno agli scrittori in Europa e sulle iniziative per incentivare a leggere e scrivere nelle scuole. Per capire cosa succede negli altri paesi, quali sono le buone pratiche e se possibile adottarle anche da noi. L’idea è nata dopo che scrissi un articolo sul welfare della cultura nei paesi europei. Con l’associazione Aim e il Miur sto invece coordinando un progetto nazionale che si chiama Read&Movie rivolto sia agli insegnanti che agli studenti, e che ha lo scopo di far leggere libri in classe. I ragazzi devono produrre dei booktrailer e per farlo non devono tanto imparare ad usare programmi digitali perché per lo più è un sapere che possiedono già; ma devono prima leggere il libro o i libri scelti, e conoscere alcune regole basi sulla costruzione letteraria o discutere con gli altri compagni dei temi e personaggi; e poi devono imparare a redigere una sceneggiatura, a scegliere immagini, parole e suoni che inseriranno nel booktrailer, in alcuni casi anche devono recitare. In un certo senso diventano artefici del processo di apprendimento, usando la propria creatività e insieme divertendosi. Gli insegnanti invece apprendono e testano una metodologia didattica nuova. La sostanza è che si possono usare le stessi armi del marketing editoriale ma con scopi ben più nobili.

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