20 ottobre, 2013

Giampiero Mancini. Un attore, ma anche molto molto di più… Intervista curata da Stefano Duranti Poccetti


Ciao Giampiero, come prima cosa ti chiederei di presentarti e di raccontarmi in breve della tua formazione d’attore.

Ho avuto il privilegio unico e preziosissimo di formarmi lavorando. Non potrei augurare a nessuno dei ragazzi della mia scuola una sorte migliore di questa. In ogni ambito che concerne le mie attività ho potuto avvalermi di una esperienza diretta e approfondire tutti gli aspetti che mi interessavano,  fino ad elaborare un mio personalissimo metodo di lavoro ed insegnamento. Inizialmente questo percorso potrebbe apparire meno rassicurante di altri, in parte sicuramente lo è, ma credo che faccia parte del mio modo di essere, istintivo e passionale. Io non ho mai goduto di alcuna raccomandazione, quindi, dati i successi in entrambe le attività,  sono molto contento del percorso scelto. Mi piaceva recitare ed ho imparato un monologo, mi piaceva scrivere e mi sono scritto un monologo, mi piace la musica quindi scrivo, dirigo ed interpreto spettacoli musicali con e per orchestre sinfoniche. Ogni cosa che ho voluto fare l’ho realizzata e, fortunatamente, senza particolari tribolazioni. Credo nella legge dell’attrazione perché personalmente agisce nelle mie dinamiche in maniera strutturale: ho sempre comprato la guida del Gambero Rosso per la mia passione per la buona cucina e ho finito per collaborarci con 3 conduzioni di programmi, testimonial per le pubblicità e ironico lettore della guida stessa; sono sempre stato un romanista sfegatato e mi hanno chiamato per girare con Totti una nota pubblicità ambientata nello spogliatoio della “mia” Roma a Trigoria; il mio musicista preferito è Puccini e l’ ho interpretato in un bellissimo film di Stefano Reali, e dalla “Turandot” di Puccini, l’opera di Seul mi ha commissionato la stesura del musical moderno. I pensieri diventano cose. Potrei andare avanti per ore…
 

Teatro, Cinema, Televisione… quale di queste attività preferisci e perché credi che siano diverse? 

Io nasco a teatro e quello rimane il mio habitat naturale, un luogo ancestrale nel quale mi muovo senza nessuno sforzo, con assoluta disinvoltura senza nessuna necessita di  anteporre il “pensare” “all’agire”, in modo assolutamente armonico, integrato e correlato allo spazio e alle urgenze. Il palco è sicuramente il luogo nel quale ho trascorso più tempo nella mia vita rispetto a qualunque altro luogo. Dalla macchina da presa invece, la “puttana santa” come la chiama Fassbinder, sono stato adottato, e ho dovuto rapidamente imparare le regole e le dinamiche di quel mondo e di un modo nuovo di usare la mia arte in modo forse più precipuo, concentrato e sicuramente “anaerobico”. Nel cinema necessiti  di “insight”e di una capacità di lettura energetica maggiore perché mancando il feedback con il pubblico, se non quello occasionale e forzatamente concentrato della troupe, sei sprovvisto di strumenti correttivi per indirizzare la performance in modo tale che tu possa piegare in tuo favore o a favore dell’economia di fruizione dell’opera la tua interpretazione, ma questo non deve portare a pensare che tutto sia più freddo e cristallizzato: in realtà l’atto è comunque molto emozionale, nonostante la possibilità di ripeterlo.
Spesso gli apparati scenotecnici tendono a sprofondarti con più decisione nell’atmosfera ed avere un senso della storia e del contesto più ancorato rispetto a quanto non avvenga sul palco di un teatro, dove gli spezzati e il “live” prestano il fianco ad una continua ingerenza del reale e del quotidiano. Sul set mi concentro molto di più, ma come ti dicevo prima, sul palco neanche penso a ciò che faccio quindi sono permeabile a qualunque intrusione: dal cappello della signora in quarta fila al dentista del giorno dopo. Sicuramente resto un animale da palcoscenico ma la sensazione al principio di tradire il teatro con il cinema è stata soppiantata ormai stabilmente dalla sensazione di essere definitivamente bigamo.
Per quanto riguarda le differenze mi pare il caso di valutare prima le contiguità. In entrambe bisogna essere efficaci, intensi ed energetici ma mutano le modalità: in teatro il continuum del tessuto drammaturgico ti aiuta da un lato ma dall’altro ti preclude una infinità di sfumature vocali e mimiche che un obiettivo riesce invece a cogliere. Ad ogni modo, sia nel teatro che nel cinema, si può e si deve effettuare una prestazioni di qualità. Io non ho mai creduto alla favola dell’attore teatrale che non sa lavorare in video, se vale una differenziazione classista allora, può essere più difficile il contrario. Ma se un attore è capace, è capace ovunque, se non lo è, palco o set sono assolutamente ed ugualmente proibitivi.

Qual è il personaggio che hai interpretato che più ti è rimasto dentro e perché?

Rispondo senza esitare. Il protagonista de “Il grigio”. Ma mi chiarirò specificando che non è corretto dire che “Il grigio” mi sia rimasto dentro, perché sarebbe un controsenso in termini. Sono io ad essere rimasto dentro al “grigio”, non viceversa, e sempre io sono cresciuto in lui e con lui. Io non avverto nessuna dicotomia o nessuna frattura interpretativa. Tra me e la maschera de “il grigio” non c’è intercapedine. Nella mia scuola c’è incorniciato un vecchio manifesto di una delle prime rappresentazioni dell’estenuante monologo al teatro Metropolitan di Ancona, datato 1991. Mi pare che anche la fotografia sia cangiante e che il mio viso da diciannovenne stampato sul 70x100 cambi ogni giorno. Un po’ come quello di Dorian Gray, solo che al contrario di quello di Wilde, invecchio anche io.

Nella tua carriera c’è stato un incontro che ha cambiato la tua vita?

Incontri professionali molti, e ognuno mi ha lasciato qualcosa. A Giorgio Gaber sarò sempre legato per “Il Grigio”, monologo che recito da più di 20 anni. Ma ogni incontro nella vita di un individuo può essere importante, se non determinante, e, spesso, neanche ci rendiamo conto di quanto nella trama delle nostre storie il semplicemente entrare per qualche istante nel disegno di un altro possa avere implicazioni decisive per il nostro destino. Ma l’incontro che sicuramente ha indirizzato e orientato la mia vita e la ma professione è stato quello con mio padre che, pur non provenendo dall’ambiente del quale faccio ora parte, non solo ha sempre rispettato le mie intenzioni ma mi ha sostenuto in ogni battito d’ali. E sono certo che, anche adesso che non c’è più, continui a farlo in ogni modo.

Sei anche regista, puoi parlarmi dei tuoi lavori in questo senso?

Regista teatrale con uno spiccato senso del cinema ed un linguaggio impattante ed essenziale. Utilizzo la musica per la prossemica e la malgama, e in verità come tessuto connettivo di qualunque mio allestimento e, quando possibile nell’accezione più ampia e nelle declinazioni più avventurose, musicalità dei versi e della scena, ritmo della parola e dei corpi. Tendo a correlare gli allestimenti con apparati scenotecnici essenziali, facendo in modo che le strutture architettoniche siano le parole e i personaggi che le veicolano. Anche in ambito registico sono curioso, quindi spazio dalle ombre cinesi alle scene borghesi. Generalmente tendo ad essere un regista “visibile” con un suo stile marcato: che sia mio un allestimento si vede e si sente in ogni cosa,  e mi si percepisce ovunque, con tutti i pro e i contro che questa forzata scelta comporta.

Dal tuo curriculum emergono delle particolarità anche divertenti, per esempio emerge che tra le lingue che parli ci sono anche molti dialetti. È vero che sai parlarli tutti? Qual è quello che ti piace di più?

Sì, sono assolutamente “diglottico” in questo senso. Credo che questo dono sia frutto di un “orecchio” particolarmente dotato che a volte mi porta a veri e propri fenomeni di camaleontismo sonoro. Una sorta di “Zeligghismo” che mi porta, se a stretto contatto con persone che parlano con una cadenza spiccatamente regionalistica, immediatamente ad imitarle. Parlare i dialetti vuol dire imitare e credo che sia una propensione innata come  imitare i professori a scuola o i cantanti al karaoke, ma certo è che interpretare molte commedie di Eduardo De Filippo ti rende il napoletano familiare, così come il siciliano da Pirandello etc… Ho interpretato in toscano Giacomo Puccini ne “Il grande Caruso” e una spassosissima “Mancini legge la guida” per il Gambero Rosso nella quale utilizzavo l’accento dello chef in questione di volta in volta; dal tedesco al francese, passando per il romanesco e il piemontese. L’utilizzo del dialetto oltre ad essere molto divertente è soprattutto utilissimo per dare veridicità ai personaggi, che in questo modo, nella giusta veste sonora sono immediatamente linkati al luogo della storia.

Ti piace anche cantare vedo, qual è la tua canzone preferita?

Mi piace cantare, suonare, dipingere, cucinare e scrivere. Sono curioso e mi piace mettermi continuamente alla prova. Mi diverte. Per quanto riguardo il canto me la cavo abbastanza bene, dati anche gli spettacoli di teatro – canzone che interpreto,  o, ancor di più, per le pièce con le orchestre sinfoniche con le quali collaboro stabilmente da anni. Ma resto sempre un attore che canta, non un cantate che recita e  credo debba esserci sempre un umile distinguo. Il canto per un attore è una disciplina assolutamente fondamentale, non per inseguire il sogno wagneriano di un compendio di tutte le arti, ma per non precludersi, altrimenti, un repertorio vastissimo. E’ inconcepibile che un attore non sappia cantare, basta guardare la presentazione degli oscar ogni anno per vedere quanto i nostri colleghi d’oltreoceano facciano entrambe le cose con i distingui di cui sopra ma con la stessa disinvoltura. Sicuramente le mie canzoni preferite sono quelle che scrivo io.

I Segreti di Borgo Larici” e “Angeli”. Si tratta di due fiction presentate al Roma Fiction Fest… che ruoli interpreti in queste fiction e quale personaggio preferisci tra i due? 

Sono progetti profondamente diversi, come diametralmente opposti sono i ruoli che in esse ho il piacere di interpretare: ne “I Segreti di borgo larici” vesto i panni minimali del Dott. Luigi Conti, un umile medico di campagna amico degli operai, premuroso e rassicurante, mentre in “Angeli” sono Walter Semiaza, un sulfureo e ricchissimo faccendiere con villa baronale e collezione di Ferrari, che contenderà a Raoul l’amore della bella principessa Vanessa…
Un comprimario solido che intercetta la simpatia del pubblico in un inusuale thriller-melò in costume contro un antagonista oscuro inviso al pubblico che ordisce trame in una toccante favola moderna… davvero difficile scegliere. Il Diavolo è un ruolo che ho interpretato spesso in vari allestimenti de “L’Histoire du soldat” e ne  “Il demone e la fanciulla”, quindi ne conosco sfumature, gamme e difetti tragici strutturali. La intuibile difficoltà sta nel non andare mai in over-acting e non indulgere all’autocompiacimento. Io sono un attore dominante con l’abitudine ad aggredire con una certa ferocia le linee di transizione, quindi l’operazione di contrazione e mitigazione di alcune dinamiche energetiche deve essere ancora più rigorosa rispetto a ruoli miti in minore come il dottor Conti dove è letteralmente impossibile sconfinare in alcuna forma di forzatura interpretativa, dato anche il materiale testuale. I “buoni” mi capitano di rado, quindi sarebbe come chiedere ad un bimbo se  vuole più bene a mamma o papà…

Come è stata la presentazione al Roma Fiction Fest? 

Divertente. Sono stato al Festival per due giorni consecutivi per presentare i lavori di cui parlavamo. Tanti colleghi da rincontrare o salutare, il fascino del carpet, un po’ di caos, tutto molto glamour. Spero che, al di là di questo, possano essere utili per il lancio delle serie. Di “Angeli” c’è stata l’anteprima con l’intero film proiettato, per “I Segreti” il giorno successivo è stato mostrato un lungo promo e un divertentissimo backstage. Credo che abbiano incuriosito e divertito tutti. Da quello che leggo sono stati accolti con entusiasmo anche dalla critica, quindi non resta che attendere le messe in onda.

Cosa significa essere attore oggi secondo te?

Oggi come ieri, essere attore vuol dire intraprendere un percorso che ti sceglie prima ancora che creda tu di averlo fatto. Essere attore è una droga, una croce, un cilicio e la più somma delizia. Un dono celeste che ti permette di vivere cose che ai più non sono concesse. Attori si nasce e in un certo senso esserlo è liberatorio perché non si può fare altro, per dirla alla Nietzsche, che tentare di “diventare ciò che si è”, e far in modo che l’essere attori diventi anche il tuo mestiere passando  dal “sono” al “faccio”. 

L’essere attore vuol dire tentare di far in modo che ciò che nutre la tua anima possa nutrire anche il tuo stomaco, pagare i tuoi vizi, le tue bollette, le tue vacanze, le sigarette, le medicine, i tuoi libri e la tua spesa quotidiana. Essere un attore di certo non può voler dire attendere lo squillo di una agenzia che ti scelga, poi quello con il quale ti chiama per un colloquio, poi quello della casting che chiama l’agenzia per un provino, poi quello per essere riconvocato per un call back, poi quello della produzione… No. Non può e non deve essere questo! Essere attore vuol dire fare, fare e fare di tutto e proporsi facendo, non attendendo o imprecando da una torre isolata gli altri che “sicuramente più fortunati o raccomandati lavorano” o il destino che ti ha fatto nascere in provincia o il karma negativo che ti ha voluto vicino ad un ruolo etc. Essere attori vuol dire togliersi di dosso ogni atteggiamento di livore o vittimismo ed essere positivi entusiasti ed umili perché, come dice un mio carissimo amico e notissimo regista, “nessuno vuole attorno gente alla canna del gas”. 

Progetti futuri?

Il 22 novembre sono al Teatro Alighieri di Ravenna per una reading di Puccini in un progetto sulla voce attoriale e cantata condiviso con e Andrea Bocelli, amico carissimo, del quale ho recentemente inciso le sue poesie (bellissimissime!!!). Poi spero di tornare presto a Torino a girare la seconda stagione de “I Segreti di borgo larici” perché abbiamo creato un gruppo meraviglioso. Penso che non avrei dovuto dire questa cosa per scaramanzia dato che la messa in onda è prevista solo per febbraio e da essa dipenderà il continuo della serie, ma mi vedo già a Torino circondato da amici cari a girare. Lo visualizzo quindi sarà così (ride).


Curata da Stefano Duranti Poccetti

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