13 maggio, 2013

“Miele”: come addolcire la morte. Di Francesca Saveria Cimmino


Primo lungometraggio dell’attrice Valeria Golino tratto da "Vi perdono", romanzo di Mauro Covacich edito da Einaudi.
Avere il diritto di decidere quando morire; scegliere di interrompere un’agonia estenuante e lacerante: possono farlo solo i malati terminali. Ad accompagnarli in questo calvario c’è Irene (Jasmine Trinca), detta Miele, una trentenne che vende agli infermi una sostanza veterinaria, il Lamputal, somministrandone una dote abbondante affinché riesca a fare effetto addormentando il degente per sempre. Quasi invisibile e sempre sullo sfondo ma contemporaneamente vicina alla persona a cui in quel momento porge la sua mano, domandando fino all’ultimo se ci sono ripensamenti, Irene è una ragazza con una vita sentimentale instabile. È orfana di madre: con lei ha vissuto per la prima volta il senso straziante del concetto di agonia ed è proprio dopo la sua morte che Miele vuole provare a cambiare le cose o quantomeno ad alleviare le pene di chi soffre ingiustamente. <Dal sangue del sacrificio nasceva una nuova vita>; giustifica con questa metafora una ciclicità di dolore e gioia, di morte e vita, di sfiducia e speranza che caratterizza i fenomeni naturali e quotidiani.




Un giorno riceve la chiamata dell’ingegnere Carlo Grimaldi (Carlo Cecchi): lo raggiunge all’interno della propria abitazione e gli fornisce il farmaco. Solo successivamente scopre che l’ingegnere settantenne non appartiene a quella categoria di persone la cui condizione di salute è in uno stato degenerativo. Carlo sta bene, è appagato per la vita vissuta; ma non ha più stimoli per proseguire il cammino. Questa la sua unica motivazione. Uno schiaffo alla sofferenza e alla triste realtà contro cui Irene si imbatte da tre anni. Ed è grazie a lui che Miele inizia ad interrogarsi su questo lavoro illegale ma nobile e sulla propria personale condizione. Aiutare l’altro per non pensare a sé: riempire il tempo libero andando a correre o nuotando; trovare il modo per non riflettere e analizzare un vuoto interiore profondo, difficilmente colmabile.
Non viene mai ripreso il momento preciso della morte: la regista rispetta il tema e il tabù dell’eutanasia girandoci intorno senza forzare la mano, o forse l’occhio. Ci sono inquadrature certamente interessanti: la scena dei due ragazzi che attraverso un vetro si scambiano attimi fugaci di tenerezza è, ad esempio, una buona scelta capace di fondere significante e significato in modo chiaro e conciso. Quel materiale trasparente dà esattamente la sensazione illusoria di contatto e vicinanza, ma contemporaneamente indica la barriera che delimita un corpo dall’altro, rendendo Miele sempre e comunque sola. 
Interessante anche l’uso delle musiche: The Shins, Talking Heads, Thom Yorke, Georges Brassens. In particolar modo quest’ultimo artista, sempre sul filo tra malinconia e allegria, tra una lacrima e un sorriso, sembra cadere a pennello all’interno di un tema che lascia l’amaro in bocca ma che attraverso la giovane Irene, prova ad essere addolcito.

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