16 agosto, 2012

VIAGGIO ATTRAVERSO L'IMPOSSIBILE - sogni di cinema, a cura di Francesco Vignaroli. Ottava puntata: "Ferro 3-La casa vuota".



FERRO 3 –LA CASA VUOTA   COREA DEL SUD 2004 88’ COLORE
(bin-jip      3 iron)
REGIA: KIM KI-DUK
INTERPRETI: JAE-HEE, LEE SEOUNG-YEONG, MOO JOO JIN, CHOI SEONG-HO
Edizione DVD: SI’, distribuito da DOLMEN HOME VIDEO

Tae-Suk (Hee), ragazzo misterioso e taciturno, trascorre le giornate gironzolando per la città a bordo della propria moto in cerca di appartamenti o case disabitati in cui introdursi per stabilirvisi temporaneamente (almeno fino al ritorno dei legittimi proprietari); una volta dentro, Tae-Suk mangia, si lava, dorme, ma si dedica pure alla cura della casa, pulendo, facendo il bucato ed effettuando piccole riparazioni domestiche grazie alla notevole manualità di cui è dotato. Durante la “perlustrazione” di una lussuosa villa (la stessa che vediamo all’inizio del film),  incontra Sun-Hwa, giovane e bellissima sposa infelice che reca in volto i segni inconfondibili dei maltrattamenti del marito, squallido e violento uomo d’affari di mezza età. L’intesa tra i due è istantanea, e Sun-Hwa decide così di seguire Tae-Suk nel suo particolarissimo percorso, non prima che questi abbia regolato a dovere i conti col marito manesco di lei ( in un modo decisamente originale). Di casa in casa, di fuga in fuga, tra i due sboccia pian piano l’amore, ma il gioco si interrompe bruscamente quando la polizia riesce ad arrestarli nell’appartamento di un anziano morto in casa. Mentre Sun-Hwa riguadagna subito la libertà grazie all’intervento dell’influente marito, per Tae-Suk si aprono le porte del carcere, tuttavia non c’è forza che possa trattenere a lungo uno spirito libero…


Il ferro 3 cui fa riferimento il titolo, come spiega lo stesso Kim -regista autodidatta privo di cultura cinematografica e con un passato da pittore, approdato alla settima arte quasi per caso, imparando il cinema semplicemente “facendolo” (da qui la grande libertà stilistica e l’originalità che caratterizzano le sue opere)- è la mazza da golf meno utilizzata nel corso di una partita; immaginando tale mazza all’interno di una costosa sacca utilizzata anch’essa raramente, ecco che otteniamo un’efficace metafora della solitudine umana, condizione percepita da tutti coloro che, per i motivi più vari, si ritrovano esclusi, emarginati, tagliati fuori dalla società, ed in qualche modo quindi “inutilizzati”, inerti.
Ma il golf è qui anche leitmotiv, espediente narrativo ricorrente e polisemico, dato che mazza (probabilmente, anche se non ci è dato saperlo con certezza, proprio un “ferro 3”) e palline vengono utilizzate ripetutamente dai personaggi del film, assumendo  valenze simboliche e scopi di volta in volta differenti: in mano al manesco e possessivo marito di Sun-Hwa, la mazza esprime tutta l’arroganza e la volgarità del potere cui prelude la ricchezza; impugnata da Tae-Suk diviene strumento di liberazione nonché speranza in un cambiamento (soprattutto per l’infelice Sun-Hwa), e, ancora, mezzo attraverso il quale i due innamorati comunicano  –in un’enigmatica scena, che si ripropone poi una seconda volta poco più avanti nel film con una chiusura però decisamente più traumatica (Tae-Suk finisce per colpire un’incolpevole passante ferendola gravemente, mostrando tutta la propria fallibilità e fragilità di essere umano e ribaltando quell’ impressione di perfetta padronanza di sé e della realtà che il film ci aveva trasmesso fino a quel momento), Tae-Suk fissa la pallina ad una corda legata ad un albero e colpisce a ripetizione ma Sun-Hwa ad un certo punto lo ferma piazzandoglisi davanti; lui sposta la pallina per cercare di evitare la ragazza che continua invece a seguirlo impedendogli di giocare, finché il nostro si vede costretto a rinunciare…che la ragazza riveda in Tae-Suk che gioca a golf il marito dal quale è appena fuggito? Oppure, che Tae-Suk senta il bisogno di imitarlo, magari per esorcizzare la propria frustrazione ed insoddisfazione di fondo? -; infine, la mazza è la non convenzionale arma utilizzata per consumare vendette (ne vedremo ben 3), ambivalente come la volontà dell’uomo che può mutare dal bene al male con gran disinvoltura.
Altra immagine adattissima a rappresentare la solitudine umana è quella di una casa vuota (cui allude il titolo originale del film), vuota come le abitazioni attraversate da Tae-Suk. Ricordando ancora le parole del regista, ciascuno di noi ospita al proprio interno un’immensa casa vuota chiusa a chiave –la solitudine, ingrediente ormai onnipresente nell’odierna società in cui viviamo-; ciò che desideriamo è solo di incontrare qualcuno in grado di forzare la nostra serratura e liberarci così da questo sentimento opprimente. Il protagonista del film, solo a propria volta, è uno “scassinatore di solitudini” di professione mosso dal bisogno di trovare una casa vuota che, una volta aperta, gli permetta di aprire finalmente anche la propria. E’ proprio quello che succede tra Tae-Suk e Sun-Hwa: il magico incontro di due esigenze perfettamente complementari porta due persone a sconfiggere la propria solitudine ed a scoprire il vero amore, un amore così forte da annullare persino le barriere spazio-temporali imposte dalla realtà.

Rinunciando quasi completamente ai dialoghi (di Tae-Suk non sentiremo mai la voce, mentre per ascoltare quella di Sun-Hwa  –urlo al telefono a parte- occorrerà attendere le pochissime parole pronunciate verso la fine del film), lavorando di sottrazione (trama ridotta all’osso, piena di momenti di sospensione e “microeventi”, dove ogni singolo fotogramma è comunque imprescindibile) e con un budget ridottissimo (solo 16 giorni di riprese!), Kim gira il suo film più bello e importante, regalandoci una favola metropolitana poetica ed emozionante, di cristallina purezza, sospesa in fragile equilibrio tra la realtà quotidiana della prima parte e il surrealismo fiabesco della seconda, dove ogni logica narrativa salta per lasciar posto alla meraviglia e all’immaginazione del sogno. Misura, trasparenza e grazia sono le parole chiave di questo film  che sa essere zucchero e fiele allo stesso tempo, deliziosa commedia d’amore e impietosa ricognizione sociologica dell’attuale società sudcoreana (ma non solo di essa: sarebbe un grave errore non rispecchiarsi in questo breve spaccato d’umanità!) e dei grandi mali che l’affliggono; a tal proposito, quel che ne esce è il mesto ritratto di un paese nel quale sembra essere saltato qualunque punto di riferimento morale e familiare (una volta “rianimate” dal ritorno dei legittimi proprietari, le varie case lasciate da Tae-Suk si rivelano in realtà  più solitarie di prima, mute spettatrici di famiglie sull’orlo dello sfascio o, nella migliore delle ipotesi, tenute insieme solo per inerzia) e dove arrivismo ed egoismo sembrano prevalere quali principi guida delle azioni delle persone; una società di alienati dove la violenza (qui pure assai più contenuta ed astratta rispetto ai livelli usuali di Kim) è un abituale e normale modo di interazione tra gli individui in grado di sopperire, paradossalmente, all’ormai cronica incapacità di comunicare delle persone (basti pensare al modo in cui l’ispettore cerca di ottenere la confessione di Tae-Suk, una scena che sembra uscire direttamente dal primo film del regista giapponese Takeshi Kitano,  “VIOLENT COP”,  datato 1989).
In un mondo così, Tae-Suk stima evidentemente di non potersi ritagliare uno spazio. Da qui la scelta di rinunciare ad un’esistenza normale per vivere una vita parallela, una vita da estraneo, da non-allineato, da emarginato, da vagabondo, al di fuori delle regole accettate supinamente dagli Altri. Eppure, non è stato sempre così, c’è stato un tempo in cui anche Tae-Suk ha vissuto ”nel mondo” (“SEI ANCHE LAUREATO”, gli dice con rammarico l’ispettore, non trovando una spiegazione all’operato del protagonista), almeno fin quando non si è reso conto della propria  incompatibilità di fondo col concetto di ” normalità” . Va da sé che una scelta radicale di tale portata comporta un inevitabile corollario di sofferenza e solitudine che il nostro cerca di mitigare fingendo di vivere la vita degli altri, forse nello slancio di un impossibile, data la propria irriducibilità, desiderio di ricongiungersi col Mondo ( non a caso, prima di lasciare una casa Tae-Suk si scatta sempre una foto ricordo nell’angolo più rappresentativo dell’abitazione stessa, magari dove si trova il ritratto dei proprietari), nell’attesa dell’incontro decisivo che lo guarisca dal solipsismo che lo affligge. A tradire la sofferenza e l’insoddisfazione di fondo di Tae-Suk da un lato e un forte anelito di pervenire ad una sorta di “unio mystica” con l’universo dall’altro, ci pensa il suo agire, così costantemente improntato alla ricerca dell’ordine e della stabilità (la riparazione degli oggetti rotti, l’impeccabile funerale del vecchio ma anche la geometrica perfezione dei suoi movimenti, della quale fa le spese il ”povero” secondino del carcere, bersaglio degli scherzi ogni volta  più sofisticati del nostro) ed in quanto tale così contraddittorio rispetto alla sua vita sociale di rottura. Solo l’incontro con Sun-Hwa porta pace nell’anima dello scassinatore Tae-Suk, un’anima prima di tale evento necessariamente monca, incompleta, dimezzata poiché incapace di ospitare l’amore dentro di sé. E il fiorire di questo sentimento nuovo, sconosciuto, completa il processo di trasformazione di Tae-Suk che da individuo diviene Presenza (sovrannaturale?), ed in quanto tale si pone al di là dello spazio-tempo ed al di sopra di qualunque logica terrena, sciolto da ogni vincolo e finalmente libero di amare (sempre a modo suo, dato che anche Sun-Hwa fa parte dell’universo alternativo di Tae-Suk, ed in questo il regista sembra volerci suggerire che in questo mondo c’è spazio per una vita “altra”). Tra tanto spendore (anche formale: Kim sa girare con leggiadria e delicatezza magistrali,  trasformando la povertà di mezzi a disposizione in un’occasione per dare il massimo avendo a disposizione il minimo),che Tae-Suk sia in realtà morto e tutto ciò che vediamo alla fine sia solo frutto dell’immaginazione di Sun-Hwa oppure no, non ha importanza  e, almeno per una volta, alle richieste dei razionalisti ad oltranza che pretendono di ottenere spiegazioni per tutto, possiamo rispondere con un convinto “FRANCAMENTE ME NE INFISCHIO!”.

Leone d’argento-premio speciale della giuria a Venezia 2004 , il film, oltre che su singolo DVD, è reperibile anche nell’ottimo cofanetto “COLLEZIONE KIM KI-DUK”, insieme ad altri tre film del maestro, il capolavoro “LA SAMARITANA”  (ancora 2004, decisamente l’anno di grazia di Kim)  e gli ottimi “PRIMAVERA ESTATE AUTUNNO INVERNO E…ANCORA PRIMAVERA” (2003) e “L’ARCO” (2005). Come sempre, raccomando vivamente di scegliere la versione originale sottotitolata.

Francesco Vignaroli

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