01 giugno, 2015

"Dopo Clitennestra faccio un film". Intervista a Vincenzo Pirrotta che ci racconta del suo ultimo spettacolo in scena al Teatro Verga di Catania e dei progetti futuri. Di Laura Cavallaro


Nel tempio laico del teatro si celebra nuovamente il mito di Clitennestra.La penna e la visionaria regia di Vincenzo Pirrotta immaginano la regina di Micene, interpretata da un’ insuperabile Anna Bonaiuto, ritornare sulla terra dopo tremila anni dalla sua uccisioneper mano dei figli Oreste ed Elettra, allo scopo diriscattare l’immagine di moglie sanguinaria che è stata tramandata. Al suo arrivo scoprirà anche di dover ristabilire l’ordine di un mondo post-moderno dove regnano il caos e la lordura e dove il potere è in mano ad una cerchia ristretta di uomini proclamatisi dei.
Nella platea del Teatro Verga che ospita lo spettacolo, incontriamo il regista Vincenzo Pirrotta, che ci racconta il percorso che lo ha fatto approdare a Clitennestra.

Per quale ragione hai scelto proprio il mito di Clitennestra?

Innanzitutto Clitennestra chiude il cerchio con le mie Eumenidi di Eschilo (portate in scena alla Biennale di Venezia nel 2004 con il testo tradotto in dialetto siciliano ndr) e poi perché attraverso una saga familiare si può parlare di una molteplicità di temi, tutti universali come il fato, il potere, il governo, il tradimento, il sangue, la vendetta.

Hai parlato di azzardo riferendoti alla tuaClitennestra, cosa intendi?

E’ comunque un’opera di rotturaDi fatto non m’interessava l’azzardo per l’azzardo, piuttostoaffrontare un tema a cui non mi ero mai avvicinato e cioè l’uomo che si sente Dio.

Come mai fra le tante tematiche del testo poni l’accentosull’aspetto della spiritualità?

Quando parlo di spiritualità non mi riferisco nello specifico al rapporto col divino. La spiritualità è fatta da tante cose: penso alla cultura, alla lettura dei libri, a ciò che ci accresce lo spirito. In questo momento vedo poco interesse anche da parte della scuola per il mito e c’è una mancanza di conoscenza della società greca che poi costituisce le nostre radici. Ho dunque voluto mostrare cosa potrebbe accadere in futuro continuando a non perseguire la conoscenza.

Il coro nella tua tragedia è sintesi del teatro greco e del teatro poetico del cuntu . Perché l’hai scritto in  dialetto?

Ciò che dice il coro è come se lo dicessi io entrando in scena in veste di narratore e siccome la mia lingua madre è il dialetto ho optato per quello. Ecco perché l’ho differenziato da Clitennestra che invece si esprime in italiano.

Come definiresti il tuo teatro?

Premetto che non amo le etichette, tuttavia il tentativo che faccio portando in scena i miei testi o quelli degli altri, sui quali intervengo sempre, è quello di voler dare un pugno allo stomaco degli spettatori. Non voglio farli stare tranquilli sulla poltrona, sia che metta in scena una commedia oppure dei testi più filosofici come in questo caso. Mi piace l’idea che il pubblico si senta sempre chiamato in causa, deve sentire quella materia, quell’azione scenica come qualcosa di vivo, pulsante, che gli è vicino. Il mio grande auspicio è quello d’insinuare un tarlo che induca il pubblico a riflettere a lungo su quanto ha visto.

Il tuo non è un teatro realistico, in che modo le scene di Renzo Milan e i costumi di Giuseppina Maurizi seguono questo tuo stile?

I costumi e le scene non vogliono descrivere una realtà fisica ma una realtà delle emozioni. Il muro incrostato di Micene, illuminato in un certo modo, per esempio, dà il senso della decomposizione della società di oggi, mentre i rami contorti dell’altare esprimono la violenza e la ferocia delle Erinni e non sono altro, nella mia proiezione mentale, che gli spuntoni dentro i quali ci dobbiamo districare per non essere infilzati. Nell’ultimo quadro mi sono ispirato ad Andy Warhol e alla pop art ma anche ai tarocchi (Oreste ad esempio è una Papessa) e in certi momenti anche a Bacon. Ho cercato di costruire attorno a questa dimensione effimera una sorta di mondo dove tutti hanno una seconda pelle, una maschera, pur non essendoci maschere nello spettacolo. Per questo quando viene svelata la loro condizione di esseri umani e dunque di non Dei, tutto crolla. I sacerdoti sono personaggi che rimandano moltissimo ai quadri di Salvador Dalì, che io ho voluto come figure simili a dame del Settecento ma avvolte nella plastica. Anche Oreste ed Elettra ad un certo punto si spogliano di questa immagine effimera mostrando la loro piccolezza. L’inginocchiamento di Oreste in proscenio, non vuole essere un’ammissione di colpa davanti a tutti per essersi macchiato di ὕβϱις “tracotanza”, ma  è la dimostrazione della perdita del  consenso.

Nella tua lunga carriera di attore, regista di prosa e lirica,  di scrittore (di recente è uscito il tuo romanzo Guasta Semenza)c’è una cosa che vorresti fare e ancora ti manca?

Non ho particolari sogni nel cassetto ma ti posso dire in anteprima che sto preparando un film dal titolo Prigioni prodotto da Fabbrica Benetton che girerò a Treviso.


Laura Cavallaro

Nessun commento:

Posta un commento