26 gennaio, 2015

CON RABBIA E CON AMORE: PINO DANIELE, UN “NERO A META’ ” (prima parte). Di Francesco Vignaroli


La seconda parte dell'articolo sarà pubblicata lunedì 2 febbraio 2015.



PREMESSA




Odio i necrologi. Odio i piagnistei delle commemorazioni e le celebrazioni postume, così cariche di pomposa retorica e buonismo. Me ne sono sempre tenuto alla larga, e con il presente articolo non faccio certo un’eccezione. Per questo lascerò che sia soltanto l’arte di Pino Daniele a parlare e testimoniare la sua importanza per la musica e la cultura del nostro Paese.
Detto ciò, ritengo che l’unico modo per rendere omaggio con sobrietà e semplicità (come, spero, sarebbe piaciuto a lui) a uno dei miei cantautori preferiti sia quello di presentarvi, preceduta da un breve riepilogo storico della sua carriera antecedente, una puntigliosa ma assolutamente “partigiana” recensione di NERO A META’, per me il suo album più bello, uno dei 10/15 dischi fondamentali del cantautorato italiano.
Un’ultima cosa, prima di cominciare: non me ne vogliano gli abitanti di tutte le altre città d’Italia, ma essere rappresentati da una canzone come Napule è, è un privilegio che solo Napoli e i napoletani possono vantare (e lo dico da toscano) e che DEVE perciò valere loro l’invidia di tutto il resto del Paese! E si mettano l’anima in pace pure i tifosi delle altre squadre di calcio, specialmente di quelle più ricche e titolate: il canto corale intonato all’unisono dal pubblico del San Paolo prima della partita Napoli - Juventus, lo scorso 11 Gennaio, è stato un momento unico e ineguagliabile, talmente profondo ed emozionante da far impallidire, al confronto, qualunque “banale” celebrazione di una vittoria sportiva, e da far passare in secondo piano ciò che è accaduto in seguito…

PROLOGO

Negli anni ’70 la scena musicale napoletana è tra le più vivaci e fertili d’Italia; in particolare, c’è grande fermento attorno al fenomeno del progressive, cioè la nuova musica “giovane” e colta che si è posta, assieme al cantautorato consapevole e arrabbiato (De Andre’, Dalla, Guccini, Venditti, De Gregori, il napoletano Bennato…), in contrapposizione rispetto al mainstream dell’epoca (Sanremo e dintorni, per intenderci). A conferma di ciò, basta citare artisti e gruppi come gli Osanna, il Cervello, Il Balletto di Bronzo, il primo Alan Sorrenti, i Saint Just di sua sorella Jane, il grande percussionista Toni Esposito, i Napoli Centrale di James Senese; è proprio in occasione di un tour con questi ultimi che si fa notare il bassista, mandolinista e –soprattutto- chitarrista ventenne (1955) Pino Daniele, uno degli ultimi “prodotti”, insieme a Teresa De Sio, di quella formidabile “onda nuova” napoletana.
Dopo essersi fatto le ossa come session man, nel 1976 pubblica Che Calore, il suo primo 45 giri, che precede l’uscita, nell’anno seguente, del suo notevole album d’esordio, TERRA MIA, in cui è autore di testi, musiche e arrangiamenti. Il disco, quasi un’opera concept incentrata sulla vita, i vizi e le virtù della Napoli popolare, si apre con Napule è, la canzone-simbolo di tutta la carriera dell’artista: si tratta di un’immortale e commovente dichiarazione d’amore rivolta a Napoli in cui Pino, in soli quattro minuti scarsi, mette a fuoco alla perfezione tutta la magia e le contraddizioni della sua città, verso la quale esprime un sofferto e contrastato sentimento di amore/odio. Il resto dell’album si mantiene musicalmente nel solco di un folk prevalentemente acustico -con la chitarra del leader sempre in evidenza- e rispettoso, pur con una certa ironia, della tradizione popolare napoletana, mostrando già comunque una notevole cura negli arrangiamenti e una certa conoscenza della musica a trecentosessanta gradi (come si può ben apprezzare in ‘O padrone), elementi che diventeranno peculiari nei lavori successivi. Se, dunque, a livello musicale TERRA MIA è un album “ortodosso”, non si può dire la stessa cosa per quanto riguarda i testi, i cui contenuti si rivelano quasi antitetici rispetto ai classici temi della canzone napoletana: senza peli sulla lingua, Pino parla degli atavici problemi che affliggono la sua città e la sua gente rimettendo in discussione certi punti fermi della cultura partenopea, e lo fa con lucidità, coraggio, passione, rabbia e indignazione, senza trascurare una certa dose di sarcasmo; così, nascono dolenti ballate come l’amara Terra mia o la drammatica Suonno d’ajere, ma anche sardoniche canzoni d’accusa come ‘Na tazzulella ‘e cafè e Ce sta chi ce penza, oltre ad efficaci ritratti di tipiche figure napoletane come Furtunato. Si fa notare, poi, l’innovativa e radicale scelta di utilizzare la lingua napoletana in tutti i brani; così, grazie a Pino Daniele, l’idioma partenopeo varca i confini regionali per diffondersi e farsi apprezzare nel resto dell’Italia. Il tutto è cantato con una voce caratterizzata da un timbro particolarissimo, che esprime il tipico e impareggiabile gusto melodico napoletano, unito, però, a una forte carica soul e blues, piena di sofferenza ed energia: un mix unico che fa di Pino Daniele, appunto, un “nero a metà”.
Nel 1979 esce il secondo album, PINO DANIELE, in cui si regista una netta crescita artistica rispetto all’esordio. I testi, ancora prevalentemente in napoletano, sono sempre incentrati sulla realtà partenopea, ma non in maniera così esclusiva come avveniva nell’album precedente, bensì proponendo, in generale, storie e temi di più ampio respiro in cui, rispetto alla rabbia e all’amarezza prevalenti in TERRA MIA, cominciano a farsi largo un certo romanticismo e una maggiore introspezione. Parallelamente ai testi anche la musica si espande verso nuovi orizzonti, guardando soprattutto agli States, con risultati eccellenti: le ambizioni artistiche di Pino sono assecondate alla perfezione da un gruppo di ottimi musicisti. Se brani come Il mare, Viento e Donna Cuncetta –un altro imperdibile ritratto di napoletanità DOC- rimandano all’album precedente, nel resto del disco si respira un’aria nuova, che annuncia le meraviglie prossime a venire: l’arrangiamento fusion (con il piano elettrico di Ernesto Vitolo in primo piano) della delicata Je sto vicino a te, la trascinante Je so’ pazzo (altro brano-chiave della carriera di Pino, dopo Napule è), la delicata malinconia di Putesse essere allero, il geniale blues in anglo-napoletano (!) Ue man!, l’audace, per l’epoca, Chillo è nu buono guaglione –forse la prima canzone italiana ad affrontare in maniera esplicita il tema della transessualità, in netto anticipo sui tempi- e, infine, la dolorosa Chi tene ‘o mare (“CHI TENE ‘O MARE ‘O SAPE CA E’ FESSO E CUNTENTO./ CHI TENE ‘O MARE ‘O SSAJE NUN TENE NIENTE”: un altro colpo al cuore della tradizionale visione napoletana della vita!), impreziosita dallo struggente assolo finale del sax tenore di James Senese, lanciano il disco in orbita e lo proiettano nel futuro, verso l’imminente capolavoro che porterà a compimento il percorso artistico di Pino Daniele. Intanto, è nato il “blues napoletano”.

Sul rapporto tra la musica di Pino Daniele e Napoli vi consiglio caldamente un bel documentario dell’epoca realizzato da Ezio Zefferi per “TG2 Dossier-Grandangolo” (con un po' di fortuna, prima o poi potreste riuscire a vederlo su Rai Storia), in cui vengono messi in evidenza i legami tra la realtà sociale napoletana e le canzoni di protesta (estratte da questi primi due album) di Pino, commentate per l’occasione dall’autore stesso.

Francesco Vignaroli


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