26 agosto, 2014

Nel nome del padre. Per far rumore non serve urlare. Di Paolo Leone


Roma, Fontanone Estate. Lunedì 25 agosto 2014

Non si è mai troppo grandi per la morte di un padre. A maggior ragione, se quel padre viene spazzato via dalla violenza spietata della mafia. Il 5 gennaio 1984 Giuseppe Fava, detto Pippo, bravo e coraggioso giornalista siciliano, fu ucciso nella sua auto con cinque colpi di pistola. Il motivo, lampante per tutti, tranne che per l’universo corrotto e colluso che orbitava intorno a lui e di cui lui parlava senza peli sulla lingua. Parlava, accusava, metteva in luce quello che a quei tempi era ancora quasi indicibile.
Affronto insopportabile. “Nel nome del padre”, monologo portato in scena con eleganza da Roberto Citran, è la pièce teatrale tratta dall’omonimo libro scritto dal figlio di Pippo, Claudio Fava (edito da Baldini e Castoldi). Un figlio che, dopo trenta anni da quel tragico giorno, cerca di riannodare i fili dei ricordi, forse di liberarsene, ma “le cose ci vengono dietro, come le mosche”. All’inizio, sul telo che fa da scena, insieme a tre sedie, viene proiettata una celebre intervista (Film Dossier – 1983) di Enzo Biagi a Fava. Il suo eloquio semplice, chiaro, disarmante. Chi scrive ricorda bene quell’intervista, il disincanto delle risposte, tanto da citarla ancora, anche io dopo trenta anni, come un esempio di luminosità in una società torbida, chissà se più o meno di oggi.  Il dolore di un figlio che cerca di mettere in ordine i pensieri, collezionista di memorie, ormai padre anche lui. 

Rivive tutto quasi come in un film, come da dentro un acquario, rivive lo stupore che altri abbiano voluto tutto quel che è accaduto. Il dolore della separazione precoce, brutale, ma anche il dolore delle calunnie, dei tentativi, poi miseramente crollati, di depistaggio nelle indagini, delle cerimonie ipocrite. Morire giovani, senza sabbia sul cuore, declama Citran-Fava sul palco. Tanto a buttar fango ci pensano gli altri, nessuno escluso, istituzioni e forze dell’ordine comprese. Ricordi sparsi, colori (il rosso dei calzini del papà all’obitorio), il terrore… anche la morte ti educa, si, e ti fa crescere in fretta. La guerra scatenatasi dopo la sepoltura, le ispezioni immotivate della Guardia di Finanza nella sede del giornale, il povero carabiniere mandato “solo per redigere un verbale”, senza impicciarsi troppo, e altre piccole miserie. Ma che tanto dolore e sconcerto procurarono ai familiari. Alla fine tutto si chiarì e la verità venne a galla, e come le parole di Pippo Fava, fu semplice, chiara, disarmante, in barba a tutti gli occultatori di professione e alla superficialità di tutti quelli che non volevano vedere ciò che era chiarissimo. Trenta anni dopo, un figlio ricorda con dolore si, ma con dolcezza, senza clamore. Per far rumore non serve urlare.

 “Nel nome del padre” è un bell’esempio di teatro civile, interpretato con adeguata sobrietà da un bravo attore come Citran, un testo lucido e intimista, venato di dolore e tenerezza filiale.

Paolo Leone


“Nel nome del padre”, di Claudio Fava
Interprete: Roberto Citran
Regia: Ninni Bruschetta
Scena: Antonio Panzuto


Si ringrazia l’ufficio stampa nella persona di Elisabetta Castiglioni

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