19 luglio, 2014

VIAGGIO ATTRAVERSO L'IMPOSSIBILE - sogni di cinema, a cura di Francesco Vignaroli. Recensione 24: "Aurora"


AURORA                                           USA  1927  91’ B/N
(Sunrise – A song of two humans)

REGIA: FRIEDRICH WILHELM MURNAU

INTERPRETI: GEORGE ‘O BRIEN, JANET GAYNOR, MARGARET LIVINGSTON, BODIL ROSING

EDIZIONE DVD: SI’, distribuito da BIM


LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA


Estate. L’arrivo, tra i villeggianti, dell’ammaliante Donna della Città sconvolge la tranquillità di un villaggio di campagna in riva al lago: la donna seduce un agricoltore, che per lei trascura famiglia e lavoro, e lo convince a liberarsi della moglie affogandola durante una gita in barca; ma l’uomo all’ultimo momento ci ripensa, provocando comunque la fuga della consorte che sale su un tram e arriva in città seguita dal marito, il quale tenta di tutto per farsi perdonare. Dopo aver assistito casualmente ad un matrimonio, i due si riconciliano e cominciano una vera e propria seconda Luna di Miele godendosi i divertimenti della città finché, giunti a sera, decidono di tornare a casa; ma durante la traversata notturna del lago un’improvvisa e violentissima tempesta li fa naufragare. L’uomo si salva a stento, mentre della moglie non c’è traccia, nonostante tutti gli abitanti del villaggio si siano mobilitati alla sua ricerca; solo grazie alla tenacia di un vecchio la donna viene ritrovata e portata a casa sana e salva. Passata la bufera, si accendono le prime luci del nuovo giorno e, mentre la moglie recupera lentamente le forze sotto lo sguardo pieno d’amore del marito, la Donna della Città capisce che è arrivato il momento di andarsene…

Anno cruciale, il 1927, per la storia del cinema: da un lato, almeno quattro capolavori del muto quali il celebratissimo Metropolis di Fritz Lang (di cui ci siamo già occupati circa un anno fa –era il 27 Luglio- in occasione della memorabile proiezione cortonese con tanto di accompagnamento musicale dal vivo da parte dell’ORT, nell’ambito della seconda edizione del “Cortona Mix Festival”), Il vento dello svedese Victor Sjostrom, il monumentale Napoleon di Abel Gance e il qui presente Sunrise, primo film americano del geniale quanto sfortunato regista tedesco Friedrich W. Murnau, autore di capolavori immortali come Nosferatu, L’ultima risata e Tabù, scomparso prematuramente nel 1931 a soli 42 anni per un incidente automobilistico; dall’altro lato, il 1927 segna al tempo stesso, dopo l’apice, anche la fine del cinema muto con l’arrivo del primo film sonoro della storia, Il cantante di Jazz di Alan Crosland. La rivoluzione del sonoro provoca un vero e proprio terremoto nel mondo del cinema: molti tra i grandi registi e attori dell’epoca si ritrovano disorientati di fronte alla fulminea ed inesorabile avanzata del progresso e per alcune stelle di prima grandezza (come il regista David W. Griffith o l’attore comico e regista Buster Keaton), incapaci o contrarie ad adattarsi al nuovo corso, ciò significherà il tramonto; tra i primi a superare la crisi e a cavalcare l’onda c’è Fritz Lang (massimo esponente, insieme a Robert Wiene, della defunta, leggendaria scuola espressionista tedesca) , che risponde con l’ottimo M, preludio ad una lunga serie di capolavori che il regista, allontanatosi dagli orrori del nazismo, realizzerà negli USA; dal canto suo, il grande Charlie Chaplin è tra gli ultimi ad arrendersi all’avvento del sonoro, proseguendo orgogliosamente nel segno della tradizione fino alla metà degli anni trenta -quindi ampiamente fuori tempo massimo- con opere da un punto di vista tecnico “ibride” (il regista continua ostinatamente a rinunciare ai dialoghi ma realizza nel contempo “commenti sonori” ai film) ma ancora apertamente debitrici dell’epopea del muto, quali i due capolavori Luci della città (1931) e Tempi moderni (1936); per ammirare il primo film in cui Chaplin sfrutta appieno le possibilità del sonoro inserendo i dialoghi oltre alle musiche (realizzando quindi un film “parlato”) occorre attendere il successivo Il Grande dittatore, del 1940. Da questo punto in poi, il cinema muto finisce definitivamente in soffitta, salvo sporadici e occasionali “recuperi” d’autore, come il meraviglioso mediometraggio Film (1964), unica, memorabile incursione cinematografica (su testo di Samuel Beckett) del regista teatrale Alan Schneider, che per l’occasione strappa all’oblio l’ormai vecchio e malato ex-eroe del cinema muto Buster Keaton, regalando un ultimo ed insperato colpo di coda ad una carriera e ad una vita prossime alla fine (l’attore muore infatti poco dopo la fine delle riprese). Per il resto, nei decenni a seguire, a mantenere in vita la memoria e l’interesse per il Cinema delle Origini e per i fasti che furono hanno contribuito soltanto le rassegne d’essai (ma si parla di eventi seguiti quasi esclusivamente da ristrette cerchie di appassionati) e l’instancabile opera di restauro di enti come la Cineteca di Bologna che, grazie anche alle nuove possibilità tecniche garantite dai supporti digitali DVD e BLU-RAY, hanno aperto una piccola breccia nel mercato home-video. Finché, siamo nel 2011, un lampo scocca nel buio: il regista Michel Hazanavicius gira The artist, un film muto che, nell’era del digitale e del 3D, sembra quasi uno scherzo di cattivo gusto, e invece la pellicola trionfa agli Oscar oltre che al botteghino, giusto riconoscimento per un’operazione lodevole e riuscita qual è l’aver ricordato al Mondo, attraverso un omaggio affettuoso ed intelligente all’insegna del “come eravamo” , il glorioso –e rimosso- passato del cinema prima dell’avvento del sonoro. Nella forma di una commedia sentimentale che riesce a commuovere ed intenerire, il film rievoca il tumultuoso periodo che va dalla fine degli anni ’20 (con in mezzo quindi la devastante crisi del ’29) ai primi anni ’30, attraverso le vicissitudini del’ormai ex-divo del muto George Leonard (interpretato da un indimenticabile Jean Dujardin), che non si rassegna al cambiamento dei tempi nonostante l’arrivo del sonoro e la crisi lo abbiano ridotto sul lastrico; il protagonista assomiglia, tanto nell’aspetto quanto in alcuni aneddoti vissuti, all’attore John Gilbert, una vera e propria leggenda del cinema muto (La grande parata, La vedova allegra) e una tra le vittime più illustri del nuovo corso determinato dal sonoro, in triste compagnia dell’altro grande divo dell’epoca Douglas Fairbanks ( l’eroe avventuroso per eccellenza, interprete di opere come Il segno di Zorro e Il Ladro di Bagdad), anch’egli utilizzato come riferimento nella creazione del personaggio George Leonard. Perdonatemi la parentesi storica ma mi è sembrato il modo migliore per accogliere ed introdurre Aurora, il primo film muto ad essere ospitato nella nostra rubrica VIAGGIO ATTRAVERSO L’IMPOSSIBILE, un privilegio più che meritato dato lo spessore artistico di questa pellicola!

Aurora, ovvero la canzone di due esseri umani, una canzone la cui semplicità e limpidezza ne fanno un motivo universale, ascoltabile in ogni tempo e in ogni luogo come precisa il cartello che introduce la storia anche se, restando in ambito musicale,  più che di una canzone potremmo parlare di una sonata in tre movimenti data la struttura tripartita del film, che comincia come un dramma (la relazione extraconiugale, il progetto dell’omicidio, il tentativo incompiuto), muta inaspettatamente in commedia (la riappacificazione in città e gli svaghi da coppietta in gita domenicale) e ritorna precipitosamente drammatico con la tragedia sfiorata nel finale (la tempesta, il naufragio ed il presunto annegamento della moglie). La storia funziona bene in ciascuna delle sue vesti ed i cambi di registro, per quanto repentini, sono fluidi ed organici, tanto che non sarebbe esagerato definire Aurora come un film totale, completo, capace cioè di coinvolgere sia quando “fa sul serio” che quando “scherza”; la cupezza quasi gotica della prima parte e la piccola apocalisse della terza sono mitigate dall’intermezzo leggero e rigenerante della visita al luna park, che lo sguardo ingenuo e semplice dei due sposini di campagna identifica forse con la città tout court, un luogo felice perennemente animato da feste e musica e pieno di persone gentili e servizievoli (basta pagare…), dove ci si può persino divertire ad inseguire un maialino nero stufatosi di fare il saltimbanco per gli uomini… Invece, nella lucida visione di Murnau, la città appare già come un caotico dedalo soffocato da un traffico infernale –e siamo solo nel 1927!- e popolato da curiosi esseri che vanno sempre di fretta, in chissà quali faccende affaccendati, e da individui che si mostrano disponibili solo per interesse: una rappresentazione negativa che per precisione e verosimiglianza è degna del miglior futurologo e che risulta molto diversa rispetto a quella, decisamente fantascientifica e ancor più pessimistica, operata da Fritz Lang nel coevo Metropolis. Leggendo tra le righe del film, sembra proprio che in Aurora il confronto campagna/città risulti nettamente sfavorevole alla seconda, tanto è polarizzato il dualismo tra due realtà radicalmente opposte: l’una -la campagna- caratterizzata dall’ordine e dalla benevolenza (…almeno fino alla tempesta!) della Natura, come vediamo nell’emblematica scena in cui il cane, forse avvertendo le intenzioni dell’uomo, dopo aver “protestato” a gran voce si libera dalla catena per lanciarsi all’inseguimento a nuoto della barca appena partita per la “gita” sul lago, forse nel tentativo di impedire l’imminente delitto; l’altra –una città che già presenta i “sintomi” della metropoli- dominata dal caos e dai rumori; anche il giudizio “sociologico” rispecchia questa contrapposizione totale, con il relativo giudizio in odore di manicheismo, dei due ambienti: da una parte, la campagna e i suoi abitanti semplici e generosi, che dimostrano la loro forte solidarietà verso un compaesano in difficoltà impegnandosi, tutti, nelle ricerche della moglie dispersa, una donna pia e irreprensibile, intrisa di cristiana sopportazione; dall’altra, la città con le sue insidie e tentazioni (luci, divertimenti…), un luogo popolato da figure ambigue ed inquietanti come la Donna della Città, l’elemento perturbante della storia, una figura il cui fascino misterioso e luciferino ne fa la personificazione del Male, una Luna Nera le cui tinte fosche si scontrano con la luminosità del volto e dei capelli biondi della candida moglie dell’agricoltore. Ovviamente, sappiamo tutti che nella realtà le cose non sono così semplici e che bene e male si mescolano un po’ dappertutto senza una regola precisa, ma la visione manichea e un po’ riduttiva del mondo è tipica -ed essenziale- delle favole al cui mondo appartiene anche Aurora, che altro non è che questo: una meravigliosa favola raccontata, anziché oralmente o per iscritto, attraverso una modalità d’espressione alternativa come quella garantita dal cinema, mezzo all’epoca ancora relativamente nuovo ed inesplorato ma dalle indubbie potenzialità affabulatrici, come dimostra la riuscita di storie come la qui presente, il cui obiettivo non è certo, come volevano i fratelli Lumiere, la rappresentazione nuda e cruda della realtà, bensì il piacere del “racconto di una volta” affidato alle immagini anziché alle parole. A livello tecnico, oltre che per la suggestiva rappresentazione del fascino delle City Lights, il regista stupisce per l’inusitata (per l’epoca) profondità di campo di certe inquadrature, ottenuta attraverso geniali astuzie –svelate brevemente nei contenuti speciali del DVD- che dimostrano tutta la grandezza e la genialità di un artista uscito di scena troppo presto.
Aurora ha conquistato ben tre Oscar: uno per l’interpretazione di Janet Gaynor, uno per la fotografia più un Oscar speciale al film per i suoi meriti artistici.
Gli extra del disco propongono alcune scene inedite eliminate in fase di montaggio ed un interessante documentario su 4Devils, il film perduto di Murnau.


Francesco Vignaroli

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