14 settembre, 2013

GIANNI BERENGO GARDIN. “STORIE DI UN FOTOGRAFO”: alla ricerca dell’Uomo. di Maria Rosaria Grassa


A Palazzo Reale in collaborazione col comune di Milano e la Fondazione Tre Oci, sono state selezionate e presentate una raccolta di 180 immagini o meglio, di testimonianze delle nostre vite, delle nostre città dagli anni ’50 ad oggi. Autore di queste opere il Maestro Gianni Berengo Gardin, inserito dalla rivista Moden Phothography tra i “32 World’s Top Photographers” e vincitore dell’ Ambrogino d’oro 2013. Instancabile reporter della contemporaneità, non ama però descrivere se stesso come un artista, ma piuttosto come un fotografo che ha cercato di contribuire “allo svelamento del mondo in cui viviamo, nella speranza di poterlo un giorno vedere e capire meglio”. Ha passato in rassegna gran parte della storia d’Italia sotto l’obiettivo vigile della sua macchina fotografica perennemente appesa al collo –le epifanie avvengono all’improvviso e, se mai bisognasse trovare un metro di misura per la bravura di un fotografo, la dedizione a cogliere l’attimo sarebbe certamente una di queste. La grandezza di cui sono portatrici queste fotografie non è solo nella forza suggestiva dei suoi ritratti, negli scatti rubati al vivere quotidiano o nella poetica dei paesaggi: essa risiede soprattutto nel coraggio nostalgico di Berengo Gardin nel proporre il suo lavoro sempre ed esclusivamente in analogico, rendendo omaggio all’intramontabile bianco e nero. Senza trucchi e senza inganni quindi, e con l’assoluta convinzione che se il contesto visivo può riportarci ad una determinata epoca storica, nei volti e nei gesti delle persone riprese si ripropongono le sventure, gli amori, le emozioni, i drammi che, generazione dopo generazione, sono invece eredità degli esseri umani e della ciclicità della vita. Ed è forse per questo che, guardando queste immagini, è così facile prenderne subito confidenza, averne una sorta di complicità. Queste ci stanno parlando di esperienze, di tradizioni, di culture diverse tra loro. Eppure è facile scorgere tra di loro dei richiami, dei collegamenti che ci parlano della storia dell’umanità, quasi una sorta di antropologia per il popolo. Non sono presenti dei echi a qualsivoglia valori o esaltazioni a una qualsiasi ideologia, ma solo uno sguardo indagatore sulla vicenda umana che ha un’urgenza di essere comunicata e quindi condivisa.
La mostra, che vuole essere una sintesi del immenso patrimonio documentativo del fotografo, si sviluppa raccogliendo 180 fotografie in nove macro sezioni.
Gente di Milano ripropone uno spaccato di vita quotidiana di una popolazione che vivendo nella grande città non è estranea a grandi cambiamenti che Milano –almeno in Italia- ha sempre sperimentato per prima, e quindi alla loro grande capacità di adattamento all’infernale macchina del progresso. Ancora una volta Berengo traccia il ricordo sia dei risvolti più allegri, sia quelli più tragici della vita
cittadina. Così come non si risparmia a raccontarci la vita intima delle varie classi sociali, dei bagliori della mondanità, l’avvento di nuove epoche o dei personaggi illustri che l’hanno vissute. A Milano così come a Venezia (altra sezione che compone la mostra, particolarmente importante per l’autore dal momento che ci ha vissuto parecchi anni), che anche in questo caso ci propone insoliti posizioni e porzioni della città che ci allontanano dalla solita visione turistica.
Gianni Berengo Gardin è un uomo che ha girovagato per il mondo, ma diversamente da altri, non ha formato i suoi set soltanto all’esterno, ma molto all’interno, fin Dentro le case. Un tentativo di comprendere i modi di abitare degli italiani, uno studio sul modus vivendi di una popolazione che –ancora una volta- traspare più dalla potenza di un’immagine anziché da una eccellente oratoria. Così come traspare l’allegria che si respira in una casa-negozio napoletana, o l’essenzialità e l’accoglienza di una casetta delle Dolomiti, così si percepisce il lavoro di questo grande fotografo che ha varcato la soglia dell’intimità per regalarci perle di vita.
Evocativa di bellissime sensazioni è la sezione dedicata ai Baci che racchiudono parecchi scatti attorno a questo tema molto caro all’Autore. Baci che non accennano a interrompersi nonostante il treno in partenza, baci pudici come si conviene che sia alla Scala di Milano, baci nostalgici sulla banchina del porto di Trieste, o rubati ai lati della strada… Piccole meraviglie che si schiudono nonostante l’incedere vorticoso del quotidiano.
Ci riportano burrascosamente alla realtà e all’impegno di vivere le fotografie dedicate al Lavoro e ai lavoratori soprattutto. Le trame che delineano queste immagini ci narrano della condivisione in gruppo o con la propria famiglia delle fatiche, delle disperazioni, anche col tentativo di denunciare queste situazioni di precarietà. Ancora una volta, a tu per tu con l’umano, senza scorciatoie o abbellimenti di sorta. Così come indaga il profano, Berengo scruta anche la Fede Religiosità Riti che raccoglie le immagini del confrontarsi con la spiritualità e col proprio credo, che si stinge di quella sacralizzazione tanta cara alle istituzioni, ma a vantaggio di una maggiore e migliore umanizzazione.
Il lavoro di Berengo Gardin ha portato più di una volta a denunciare lo scempio di alcune vicissitudini che hanno caratterizzato la nostra storia e che sono state infine –verso gli anni ’60- esasperate e portate all’attenzione delle coscienze del grande pubblico. È il caso del documento raccolto nei campi romanì in Italia, dal suggestivo titolo La disperata allegria, dove il sovraffollamento e scarse condizioni di igiene fanno da contorno a una vitalità ed a un forte attaccamento alle tradizioni di questa popolo nomade. Il progetto ambizioso di Berengo è questa volta quello di scardinare gli avventati pregiudizi degli italiani nei confronti di persone e di modi di vivere con cui non si aveva affatto dimestichezza. Stranieri e matti, questi i grandi fantasmi della popolazione italica all’epoca, che dovettero prendere confidenza con i temi che portarono ai grandi cambiamenti politici di quei anni. In Morire di classe il fotografo prova a far passare le rivoluzionare idee di Basaglia e di sua moglie Franca, dove l’istituzione del Manicomio viene descritto per quello che è: un luogo in cui approdava solo la pazzia dei poveri, dei diseredati, la miseria che non reggeva alla propria sofferenza. Ma soprattutto che lo stato di degrado, di abbruttimento, dell’annientamento dei malati, era prodotto dalla violenza dell’istituzione più che dalla malattia in sé. Prima bisognava lavorare su questo aspetto. Poi, forse, si sarebbe potuto incontrare la malattia.
A chiudere la mostra Berengo Gardin reporter: le collaborazioni con “Il Mondo” e “Touring Club Italiano” lo han portato a viaggiare intorno al globo, e questo ha permesso al fotografo di regalandoci racconti, luoghi, sguardi capaci di regalarci un ironico stupore dinnanzi allo spettacolo di ogni cosa che ci circonda.


Maria Rosaria Grassa

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