08 agosto, 2013

DALL'INDIA CON AMORE: BOLLYWOOD, L'ALTRA FABBRICA DEI SOGNI. Di Francesco Vignaroli


Cortona Mix Festival, Cortona, Teatro Signorelli. Martedì 30 luglio 2013

BOLLYWOOD, la più grande industria cinematografica del mondo -con sede a Mumbay, la vecchia Bombay-, compie 100 anni. 1000 film prodotti all'anno, 6 milioni di persone impiegate nel settore: numeri che fanno impallidire perfino Hollywood, la Mecca del cinema americano.
Per celebrare l'evento, il "CORTONA MIX FESTIVAL" ha proposto il documentario "BOLLYWOOD, 100 ANNI DI CINEMA E MUSICA" (in originale "Bollywood, the Greatest Love Story Ever Told"), di Rakeysh Omprakash Mehra e Jeff Zimbalist. La proiezione è avvenuta al Teatro Signorelli, al termine del gran gala di danza dedicato alla stella Mara Galeazzi, qui impegnata nel suo tour d'addio.

Quella tra Bollywood e l'India è forse "la più grande storia d'amore mai raccontata", come recita il titolo originale del documentario; storia del rapporto centenario tra un popolo e una delle sue più tipiche ed immutabili forme d'espressione artistica, un modo di fare cinema che sta cominciando pian piano a varcare i confini nazionali per imporsi all'attenzione del resto del mondo -la stessa Rai ha da poco programmato una rassegna dedicata alle produzioni bollywoodiane più recenti-, incuriosito più che mai da un fenomeno di difficile comprensione, tanto è profondamente radicato nella cultura indiana.

Quali tipi di film si girano a Bollywood? Semplificando, potremmo affermare che, essenzialmente, il cinema bollywoodiano sia costituito da un unico genere dominante, il musical, declinato in vari sottogeneri che si differenziano tra loro unicamente per i contenuti della trama messa al servizio (e non viceversa!) dei vari numeri musical/danzerecci che si susseguono nei film; il sottogenere tipico è quello del musical sentimentale, che propone burrascose storie d'amore tra giovani spesso ostacolati dalle rispettive famiglie e dalle differenze di casta -problematica, quest'ultima, tipica della società indiana-; vi sono poi storie che attingono a generi più definiti e affini al cinema occidentale quali il gangster movie, l'action movie e, più raramente, la fantascienza, per arrivare poi ai film di ambientazione storica (con un particolare occhio di riguardo al periodo della dominazione britannica e alla relativa, lunga marcia per l'indipendenza) e a quelli dedicati ai problemi del paese ed alle rivendicazioni sociali. In ogni caso, che si tratti di una supplica d'amore, di un grido di ribellione contro le ingiustizie o di una sfida lanciata ad un rivale negli affari o negli affetti, l'attore bollywoodiano pronuncerà la propria battuta ballando e cantando. La musica permea la cultura e la vita degli indiani ed è, di conseguenza, onnipresente pure nel loro cinema. Gli attori e le attrici ridono cantando, piangono cantando, urlano cantando. La musica è la modalità privilegiata attraverso cui esprimere le emozioni nel modo più intenso possibile, ha una funzione liberatoria e, non di rado, catartica. Nel momento dello spannung, ossia della massima tensione narrativa, le storie, giunte sull'orlo dell'esplosione, si dirigono invece verso la camera di decompressione rappresentata dall'immancabile spazio musicale che, oltre ad assolvere una funzione di pura contemplazione estetica delle sbalorditive e magniloquenti scene "musicodanzanti", si fa carico di produrre un effetto di alleggerimento; in tal modo, lo spettatore riesce temporaneamente a dimenticarsi della narrazione per lasciarsi trascinare dalla magia dei numeri musicali, e c'è veramente il rischio di rimanere storditi al cospetto delle vertiginose sarabande di colori -la cui varietà ben rappresenta l'eterogenea e complicata società indiana- che tinteggiano coreografie regolate da meccanismi di precisione svizzera, dove le individualità fatte di corpi danzanti si annullano fondendosi a creare un unicum vivente molteplice e coeso.

Veniamo al documentario. Suddiviso in 4 capitoli tematici, il filmato ha il difetto di essere un prodotto confezionato più per scopi promozionali e dimostrativi che esplicativi: infatti, quello che ci troviamo a guardare non è altro che un lungo montaggio -80 minuti circa- di sequenze (né i film né le canzoni vengono mai specificati) pescate dall'immenso serbatoio bollywoodiano, intervallate soltanto da sporadici e brevi commenti di addetti ai lavori (registi, produttori, attori; tra questi ultimi, si segnalano le partecipazioni di Anil Kapoor, attore nel film di Danny Boyle "THE MILLIONAIRE", e della splendida Aishwayra Rai, l'attrice indiana più famosa al mondo), capaci comunque di fornire spunti illuminanti. La riflessione senz'altro più interessante, contenuta in un capitolo significativamente intitolato "escapologia", è quella operata da un regista di lungo corso, il quale offre la propria soluzione alla domanda "perché a Bollywood si fa esclusivamente -o quasi- cinema d'evasione?". La risposta, nella sua analisi sociologica spicciola, è di una chiarezza disarmante: il popolo indiano, oppresso da un'esistenza quotidiana dura e avara di soddisfazioni, non vuole rivedere al cinema la rappresentazione della propria vita; ha bisogno piuttosto di sognare, ed ecco perché anche le tematiche più scottanti e dolorose affrontate nei film di Bollywood vengono sempre stemperate dal trattamento affabulatorio del musical. Il cinema, quindi, è concepito come pura evasione, ed è privo di intenti didascalici, edificanti o realistici. Molto interessante è anche l'affermazione fatta da un altro regista, chiamato ad esprimersi sul valore sociale e sull'utilità del cinema bollywoodiano: secondo l'intervistato, Bollywood è l'unico antidoto efficace contro la perdita di identità causata dalla globalizzazione; sono proprio le canzoni dei musical a conservare la cultura indiana e a trasmetterla alle nuove generazioni, altrimenti in balìa di un processo di frammentazione e confusione -mali tipici dei nostri tempi- cui né la scuola né le istituzioni sembrano in grado di porre rimedio.

E' bene però ricordare che Bollywood NON rappresenta la totalità delle produzioni cinematografiche indiane: accanto ai registi allineati, sono esistite in passato ed esistono tuttora figure dissidenti, ossia cineasti che realizzano le loro opere a partire da ben altre basi stilistiche e concettuali , dimostrando l'esistenza, tutt'altro che marginale, di un movimento alternativo all' "impero dei sogni".  L'esempio più illustre è quello del grande Satyajit Ray, forse il regista indiano-non bollywoodiano più famoso al mondo. Attivo a partire dagli anni '50, Ray si è distinto per uno stile spoglio ed essenziale di stampo neorealista mediante il quale ha realizzato la celebre "trilogia di Apu" -" IL LAMENTO SUL SENTIERO", 1953; "APARAJITO", 1957; "IL MONDO DI APU", 1959- , incentrata sulle vicissitudini di un giovane bengalese di famiglia povera, seguito dall'infanzia -negata- fino alla vita adulta. L'opposizione di Ray al sistema, soprattutto in quegli anni, è radicale: attori non professionisti al posto delle star di bollywood, le scarne partiture del maestro Ravi Shankar (virtuoso del sitar e padre di Norah Jones) in luogo delle canzoni "leggere", la povertà mostrata dal vero e senza censure. Se si vuole approfondire la conoscenza del cinema indiano, bisogna tenere conto anche dell' "altra" India, sicuramente più in ombra ma anche più accessibile per il pubblico occidentale.


Francesco Vignaroli

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