14 giugno, 2013

“Il Grande Gatsby”. Può piacere o non piacere, ma non passa certo inosservato! Di Alessandro Ferri


Visto al Teatro Signorelli di Cortona


Il Grande Gatsby (The Great Gatsby) di Baz Luhrmann, uscito nelle sale americane il 10 maggio scorso, è la più recente trasposizione cinematografica del romanzo scritto da Francis Scott Fitzgerald nel 1925.
Nick Carraway, giovane di poche risorse, è cugino di Daisy Buchanan, sposa di uno degli uomini più ricchi della costa est degli Stati Uniti negli anni Venti. Daisy non ama particolarmente suo marito, conoscendone le continue scappatelle, ma la vita agiata e la sua inesistente assertività le impediscono di reagire. Accanto alla casetta in affitto di Nick, proprio dalla parte di Long Island opposta alla villa di Daisy, si erge la magione del misterioso Jay Gatsby, uomo ricchissimo, famoso per le incredibili feste che organizza quasi quotidianamente. Gatsby riesce a farsi amico Nick, e gli spiega la propria storia: nato poverissimo, è riuscito ad arricchirsi grazie alla propria intraprendenza e a business non esattamente leciti. Ha conquistato una posizione invidiabile e una ricchezza da sogno, ma non è riuscito a riprendersi Daisy, sua fidanzata prima della Guerra e ormai accasata al suo ritorno: è proprio per lei che organizza le feste, sperando che prima o poi possa essere attirata dalle luci e dalla musica e lo venga a trovare. Ma è solo grazie a Nick che i due possono incontrarsi a distanza di anni, e rinnovare un legame mai sopito. Gatsby riesce persino a convincere Daisy a lasciare il marito. Ma gli eventi non seguiranno lo schema che si era immaginato.




È noto che la primissima versione del romanzo era intitolata Trimalchio, ossia Trimalcione, come il protagonista di una delle sequenze più gustose e conosciute del Satyricon di Petronio. Trimalcione, nel romanzo latino, è la personificazione spietata dei disvalori dei parvenus dell’età imperiale: gretto, volgare, scialacquatore, si fa un nome grazie alle interminabili cene che organizza. E questo è un elemento che lo avvicina a Jay Gatsby. Ma la somiglianza tra i personaggi non è l’unica caratteristica che avvicina Il Grande Gatsby al Satyricon.
L’intero romanzo di Petronio – o perlomeno quanto ci è rimasto di esso – è influenzato da un’angosciante sensazione di morte e abbattimento. L’esasperazione delle forme, le feste che durano fino al mattino, altro non sono che un disperato tentativo di esorcizzare l’agghiacciante compagnia della triste mietitrice, che appare ovunque e comunque. Il romanzo di Fitzgerald non si sottrae a questo atteggiamento, seguendo un motivo che costella l’intera storia della cultura europea: c’è un fil rouge che unisce le feste di Trimalcione alle novelle del Decameron, le volute ardite di Borromini alla prolissità del Sentimento del tempo ungarettiano. “Chi vuol esser lieto sia, di doman non c’è certezza”, è la degna epigrafe di queste opere.
Il regista australiano Baz Lurhmann (Romeo + Giulietta, Moulin Rouge!, Australia) ha gioco facile nel proporre sullo schermo la cifra incontenibile delle feste di Gatsby. Formatosi sulle più diverse forme di regia musicale (videoclips, musical, melodramma), convinto promotore dell’estetica camp, non lascia nulla al caso, attribuendo alla colonna sonora un ruolo così significativo da spostare la data di uscita del film di sei mesi, pur di ottenere i diritti di tutti i brani inclusi. Il commento musicale, così come era avvenuto per Moulin Rouge! è volutamente anacronistico: Lana del Rey, Black Eyed Peas, Beyonce, Jay Z, Emeli Sande… praticamente tutta la top 10 di Billboard è presente, con pure qualche incursione nei territori più hipster (The xx). In certe scene la scelta è azzeccata, ma non sempre: talvolta i pezzi moderni paiono poco coerenti con la sequenza, in modo opposto a quanto avviene in Django Unchained (in cui Tarantino riesce a mescolare miracolosamente Morricone e Jim Croce, 2Pac e Johnny Cash).
Se sul piano formale poco si può dire a Lurhmann – certo, il suo modo di girare è sempre eccessivo, magniloquente, esagerato, e può non piacere. Ma l’età del jazz è proprio queste tre cose: eccessiva-magniloquente-esagerata. L’augurio che possiamo fargli, semmai, è che fra venti o trent’anni questo film assomigli più al Rocky Horror che a Jesus Christ Superstar: all’epoca furono entrambi all’avanguardia, ma al giorno d’oggi il primo non risente dello stantìo odore di flower power che ammanta il secondo. Sul piano del contenuto, gran parte del film sembra ignorare le riflessioni esistenziali del romanzo di Fitzgerald. Neppure le notevoli doti mimetiche di Leonardo Di Caprio sembrano in grado di squarciare i coloratissimi tendaggi che avvolgono la pellicola, e i colleghi non paiono sempre all’altezza: in particolare Carey Mulligan, nel ruolo di Daisy, è poco convincente.
È solo nelle ultime sequenze che il film concretizza il senso dell’opera di Fitzgerald, attraverso due scene fortemente elaborate (la morte di Gatsby e la luce verde) ma persuasive.
In conclusione, questa nuova versione di Gatsby ha carattere: può piacere o non piacere, ma non passa certo inosservata. Quello che alcuni possono detestare – la pervasività della musica, la plasticosità delle scenografie, i colori improbabilmente saturi, le sequenze accelerate – lo possono apprezzare altri. È un cinema più vicino a Tarantino e Kusturica (mutatis mutandis) che a quello lineare di matrice europea; ha il merito di essere una delle poche testimonianze di kolossal senza supereroi o vampiri o esili trame bellicose, ma risulta a tratti troppo veloce e poco intelligibile. Il rapporto col libro di partenza è tutto particolare, e dovremmo intendere questo film più come “opera originale che prende larghi spunti dal testo di Fitzgerald” che come “versione cinematografica del romanzo”. Anche perché il libro è molto più bello, ma non per questo non dovreste vedere il film. Giudizio: s.v.


Alessandro Ferri

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