01 marzo, 2012

"War Horse". La guerra agli occhi di un cavallo


A distanza di pochi mesi dall’uscita nelle sale di Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno,
Steven Spielberg torna letteralmente a cavalcare l’onda cinematografica (o, più semplicemenete, solo a cavalcare) di quest’inizio stagione 2012. E lo fa raccontandoci una storia epica di ampio respiro che tocca i temi ai quali il regista è più affezionato. Temi che, non a caso, costituiscono il marchio di fabbrica della sua opera. Da questo punto di vista l’ultima fatica del regista si inanella perfettamente nella poetica spielberghiana, rispolverando coscientemente quella capacità affabulatoria che ne ha fatto uno dei più grandi e sinceri narratori di fiabe ad alto contenuto emotivo.
La storia – un adattamento dal libro War Horse di Michael Morpurgo –  è vista e narrata attraverso gli occhi di Joey, un puledro purosangue nato e cresciuto nel Devon, una regione a sud della Gran Bretagna, e che è a conti fatti il protagonista assoluto. Sin dall’inizio, prima ancora di essere in grado di reggersi sulle zampe, lo sguardo di Joey incontra quello del giovane Albert Narracott (Jeremy Irvine), siglando da subito quello che sarà uno (il) dei motivi trainanti della pellicola: la profonda amicizia tra un ragazzo e il suo cavallo, capace di attraversare lunghe distanze, superare ostacoli e scampare gli orrori della guerra stessa.
Spielberg decide di aprire il film con un’ampia panoramica atta a contestualizzare l’ambientazione, di chiaro stampo pastorale, che farà da cornice ai primi capitoli della storia. Ampi spazi aperti, campi coltivati, colline lussureggianti e un cielo limpido. Il tutto esposto a una fotografia brillante e sostenuto da una magistrale Suite del sempre infallibile John Williams. È senz’altro un esplicito omaggio ai paesaggi western di John Ford che spesso, anziché essere solo uno sfondo, raccontavano storia e personaggi. Un po’ come accade nel film di Spielberg del resto, dove, all’arrendevole bellezza delle campagne inglesi corrisponde l’altrettanto ardua sfida al terreno arido e sassoso della famiglia Narracott, loro unica risorsa economica. Il primo ostacolo per Albert e Joey è dunque rappresentato dalla natura stessa. Albert, che ha convinto il padre Ted (Peter Mullan) a lasciargli addestrare il purosangue con il quale è già entrato in sintonia, dovrà dimostrare a tutti che credere fermamente in qualcosa è il punto di partenza per renderla concreta. E così accade: spronando Joey fino all’inverosimile, facendo leva sul feeling che si è creato tra loro e grazie alla sensibilità profonda dell’animale verso l’uomo, Albert riesce nell’impossibile. A coltivare quel terreno tanto aspro e a suggellare l’amicizia con l’animale con una fiducia reciproca. Ma l’idillio è breve: la Guerra, presente dall’inizio del film come un’avvisaglia, un rombo di tuono in lontananza, travolge in un lampo le esistenze di tutti, senza risparmiare nessuno. La stessa guerra che Ted Narracot si rifiutava di raccontare nonostante l’interesse del figlio nel voler seguire le orme del padre. Ed è proprio per colpa del conflitto che, come si dice nel film, “Porta via a tutti di qualcosa o qualcuno”, Albert e Joey vengono divisi. Ted, con la speranza di guadagnare qualcosa, decide di vendere il cavallo a un ufficiale dell’esercito segnando così il suo ingresso nei campi di battaglia e l’inizio vero e proprio del suo viaggio.
La guerra, il viaggio, la perdita – ma anche il rapporto tra due creature diverse – sono punti fermi nella filmografia spielberghiana. Non a caso dallo scoppio della Guerra e dal conseguente allontanamento di Joey da Albert, il film ruota tutto attorno all’epica – e al tempo stesso tragica – odissea che il protagonista deve affrontare per ritornare a casa. Il percorso di Joey si trasforma da ora in avanti in un’avventura costruita come un mosaico, dove a ogni tessera corrisponde un blocco narrativo che lo mette in relazione con personaggi appartenenti a tre nazioni diverse (Inghilterra, Francia e Germania), che condividono l’impegno nel conflitto bellico. Tali tappe, oltre ad arricchire il bagaglio di esperienza del protagonista, offrono allo spettatore punti di vista e storie diverse sullo scenario della guerra.
E se la guerra rappresenta l’ostacolo più duro da superare è anche la parte dove la mano di Spielberg si fa più sentire. Come ai tempi di Salvate il soldato Ryan, (e allo stesso tempo facendo un passo indietro rispetto all’estremo e sanguinoso realismo, perché in fondo, War Horse è una favola) i momenti in cui il focus del film stringe sulla battaglia offrono uno spaccato impeccabile della vita nella trincea. La fotografia di Kaminski, prima luminosa, si veste ora degli orrori che toccano i personaggi: lugubre, sporca e impastata.
In una delle prime scene di battaglia Steven Spielberg dimostra come il dramma della guerra è tanto più forte perché le eroiche cariche della cavalleria sono diventate obsolete, sostituite dalla furia devastante e cieca delle armi moderne. A Joey, che ha perso il proprio cavaliere (l’ufficiale che l’ha comprato dai Narracott), non resta che fuggire guidato solo dal suo istinto di sopravvivenza, grazie anche alla compassione e alla gentilezza di alcune delle persone che incontrerà attraverso il suo percorso. Dal giorno alla notte, in tutte le direzioni e senza fermarsi mai correrà per fuggire dal Male stesso che lo circonda e riunirsi all’amico.
L’ultimo atto della pellicola, infatti, accelera vertiginosamente trasportando lo spettatore nel bel mezzo del campo di battaglia (‘la-terra-di-nessuno’ come viene chiamato) scaricandogli addosso uno tsunami di emozioni. Si tratta di raggiungere il picco massimo del virtuosismo, esaltato da una sequenza da antologia del cinema dove il cavallo corre letteralmente attraverso la guerra, circondato da esplosioni, colpi di fucili e cannoni, messo alle strette dagli stessi carri armati sulle note di una monumentale colonna sonora (l’estratto in questione, non a caso, s’intitola ‘No Man’s Land’). Con un montaggio frenetico ma stabile Spielberg ci racconta la fuga verso la salvezza di Joey che, dopo le ultime difficoltà, riesce a ricongiungersi a un Albert che ha vissuto, allo stesso modo, la guerra sulla propria pelle. Molti sono morti, ma lui come il suo animale ne è uscito vivo. Come Joey, riporta sul proprio corpo e nella memoria i segni indelebili di un’esperienza irripetibile e impietosa. Solo ora, attraverso una crescita da ‘romanzo di formazione’, comprende perché il padre si è sempre tirato indietro dal rievocare quegli eventi.


Come nella più classica delle fiabe Spielberg non si sottrae al piacere di regalare allo spettatore un tanto sperato Happy End. E’ la morale cui ci ha abituato il regista duranti tutti questi anni, è quello che ci aspettiamo, che sogniamo ardentemente e che è senz’altro necessaria in un film di genere. Si sa, ‘l’eterno Peter Pan’ ha il gusto per un buonismo a tratti smielato, per l’ottimismo e la commozione. Sono quei tratti che la critica contesta e che sempre contesterà ma che al contrario non deluderanno mai i suoi fans. Così quando l’ultima inquadratura incornicia la famiglia riunita immersa in un tramonto pittorico (un po’ ‘posticcio’) sentiamo di essere, anche se non pienamente, soddisfatti della storia cui abbiamo assistito. E sentiamo anche di poter sorvolare, in parte, su quelle scene e dialoghi un po’ forzati, scontati e da manuale, che mancano di una collocazione precisa nella storia. Coerenti con la narrazione ma un po’ deboli nella struttura dello script. Alla fine usciamo dalla sala sapendo di aver assistito a uno Spielberg certamente fedele a se stesso, coinvolgente ed emozionante ma che forse non è stato in grado di consegnarci, salvo che non si tratti di sottili echi, una perla che brillerà nella storia del cinema come in passato è riuscito a fare.


Riccardo Ceccherini









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