24 novembre, 2011

Microcosmo parallelo. Conversazione con Vincenzo Schino


Potresti presentare lo spettacolo “Limite” parlando delle differenze che ci sono rispetto agli altri tuoi lavori?
Limite è il primo esperimento di rottura da Voilà, che per problemi tecnici non abbiamo portato qui al festival.
Opera è il primo spettacolo che ha creato il gruppo Vincenzo Schino; da Opera sono nate delle tappe di ricerca, le Operette, finite con Voilà. Limite invece fa parte di una nuova fase che rincomincia da zero. In Voilà abbiamo utilizzato figure popolari come clown, maschere della commedia dell’arte, burattini. Mi sono ispirato ad antichi dipinti e a esempi classici del teatro, per esempio, il mio Pulcinella è quello di Tiepolo, Arlecchino è quello di Ferruccio Soleri e di Strehler. Per quanto riguarda le figure di Limite è importante riuscire a sfruttare la loro potenza. Esse si legano a un aldilà; la volontà è quella di andare alla ricerca di un altro mondo.

Questa creazione di un altro mondo è forse un tentativo di evasione sociale?
Non c’è un atteggiamento politico o di polemica. Non è un fuggire in un universo immaginario, ma un creare qualcosa che fa parte dal mondo. Usiamo degli oggetti precisi, chiari, reali partendo dai quali si finisce per creare qualcos’altro, un microcosmo dove gli stessi oggetti sono distorti cosicché il luogo, alla fine, diventa qualcosa di sconosciuto, anche per gli stessi attori, il cui lavoro, nelle prove, è proprio quello di ambientarcisi.

Mi parleresti di come nei tuoi spettacoli gli attori fanno uso della spazialità?
Gli spazi per gli attori sono definiti e c’è l’idea che tutto lo spettacolo si crei contemporaneamente. Niente viene dopo, né i costumi né la scenografia.

Fate uso dell’improvvisazione?
Nelle prove facciamo uso dell’improvvisazione, ma la cosa più importante è l’ascolto. L’attore deve essere in grado di ascoltare quello che accade, nell’ambiente o dentro di lui. Questa idea viene nutrita dalle mie suggestioni istintive oppure dagli studi che faccio di letteratura e di arti visive. È così che riusciamo a creare uno spettacolo caotico che in certi frangenti diviene più disteso e apollineo.

Il tuo non è un lavoro che potremmo definire psicologico.
Il mio lavoro è antipsicologico, non c’è psicologia nel personaggio. Più che di personaggi, nel mio teatro si parla di figure, prese in prestito da Francis Bacon. È importante la forza istintiva data da queste figure. Esse diventano quasi degli strumenti musicali per la loro intensità emotiva. Il lavoro degli attori, la cui meta è di giungere a quest’effetto irrazionale, si divide tra quello che a loro viene proposto di fare e quello che si sentono di fare emotivamente. Non c’è un atteggiamento da marionetta e marionettista. È un lavoro sull’abbandono.

Punto di vista del pubblico, punto di vista del creatore dello spettacolo. Come s’incontrano? Si deve scendere a compromessi?
Non si deve scendere a compromessi. Il pubblico è fondamentale, ma non si deve pensare di scrivere qualcosa che gli piaccia. Gli spettatori sono importanti, perché con loro gli attori entrano in una sorta di contatto energetico, così da creare un circuito elettrico. Anche io, che provvedo alle luci e alla regia, reagisco all’energia che si crea. È un po’ come un concerto in cui gli strumenti non smettono mai di accordarsi.

Cosa ne pensi di questa idea del festival di farvi incontrare con i Visionari, i non addetti ai lavori, insieme ai Fiancheggiatori, i professionisti del campo?
Mi sento molto contento di questo, perché di solito sono operatori quelli che vedono i miei spettacoli e i Visionari invece sono il vero pubblico, il pubblico casuale. Quando mi chiamò Luca Ricci, per dirmi che ero stato selezionato dai Visionari, per me è stata una bella cosa perché si è scelti dal pubblico che si vuole.

Un’ultima domanda: è possibile vivere con il teatro?
No, in Italia no, non so all’estero, ma in Italia no, lo sottoscrivo. Non c’è un mercato che sostiene gli spettacoli. Dovremmo fare troppe repliche e non è possibile.

Sono forse queste difficoltà a rendere il teatro interessante?
Sì, perché chi lo fa non ha niente da guadagnarci e si fa per passione e accanimento. Ti domandi: “Ma chi te lo fa fare?”. Evidentemente c’è qualcosa che brucia e che ti manda avanti. Noi continuiamo.

Stefano Duranti Poccetti (dal giornale del Kilowatt Festival, 24 luglio 2009)

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