01 febbraio, 2016

"Una casa di bambola" di Henrik Ibsen Traduzione, adattamento e regia di Andrée Ruth Shammah. Di Daria D.


Teatro Franco Parenti, Milano. Dal 28 gennaio al 24 febbraio 2016

Nora, perfettamente nel ruolo la brava Marina Rocco, è una bella statuina di biscuit, in quel costume raffinato, tenue, delicato come la sua carnagione, i suoi capelli, i suoi occhi ingenui, vaga per casa in cerca di sogni, di giochi, di dolci, circondata da uomini innamorati di lei in modi diversi: il marito, il dottore e l’usuraio. Lei  è come un dolce bambolina, e quale uomo non si innamorerebbe di una donna del genere, che più femminile non si può, apparentemente debole, apparentemente ochetta, da proteggere, da adorare, ovviamente incapace di fare qualsiasi cosa, ma che all’occasione sa tirare fuori le armi giuste?
E’ lei che ha permesso al marito di guarire, a sua insaputa, portandolo in vacanza in Italia (Ibsen scrisse questa che lui definì modern tragedy nel 1879 durante un soggiorno ad Amalfi e si ispirò all’amica Laura Kieler che visse uno scandalo simile), trovando i soldi per pagare il viaggio e l’ha fatto per amore, per gratitudine verso un uomo che non le ha mai fatto mancare nulla, sebbene collocandola in una gabbia dorata, “la sua lodoletta”, nutrendola e giocando con lei, madre dei suoi tre figli. Caro Torvald, quale donna non ti vorrebbe per marito? Con tutti i mascalzoni che girano, non sei certo quello peggiore. Non c’è mala fede in lui, non dimentichiamo che per natura  l’uomo vive proiettato al di fuori, dedito al suo lavoro, preoccupato  per  la sua dignità di fronte agli occhi della gente, la donna invece è il centro della casa, del matrimonio, si muove “dentro”, si occupa dell’educazione dei figli, della felicità del marito.  Ma tutto questo avveniva un tempo, ora i ruoli si sono quasi invertiti, dei vantaggi o  svantaggi che ne sono derivati non ne parleremo in questa riflessione sulla messa in scena di Andrée Ruth Shammah.

Messa in scena che prima di tutto, come sempre quando si sceglie un testo classico, è un invito a rileggerlo o a leggerlo per la prima volta, trovandoci idee nuove o diverse da quando lo avevamo affrontato magari tanti anni fa. Forse è leggermente datato, per i motivi sopraddetti, meglio non storicizzarlo troppo, era già moderno e dirompente alla fine dell’800. Lasciamolo così, nella sua purezza e bellezza, oppure facciamone una cosa completamente nuova, stravolgendo tutto. Perché la regista ci ha provato, in parte, ma non completamente, non coraggiosamente, dando per esempio ad un solo attore, Filippo Timi, i tre ruoli maschili, o introducendo una figura spettrale ispirata alla scenografia munchiana, o dando ad  un attore maschio  il ruolo della balia, ma non so se queste “invenzioni” un po' facili abbiamo aggiunto qualcosa o invece ci abbiamo un po’ distratto, anche se in definitiva la nostra attenzione era solo ed esclusivamente sulla figura di Nora.
E’ vero che i tre uomini sono le tre facce di uno stesso universo maschile che Nora affronta volta per volta, da cui si difende, cui si concede, con cui si confida, di cui ha paura, e a cui mente, senza distinzione, ma alla fine appaiono sfocati e a volte un pò ridicoli. I tre uomini, anche se poi è Timi il vero  e unico  protagonista,  sembrano non voler mai passare inosservati, vogliono comunque primeggiare, allora cercano l’applauso, la risata del pubblico, affidandosi ad una recitazione  esteriore, poco sentita e interiorizzata. La bravura di un attore non si basa sul tempo che passa  sul palcoscenico o sul suo volere attirare il pubblico dalla sua parte, come fa Timi qui.  E’ Nora/Marina la protagonista, è lei che tiene le fila di tutto, e che ci piace per questa sua interpretazione così fanciullesca e delicata, canterina e allegra. Forse la regista avrebbe potuto spingere ancora di più il suo gusto, come scrive Ibsen, per i travestimenti, i giochi, le risate, riempiendo la stanza di oggetti che per lei sono passatempi, ninnoli, cui si innamora e poi abbandona velocemente, perché lei è solo una bambina viziata che vive di sogni. E non di tragedie. Anche l'abbandono finale sembra più un atto teatrale che un gesto vero, ragionato, sentito.
La regia va in discesa, gli attori arrivano alla fine senza quell’energia che avevano all’inizio. Forse avere scelto una scena così spoglia, troppo minimalista, eppure Ibsen fa una descrizione dell’ambiente come pieno di gusto ma senza lusso, dove c’è un pianoforte, una stufa in maiolica che arde, è inverno, tanti libri rilegati, l’albero di Natale,  tavolini pieni di soprammobili di porcellana, incisioni alle pareti, un tappeto che copre il pavimento, impedisce agli attori gesti e cose da fare, precise e realistiche, che riempiano i vuoti, i silenzi, gli imbarazzi, che non siano il solito perenne insopportabile togliersi il cappotto e il cappello mille volte o spostare sedie in giro per la stanza, senza un motivo, o fogli che passano da un tavolino grande ad uno piccolo e viceversa.  Troppo spesso regie tali riducono gli attori a non sapere cosa fare, e si vede eccome, dopo tre ore, poverini loro, non riescono più a recitare nulla di vero. E’ dall’azione che genera la parola e se mancano le azioni, se sono state esaurite allora dove si appigliano gli attori? Al pubblico! E’ ovvio ma così non funziona.
E perché quella tarantella non la risentiamo ancora in sottofondo, invece di un fuori luogo jazz, come un ricordo di Nora, di quando lei era lì con lui, felice e bella, nell’ultima scena in cui  Torvald rimane solo sotto la neve?  Una musica allegra avrebbe rafforzato la sua disperazione di uomo abbandonato. Perché se Ibsen l’ha messa nella sua moderna tragedia  ci sarà pur stato un motivo: forse il ricordo di quel viaggio in Italia, o di quell'ultima festa, insomma  di quel tempo felice e triste passato insieme e che non tornerà più. Considerazioni…
Ogni donna è un po’ Nora, ogni uomo è un po’ Torvald, un po’  Rank, un po’ Krogstad, il male e il bene non sono nettamente divisi, questo è il gusto della vita. Ne vedremo ancora tante di Nora, e ancora tanti Torvald, tanti dottori, tanti usurai, speriamo solo di non stancarci…

Daria D.


Una casa di bambola di Henrik Ibsen.
traduzione, adattamento e regia di Andrée Ruth Shammah 

con Marina Rocco e Filippo Timi

Mariella Valentini,  Andrea Soffiantini, Marco De Bella, Angelica Gavinelli, Elena Orsini, Paola Senatore
spazio scenico Gian Maurizio Fercioni –
elementi scenici Barbara Petrecca -
costumi Fabio Zambernardi in collaborazione con Lawrence Steele -
luci Gigi Saccomandi –

musiche Michele Tadini

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