09 dicembre, 2015

“Il lavoro di vivere” di Hanoch Levin. Recensione di Daria D.


Teatro Franco Parenti, Milano. Dal 27 novembre al 13 dicembre 2015

“E vissero infelici e scontenti per trenta e più anni, finché venne la morte a dividerli definitivamente”
Basterebbero queste parole per definire il testo del drammaturgo israeliano Hanoch Levin, uno sguardo spietato e reale sull’istituzione del matrimonio, sui rapporti di coppia, sulla vita, quando sta per finire, ma in realtà finita da tempo, forse già dopo la prima notte.
Yona e Leviva sono lo specchio di tutti i matrimoni, anche quelli che apparentemente appaiono i più felici, ricettacoli di menzogne, ipocrisie, un gioco dove nessuno si diverte più e dove le parole “noia”, “soffocamento”, “mancanza di desiderio”, “odio”, “insofferenza”, “paura”, “nausea” sono proiettili che feriscono violentemente, irrimediabilmente, rimbalzando tra le pareti di una stanza dove il letto è solo un giaciglio per corpi avvizziti che non si toccano più da anni, che a stento si sopportano, e che stanno insieme soltanto per paura. La paura di morire soli.

La scena è una camera da letto dove Leviva dorme, forse sogna?  non sente, o fa finta di non sentire? Yona che si lamenta del dolore che gli ha attanagliato il petto, un presagio funesto nel cuore della notte, quando il sonno è come “piccole schegge di morte” come scrive Poe. E così comincia la sua invettiva solitaria e inascoltata verso la moglie che gli sta accanto, “un culo come una palla al piede”, “un pezzo di carne rinsecchita” da cui vorrebbe allontanarsi, ma chissà quante volte l’ha pensato e minacciato in quei trent’anni, senza averne mai avuto il coraggio. Per paura è rimasto a casa, in fondo solo “per amareggiarle la vita”.
 E poi stanco di abbaiare alla luna, quale luna?  rovescia il materasso per terra, svegliando la moglie. Lei ha una reazione blanda, forse è il sonno che la rende così apatica o forse, anzi sicuramente, è per via della sua debole, insignificante personalità, di quello spirito di sacrificio nei confronti degli uomini che hanno spesso le donne e che le rende così poco attraenti. Una donna che rinfaccia al marito “di avergli dedicato trent’anni della sua vita”, mai sentite queste parole? Mai pronunciate? Magari invece di trenta sono quaranta, o venti, o cinque, che importa? E’ che il matrimonio è un rituale obsoleto, ipocrita, dove esseri soli si uniscono senza sapere che saranno ancora più soli.
Lui è rabbioso, comincia a vestirsi, ma il pigiama rimane sotto l’abito, e le scarpe sono già ai piedi del letto, invece delle pantofole, per essere pronto “a prendere il largo” in qualsiasi momento.  Fa la valigia, e continua a rinfacciarle tutto quello che ha tenuto dentro per trent’anni, o forse è un’ennesima invettiva che non ha avuto mai seguito perché lei ha minacciato il suicidio, chissà quante volte. Come si può vivere così? In nome di cosa?
Com’è crudele ogni parola di Levin, anche se ogni tanto ci scappa un sorriso, una risata amara, tuttavia, davanti a quello che prima o poi tutti diventeremo. Non c’è scampo alla vita di coppia. Come non c’è scampo alla vita, in generale.
Nemmeno i sogni sono rispettati, quel resto di privacy dove possiamo rimanere soli, con i nostri desideri, voglie, illusioni, perché Yona pretende di sapere cosa Leviva sta sognando, insinuando la sua infedeltà, perfino nello stato incosciente del sonno. Lei cerca di difendersi, con il pianto, come fanno le donne, e che fa tanto irritare gli uomini. Ma lei sognava soltanto di comprarsi un cappello per l’estate, non di tradirlo. Sarà vero? Le donne sanno mentire bene, per difendersi dalla violenza maschile.

Tenendo la valigia in mano, si avvicina continuamente alla porta, ma poi torna indietro, ci ripensa, trova altre parole per ferire, non ha il coraggio di uscire e alla fine rimane lì come “un pesce morto”, senza decidersi.  Poi un bussare alla porta. E’ il vicino di casa che chiede un’aspirina, ha visto la luce accesa, ha forse sentito l’ennesimo litigio. Si insinua nella loro discussione come un serpente, ha capito tutto della coppia, li smaschera per bene e loro, per difendere la propria immagine, borghese, si alleano contro quell’individuo che rappresenta tristemente quello cui andrebbero incontro se si lasciassero: morire in completa solitudine. Non c’è un happy ending, perché è la vita stessa che non ce l’ha, eppure non tutte le coppie sono così, c’è chi ha il coraggio di dire basta, di rompere situazioni di stallo, di pena, di angoscia, di falsità. E di ricominciare, più consapevoli, più dignitosi. Ma la maggior parte sopravvive, inerme, è il trionfo dell’“amore bugiardo” e poi vanno a teatro a vedersi rappresentati, ridendo di se stessi. E poi usciranno mano nella mano, pensando che a loro non capiterà mai, una cosa del genere.
Uno spettacolo che fa male, molto male. Andrée Ruth Shammah  e Carlo Cecchi lo sanno bene ma nonostante questo hanno avuto il coraggio di portarlo in scena, senza paura di rimanere soli, consapevoli che l’arte ha la capacità di farci pensare, indagare, scavare nelle nostre esistenze, aiutandoci, ci auguriamo, a rendere meno penoso il “lavoro di vivere”, che non lascia mai nessuno disoccupato.

Daria D.

“Il lavoro di vivere”
di Hanoch Levin
uno spettacolo di Andrée Ruth Shammah ripreso da Carlo Cecchi
con Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto, Massimo Loreto
collaborazione alle scene Gian Maurizio Fercioni
collaborazione alle luci Gigi Saccomandi
costumi Simona Dondoni
musiche Michele Tadini 
Produzione Teatro Franco Parenti

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