30 aprile, 2015

"Mi chiamo Beba". Recensione di Paolo Leone


Che Palma Lavecchia fosse abile nel raccontare storie che nascono e si sviluppano nell’ambito familiare, lo avevamo scoperto nel suo primo romanzo. In questa sua nuova opera, Mi chiamo Beba – quando un uomo ti picchia non è mai per amore, (Infinito Edizioni), sorprende lo stile utilizzato nell’affrontare una tematica, ainoi, attualissima, come si evince subito dal sottotitolo. Quella delle violenza sulle donne, perpetrata perlopiù nell’ambito domestico e coniugale.
Benedetta (Beba una volta uscita dal tunnel) è una giovane ragazza, che come tante crede di incontrare l’amore della vita nel primo fascinoso compagno, incurante dei piccoli allarmi,  dei primi deboli segnali di pericolo, nella presunzione nefasta di poterlo cambiare. Non crediate di leggere un piatto racconto di continue angherie, o che la storia cerchi di catturare l’attenzione con la descrizione morbosa di odiose violenze. Il romanzo è costruito “a due voci”, in prima persona. Benedetta e Paola, la vittima e l’assistente sociale che la seguirà nel suo calvario, ed inizia da un passo precedente all’epilogo. Le due donne danno vita ai rispettivi punti di osservazione sulla storia, in una serie bellissima di flash-back, con grande ritmo, tanto da rendere il libro divorabile facilmente in una sola giornata. Interessanti anche tutte le altre figure che appaiono nel racconto, ognuna caratterizzata da una personalità importante e funzionale alla crescita della trama  narrativa, in modo spesso sorprendente. La dinamicità della doppia narrazione stimola ad andare avanti nella lettura come raramente accade e, particolare non da poco, tiene in sospeso la curiosità del lettore che, ad un certo punto, si chiede il perché del drammatico sottotitolo. Lo si scoprirà quasi improvvisamente, con raccapriccio, al verificarsi della scintilla che farà esplodere la “violenta debolezza” dell’uomo che sembrava ormai uscito di scena.
Molto aderente alla realtà di queste vicende (e non poteva essere altrimenti, vista anche l’esperienza dell’autrice in qualità di Capitano dell’Arma dei Carabinieri), il romanzo illumina aspetti che solitamente si ignorano in questi casi di quotidiana cronaca. Anziché indugiare sulla morbosità che può suscitare un tale racconto, la penna di Lavecchia non rinuncia mai ad un’analisi che cerca di spiegare i meccanismi psicologici di e tra vittima e carnefice, e lo fa con maestrìa, senza venir meno al pathos necessario in un romanzo. Una brutta storia come tante, purtroppo, complicata nelle diverse umanità che interagiscono in essa, ma che non chiude la porta alla speranza di rinascita di chi subisce violenze fisiche e/o psicologiche, ma anche di chi le infligge, indicando la strada terapeutica necessaria a tal fine. Un romanzo piacevole da leggere, moderno, con un forte richiamo alla cura di se stessi e all’autostima necessaria per non rinnegare la propria dignità. E a chiedere aiuto, senza reticenze. Perché la violenza può nascondersi in ognuno di noi, anche nel più insospettabile.


Paolo Leone

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