08 novembre, 2014

L’INFINITO DENTRO: “IL GIOVANE FAVOLOSO” GIACOMO LEOPARDI. Di Francesco Vignaroli


Finalmente il nostro cinema rende omaggio a Giacomo Leopardi (1797-1838), probabilmente il più grande poeta italiano dell’800; a colmare questa lacuna ci ha pensato il bravo Mario Martone, regista del celebrato L’amore molesto (1995), qui al suo secondo viaggio consecutivo nel XIX secolo dopo il film storico Noi credevamo (2010). Va subito detto che, storicamente, il genere biografico è tra i meno praticati dal cinema italiano (quanti grandi del nostro passato attendono ancora di essere ricordati sul grande schermo!), contrariamente a quanto avviene, per esempio, nella nostra televisione o nel cinema americano; tra i pochi esempi di cinema biografico in Italia si ricordano le monografie didattiche dell’ultimo Rosselini, pensate però principalmente per la TV, con l’eccezione di film come Anno Uno (1974, biografia di Alcide de Gasperi) e Il messia (1975).
 Il giovane favoloso è la prova tangibile e convincente del fatto che anche le biografie si possono prestare ad un trattamento cinematografico godibile ed avvincente. Tale risultato è stato raggiunto dal regista partenopeo adottando un approccio al genere biografico che soltanto parzialmente può essere ricondotto alla lezione rosselliniana: per rendere efficacemente in tutta la sua ricchezza e complessità letteraria, filosofica e umana un personaggio come Leopardi, Martone non si è limitato ad una classica trattazione “istituzionale” e didattica, cioè meramente storica, andando invece a scavare nel vissuto e nella psiche del poeta, occupandosi quindi anche dell’aspetto esistenziale della sua breve ma densissima vita e restituendoci così un immagine di Leopardi finalmente “tridimensionale”, facendo piazza pulita della piatta, fredda, severa, stereotipata e drammaticamente limitata concezione di Leopardi quale traspare troppo spesso dal trattamento scolastico: il “poeta del pessimismo cosmico”, deforme e disperato topo di biblioteca talmente ammalato nel fisico e nella mente da rifiutare in toto la vita in favore di un ultranichilistico desiderio di morte, si dimostra in realtà, grazie anche alle tranches de vie che Martone alterna sapientemente a sequenze squisitamente storiche o letterarie (in cui il poeta recita alcune delle sue poesie tra cui, naturalmente, L’infinito), un uomo innamorato della vita e tutt’altro che rinchiuso in una sorta di autismo libresco, uno spirito libero e anticonformista, un sognatore capace di innamorarsi di una donna come del chiaro di luna e di intenerirsi al cospetto delle meraviglie di quella Natura tanto ostile quanto affascinante. L’operazione riesce perché, alla fine, Martone non si inventa nulla (o quasi): se i riferimenti storici sono autenticati e confermati dai documenti e dalle cronache dell’epoca, non è meno legittima e fondata la ricostruzione introspettiva, cui fanno da testimoni le opere del poeta, sia di prosa (le Operette morali) che di poesia (i Canti); questo perché in Leopardi produzione letteraria e vita sono un unicum indivisibile: tanto sono autobiografici ogni suo singolo verso, ogni sua singola parola, che non sarebbe azzardato sostenere che Leopardi abbia speso le proprie energie per raccontare sempre la medesima cosa, cioè sé stesso. Mentre, per fare un confronto con un autore suo contemporaneo, Manzoni è stato un “inventore di mondi” -si pensi ai Promessi sposi- Giacomo Leopardi ha costantemente ed incessantemente dato espressione ai propri sentimenti, alle proprie aspirazioni, ai propri desideri, dolori, sogni…in una sorta di monumentale autobiografia continua, più o meno esplicita, coltivata nell’arco di tutta la sua esistenza; la stessa cosa accadrà nel cinema, per rimanere in Italia, con Federico Fellini, a proposito del quale alcuni critici hanno giustamente affermato che nel corso della sua carriera egli abbia in realtà girato sempre lo stesso film. Anche la sceneggiatura e i dialoghi de Il giovane favoloso attingono rigorosamente a fonti leopardiane: oltre alle già menzionate Operette morali, il regista fa affidamento sullo Zibaldone, inestimabile raccolta dei pensieri leopardiani, e sull’Epistolario, la testimonianza più preziosa lasciataci da Leopardi circa i rapporti umani intrattenuti con i pochi amici, intellettuali e letterati come il classicista Pietro Giordani (1774-1848) e il fedele Antonio Ranieri (1806-1888), che gli resterà accanto fino alla fine; autenticamente leopardiani, a ribadire la fedeltà della ricostruzione operata da Martone,  sono pure alcuni luoghi utilizzati nel film, come la casa del Leopardi a Recanati, con la sua preziosissima e monumentale biblioteca privata (conservata nel suo aspetto originario), o Palazzo Mattei, l’abitazione romana di proprietà dello zio del poeta. Il regista si concede qualche “licenza poetica” giusto nell’ultimo e forse meno riuscito segmento del film, corrispondente al soggiorno napoletano, tappa finale del percorso artistico e umano di Leopardi.




Scorrendo fluido e senza particolari scosse per due ore e un quarto abbondanti, Il giovane favoloso ripercorre efficacemente la vita e le opere leopardiane, grazie al sapiente lavoro di selezione operato da Martone che, sfrondando elementi pure significativi (come l’ingombrante figura della madre del poeta, Adelaide) accanto ad altri più marginali riesce, davvero incredibilmente data la caratura del personaggio, a racchiudere nel suo film quasi tutto il Leopardi “che conta”. Si parte dall’adolescenza a Recanati nella gabbia dorata della dimora di famiglia, con il giovane studente-prodigio che, sotto lo sguardo severo e attento del dispotico -ma al tempo stesso affettuoso- padre Monaldo eccelle nello studio della filologia e delle lingue (tra cui il greco antico e l’ebraico), mostrando però i primi segni di cedimento fisico –conseguenza dello "STUDIO MATTO E DISPERATISSIMO" col quale mette a dura prova la già fragile salute - e di insofferenza verso l’angusta e provinciale realtà recanatese e verso la soffocante società bigotta e conformista (di cui il padre, reazionario di ferro, è campione) dell’Italia dell’epoca, insofferenza alimentata dall’amicizia col Giordani, uno dei suoi primi sostenitori, tramite il quale entra in contatto con il liberalismo; la fase recanatese è simbolicamente chiusa dal celebre episodio del tentativo di fuga fallito (1819), che getta Leopardi in uno scoramento ancora più profondo. A questo punto il racconto compie un salto cronologico di una decina d’anni. 1829/30: Leopardi è a Firenze in compagnia dell’amico napoletano Ranieri, conosciuto a Bologna nel 1827; il poeta è alle prese con un profondo disagio esistenziale, determinato da vari fattori che acuiscono il suo disperato senso di solitudine e la sua delusione e sfiducia nei confronti della vita: l’infelice amore per Aspasia (l’attrice Fanny Targioni Tozzetti); una condizione di relative ristrettezze economiche; lo scarso apprezzamento dell’Accademia della Crusca verso il pessimismo e la sofferenza che permeano le sue Operette Morali, fattori che lo allontanano progressivamente dall’ambiente liberale e gli precludono la vittoria di un premio letterario, assegnato poi al piemontese Carlo Botta (1766-1837) nonostante il parere contrario del marchese Gino Capponi (1792-1876), da sempre amico e sostenitore di Leopardi; l’idiosincrasia per la vita mondana ed il mondo accademico e, più in generale, l’incapacità di adattarsi alla società del suo tempo, tanto a Firenze quanto a Milano, Roma, Napoli… Sempre più oppresso dalla sua condizione esistenziale e fisica, il 2 Settembre 1833 Leopardi lascia Firenze in compagnia di Ranieri e, dopo una breve e infelice (come al solito) parentesi romana, raggiunge l’ultima meta del suo incessante peregrinare su e giù per l’Italia: Napoli. Si apre qui la fase più immaginifica e discutibile del film, in cui Martone pone maggiormente l’accento sul lato vitale dell’animo di Leopardi, cercando di esprimere tutto il fascino ed il disorientamento provocato nel poeta dalla magica città partenopea, l’unico luogo che sembra ancora in grado di tirar fuori, in tutta la loro prorompente forza, il disperato anelito di vita e l’inestinguibile sete d’infinito di un uomo ormai gravemente malato e schiacciato dal peso della propria esistenza. Peccato che per far ciò il regista ricorra, oltre che a sequenze riuscite come quella dei giocatori di pelota (celebrati nella canzone A un vincitore nel pallone come esempio di quel vitalismo eroico che si esprime rischiando sé stessi nel gioco, unico antidoto al tedio della vita) ad aneddoti non sempre riusciti (come la grottesca, fallimentare sortita al bordello o la sfuriata al caffè in Piazza del Plebiscito), piccoli cedimenti però ampiamente riscattati dallo stupendo finale, con la spettacolare eruzione del Vesuvio -chiara dimostrazione della potenza di quella Natura ostile ed indifferente alle sorti umane così spesso raccontata dal poeta- commentata dai versi della poesia-testamento La ginestra o il fiore del deserto, composta nel 1836 a Torre del Greco, in una villetta sulle pendici del vulcano, da un Leopardi ormai prossimo alla morte che, nonostante la decisione presa, non farà in tempo a tornare nella natìa Recanati. La ginestra è forse il più importante e significativo tra i Canti leopardiani: in essa è contenuta una lucidissima e perentoria accusa/confutazione delle vanità e presunzioni umane, cui fa seguito un commovente appello alla solidarietà e alla fratellanza tra gli uomini come le uniche possibilità per contrastare il nemico, cioè, di nuovo, quella Natura “CHE DE’ MORTALI E’ MADRE DI PARTO E DI VOLER MATRIGNA” (vv. 124-125), quella Natura che persegue la propria continuazione attraverso un incessante processo di creazione e distruzione -come testimoniano le rovine di Pompei (vv. 269-288)- all’interno del quale l’Uomo non è altro che un semplice ingrediente, né più né meno importante di una formica (vv. 231-233). Si arriva qui al cuore del “pessimismo cosmico” leopardiano: in questo mondo non c’è posto per la felicità, l’uomo è destinato ad una vita di sofferenza, da affrontare però “di petto”, all’insegna del titanismo, cioè con eroica consapevolezza (vv. 111-119) e non certo con incosciente superbia o cristiana rassegnazione. Quali “MAGNIFICHE SORTI E PROGRESSIVE” (v. 51)? Quale divina Provvidenza? Già: neanche la religione esce granché bene (eufemismo) dall’analisi del poeta. La concezione leopardiana della Natura –così bene espressa nel celebre Dialogo della Natura e di un islandese, citato anch’esso nel film- assesta il colpo di grazia ad uno dei concetti-cardine su cui poggia, da quasi duemila anni, la teologia cristiana: si tratta dell’antropocentrismo, elemento già pesantemente rimesso in discussione dalle Rivoluzioni Scientifiche di Copernico, Galileo, Keplero, Newton... Nella prospettiva leopardiana l’uomo non è più la creatura prediletta da Dio, da esso generosamente piazzata al centro dell’universo ed equipaggiata di un ricco corredo –la Natura- di cui servirsi per i propri bisogni; al contrario, l’uomo è un misero elemento periferico (posto che esista un centro) che, privato di ogni garanzia o protezione “dall’alto”, si ritrova costretto a lottare per far valere i propri diritti in un mondo che, certo, non gli appartiene per diritto divino, ma che va, invece, conquistato combattendo giorno per giorno, e solo in vista di uno scopo tutt’altro che superlativo: ottenere una vita dignitosa e meno dolorosa possibile  …e se invece di “pessimismo”, parlassimo di “realismo” ???

Tornando al film, alla sua efficacia ed importanza contribuisce in maniera determinante la grande prova del protagonista Elio Germano che, per essere riuscito a calarsi nella parte così bene da risultare credibile sia nei panni di Leopardi adolescente che adulto, deve aver proprio studiato come un matto! Molto buona anche la prova degli altri attori, davvero ben scelti e ben diretti.
Qualche perplessità, invece, per la sperimentale colonna sonora “mista”, in cui brani di musica classica (Rossini) si alternano alle atmosfere quasi pop, tipicamente contemporanee, di Sacha Ring.
Il plauso maggiore va comunque a Mario Martone, capace di rievocare con passione e competenza un Leopardi sia storicamente che filosoficamente corretto, recuperandone tutta la dimensione umana (la nostalgia per la giovinezza perduta, la malinconia, il romanticismo, la voglia di vita) e mettendone efficacemente in risalto la statura quasi eroica di solitaria “stecca nel coro” dell’ingenuo ottimismo utilitaristico che pervade la società ottocentesca (stesso ruolo rivestito, pur attraverso altri mezzi espressivi, dal contemporaneo Edgar Allan Poe, lo straordinario cantore del lato oscuro del “sogno americano”), verso la quale oppone un totale rifiuto, figlio di un pessimismo esistenziale solitamente attribuito, in modo riduttivo e semplicistico, all’infelice vissuto personale (i problemi fisici, la frustrazione, gli amori infelici…), ma in realtà sostenuto da profonde e “cosmiche” riflessioni sull’uomo e sull’esistenza, frutto di una sensibilità e di una capacità di scrutare “oltre” fuori dal comune, peculiarità che lo hanno portato ad una dolorosa comprensione dello scarto esistente tra la realtà “come potrebbe e dovrebbe essere” e la realtà “di fatto”, e che fanno del poeta marchigiano un precursore ideale di un altro immenso genio solitario e disperato, messo in “minoranza di uno” (Fabrizio De André) dalla società del suo tempo: Friedrich Nietzsche.

Chiudo con l’auspicio che un film importante e denso come Il giovane favoloso possa stimolare gli spettatori –soprattutto gli studenti cui l’insegnante di italiano lo ha reso “nemico”- a (ri)scoprire il pensiero e l’opera di uno dei più grandi intellettuali italiani di tutti i tempi.


Francesco Vignaroli

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