12 dicembre, 2013

“Ferito a morte-Preludio”. Tra Napoli e Roma, essere e non essere. Di Francesca Saveria Cimmino


Napoli, Teatro Nuovo. Da mercoledì 4 dicembre 2013

Ferito a morte-Preludio in scena al Teatro Nuovo di Napoli, da mercoledì 4 dicembre 2013 fino a domenica 8. Tratto dall’omonimo testo di Raffaele la Capria, lo spettacolo è stato interpretato da Mariano Rigillo, che ha dato vita a Massimo De Luca, l’inquieto personaggio, sospeso tra silenzio sottomarino e chiacchiericcio borghese della Napoli degli anni Cinquanta. L’attore partenopeo è stato accompagnato, dalla note di Paolo Vivaldi, al pianoforte, Federico Odling al violoncello, Salvatore Morisco al violino e dalla voce cantante di Antonella Ippolito.

La scenografia è relativamente povera, quanto suggestiva. Una sedia, un leggio e dei veli separano il protagonista dal fondo e da uno sfondo ove sono posti i musicisti e la cantante, illuminata da una calda e accogliente luce. Poco più. Ma ciò è sufficiente per questo monologo, letto ed interpretato dall’attore. Massimo si ritrova lontano dal Vesuvio, a camminare in squallide strade sconosciute, dove il  concetto di appartenenza sembra esser avulso. Un giorno ha dovuto scegliere se restare nella sua patria natia, una splendida Napoli degli anni cinquanta, o espatriare in cerca di un lavoro e di una sistemazione nella città di Roma. Non vi era scelta allora, proprio come oggi. Trasferirsi senza sapere con il tempo cosa accadrà: cosa resterà statico, immutato e di contro ciò che si trasformerà assumendo nuove forme. È l’uomo provato dal dolore, dalla nostalgia che nel momento più intenso di solitudine non può che lasciare scorrere i pensieri e i ricordi. E le note di sottofondo sicuramente acuiscono  uno status in cui la malinconia si fonde e confonde alla speranza. Il desiderio è di ritornare e trovare tutto in linea con le proprie aspettative: come se il tempo si potesse fermare e come se, all’improvviso, dopo uno schiocco di dita, le lancette potessero tornare a ticchettare. Si è stranieri invece; si diviene forestieri. <Io sono qui ora però potrei esser altrove o in un altro momento.>. Non c’è più nulla che realmente possa rappresentare colui che non ha più una casa. È come se un improvviso terremoto spazzasse via le fondamenta lasciando solo macerie: ricorda questa immagine lo spaesamento vissuto.  <La vita è un’evasione dalla realtà>, sono queste le parole pronunciate ed è un ovvio paradosso: si è isolati da tutto proprio quando si cerca di contestualizzare se stessi; di dare un senso a un’esistenza. Massimo rientra a Napoli, circa cinque anni dopo, e ha la possibilità di incontrare nuovamente la sua amata; quella donna che non avrebbe mai abbandonato se ne avesse avuto la possibilità. Riscoprire sensazioni ed emozioni attraverso la vista, l’udito o il tatto e credere che nulla sia cambiato, anche se un abisso, in realtà, è posto tra quei due corpi e le loro rispettive anime. Massimo non ha avuto la possibilità di restare: ha dovuto fare le valigie e partire, rischiando che i suoi affetti si perdessero per sempre. <Viviamo in una città che ti ferisce a morte o ti addormenta oppure tutte e due le cose insieme.>. Una condizio necessaria con cui, prima o poi, ognuno deve fare i conti. Perché la vita non è fatta di pane, amore e tulipani, o quanto meno non solo. La stabilità economica, l’affermazione in una sfera sociale, allora, ma non solo, costano e impongono cernite talvolta laceranti. Una triste consapevolezza sovrasta, deprime e avvilisce l’uomo che è  sospeso tra l’essere ed il non essere, tra la voluntas e la noluntas. Non c’è rimedio e non c’è soluzione. Solo tante occasioni mancate, rimorsi e rimpianti per un tempo distante che mai più tornerà.

Francesca Saveria Cimmino





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