21 luglio, 2013

“Violeta Parra- Went to heaven”: ricordando la madre del folk latino-americano. Di Francesca Saveria Cimmino


Un film di Andrés Wood, il cui titolo originale è Violeta se fue a los cielos. Violeta del Carmen Parra Sandoval (interpretata da Francisca Gavilán) nacque il 4 ottobre 1917 a San Carlos e morì a Santiago del Cile, il 5 febbraio 1967. È stata una cantautrice, poetessa e pittrice cilena. Iniziò la sua carriera cantando in coppia con la sorella Hilda. Impegnata politicamente con i comunisti, cresce tre figli da sola, dopo due matrimoni falliti. Il film racconta la sua vita senza seguire un ordine cronologico, ma presenta un buon montaggio alternato di Andrea Chignoli e un’incisiva scelta fotografica, curata da Miguel Joan Littin . La prima inquadratura è quella di un occhio ripreso così tanto da vicino da sembrar possibile leggervi dentro dolore e gioia. Seguono degli estratti di un’intervista del 1962 condotta da un giornalista argentino, con il quale non mancano scambi di ironie. E poi ancora la sua infanzia, i suoi figli, il suo ex-cursus e il consequenziale declino. Il prodotto filmico mostra l’artista durante le sue peregrinazioni nei paesini delle Ande alla ricerca di antiche canzoni e ballate popolari da cui poter apprendere, assimilare e reinterpretare. Scelse di diventare solista, di formarsi, esibirsi e provare nuove esperienze mettendosi totalmente in discussione. Pretendeva il rispetto, il silenzio, l’attenzione degli astanti durante una performance. Il primo scopo era far conoscere la propria cultura, le proprie tradizioni, gli strumenti che chiunque può suonare se sente a sé vicini, appartenenti. Nel 1954, viene invitata ad esibirsi in Polonia e successivamente trascorre 2 anni in Europa. Tornata in Cile inizia a incidere dischi e, nel 1958, fonda il Museo Nacional del Arte Folklórico. All'inizio degli anni '60 è a Parigi insieme al grande amore della sua vita, il musicologo e antropologo svizzero Gilbert Favre (Thomas Durand), con cui vive una relazione inquieta e instabile quanto passionale. È proprio grazie o per colpa di Gilbert che Violeta compone brani musicali intensi e struggenti; così come decide di presentarsi al suo pubblico senza celare in alcun modo la sua sofferenza. Difatti l’artista sostiene che il dolore possa essere cantato solo da chi non è un professionista: persone normali, comuni, tutti; basta sentirlo scorrere nelle vene. Non c’è, in questo, bisogno di alcuna tecnica o preparazione. È improvvisazione, istinto. Queste le sue testuali parole:
<Scrivi come ti piace scrivere, usa i ritmi che vengono fuori, siediti al piano, distruggi la metrica, urla invece di cantare, soffia nella chitarra e strimpella il corno. Odia la matematica, e ama i vortici. La creazione è un uccello senza piano di volo, che non volerà mai in linea retta.>.




Nel 1964 è la prima donna latinoamericana ad esporre le proprie opere in una personale al Museo del Louvre (sezione Arti decorative). Rientrata in Cile, nel 1965 inaugura il suo progetto più ambizioso, la tenda-teatro a La Reina, che vuole essere una "Universidad del Folklore". Vi si esibisce con i figli Ángel e Isabel e con altri cantautori, fra cui Victor Jara. Ma nel frattempo Favre la lascia e si trasferisce in Bolivia. Tormentata e depressa il 5 febbraio 1967, a cinquant'anni, Violeta Parra si suicida all’interno di quel capannone a cui, fino a quel momento, aveva dato colore e vivacità. La colona sonora del film, “Gracias a la vida” è considerata il suo testamento spirituale e allo stesso tempo un forte elemento antitetico. Proprio l’autrice della canzone ha deciso di dare un taglio netto alla sua stessa esistenza, impedendo all’amore e al malessere di stancare e consumare ulteriormente la sua anima, scegliendo dunque la morte e il silenzio.


Di Francesca Saveria Cimmino

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