03 aprile, 2013

Tra passato e presente. Poesie di Massimo Triolo. "Non opera che non peregrina".


Non opera che non peregrina


Come neve a coltre
nella bianca disciplina invernale,
che ogni volto di piaggia inseverisce,
Amore e Psiche, Antonio Canova
nell’essenziale, specchiante
guardo discreto,
così questa languida assenza
che consuma e si consuma
nell’esausto circolo di me.
Declinato a fine acerba
e a manchevole guisa,
mentre tutto ottunde e lacera,
nel rosso della ferita
che sangue non gemma.
Nell’anestesia
del dilatarsi ubiquo e indifferente,
il monito corrucciato
delle ghirlande andate:
gettate inerti,
al ciglio esausto del passato.
Rattoppata consunzione d’infausti giorni,
universo curvo
che rinnova algoritmi
di mortificante resa.
L’occhio soffre la luce,
la dolcezza, piange, che squaglia e ricuce;
senza resa arrende all’amore,
il solido sciupio di altre abiure,
passite sembianze
di circostanze svuotate,
mantelli di senso a palandrane pese,
istantanee di spazi e tempi stracciati,
sollecitudine usata,
che nell’ansia rinnova
fatiche insensate.
Quel che ho
nel sogno l’ho posseduto;
e quel che abitai
mai lo colsi alla presenza mia.
Cooptato ho, giorni e compagni –
mai abbracciati con dignità d’uomo
nel solo spazio condiviso
che la somma non detrae
ma moltiplica.
Gusci e scorze e lesine,
cieli sfarinati,
groppi e nodi e lai,
risa a cunei nell’immota laguna dei giorni –
cuspidi di cruda luce.
Sul levigato corso, e mercuriale,
di una vita a simboli e segni popolata,
nel suo infesto stagnare,
né presente e destino
si può.
Sacrale belligeranza,
che caracolla furente
senza fodero che non vuoto,
né taglio mordace
da dirigere a danza d’affondi e fendenti,
che sangue in spettro non sveli
da presenze spettrali –
cui il perdonarsi urge,
e il perdonare
vita che a sé piega
e ripiega nell’andare,
e a sé aliena,
in sé insiste con cieco morbo.
Cui urge il non scavarla e scorticarla,
per potersi svenire tra le braccia dell’amore,
non facendo metafisica morale
del suo penoso claudicare;
tassonomie spoglie, invece,
di presenze nemiche,
e liturgie di un inagrire in fioco dolore:
fine, movente e somma,
di sfiancarsi e sfiancarla nell’inazione,
col genuflesso suo,
macchinato e inconscio,
rifrangersi di spine a corone
presso un vuoto specchiante e idolatra.
Nel gesto malcerto scolpita
per ellissi di nevrosi e detrazioni,
che il gesto deflette a cognizioni d’essere,
arcigne a senso qual che sia.
E allora impotenti, sempre,
a perimetri propri e a tropi,
se non quelli descritti per sottrazione di terreno.
Sisifo ridicolo, io,
che a missione rivendica, la condanna propria
d’opera non avere, se non peregrina

Massimo Triolo

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