08 marzo, 2015

“BIRDMAN”, UN OSCAR SUI GENERIS. Di Francesco Vignaroli


Cortona, Cinema Teatro Signorelli. Venerdì 27 febbraio 2015

Oltre all’accoppiata “d’oro” miglior film/miglior regia Birdman, il nuovo film del regista messicano Alejandro Gonzales Inarritu (21 grammi, Babel), ha conquistato alla recente cerimonia degli Oscar anche le statuette per la miglior sceneggiatura originale e per la miglior fotografia, rivelandosi quindi protagonista assoluto degli Academy Awards. Il che, dopo aver visto il film, appare a dir poco sorprendente, e non certo perché Birdman non meritasse tali riconoscimenti, anzi! A suscitare stupore è il fatto che sia stato premiato uno dei film più anti-holliwoodiani dai tempi di Viale del tramonto (1950), capolavoro di Billy Wilder che, come Birdman, si è aggiudicato il premio Oscar per la sceneggiatura (mancando però i due premi cruciali).
Intendiamoci subito: si tratta di due film agli antipodi – del resto, ci sono ben sessantacinque anni di tempo a dividerli!- quanto a caratteristiche stilistiche, linguaggio cinematografico, svolgimento della storia… ma entrambi esplorano, seppur da prospettive differenti, il lato oscuro di Hollywood, facendo immergere lo spettatore in un’atmosfera decadente, crepuscolare, “da disarmo”, e mostrando la tigre di cartapesta, o il gigante dai piedi di argilla, se preferite, in tutta la sua fragilità e vacuità: “IL RE E’ NUDO”, “SOTTO IL VESTITO NIENTE”, “QUEL CHE RESTA DELLA FESTA”, e via citando, sperando di aver reso l’idea. Se in Viale del tramonto la critica alla “fabbrica dei sogni” avviene in forma “nera”, in Birdman il mito è demolito a colpi di sarcasmo da una storia drammatica, ma abilmente celata sotto le accattivanti mentite spoglie di una commedia.
Protagonista della vicenda è Riggan Thompson, ex stella di Hollywood sulla sessantina che, nauseato dal successo “di plastica” e in piena crisi esistenziale e d'identità, dopo aver preso atto di non avere più né le motivazioni né le physique du role per continuare ad impersonare sul grande schermo il supereroe Birdman (chiara parodia di Batman), tenta di vivere una seconda giovinezza artistica riproponendosi come attore teatrale a Broadway. La sua vita, però, è alquanto incasinata: non riesce a ricucire con l’ex moglie, ha un rapporto a dir poco difficile con la giovane e ribelle figlia ex tossicodipendente (qui, sono tutti “ex” qualcosa), fa una fatica bestiale per tenere a bada il lunatico e nevrotico divo del teatro Mike Shiner (un’autentica primadonna, spavaldo sul palco quanto insicuro e fragile fuori), inserito da poco nella compagnia, che pure riesce a mandargli a monte la prima anteprima (scusate il gioco di parole) della sua rappresentazione What we talk about when we talk about love (“Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”), dall’opera di Raymond Carver. Come se tutto questo non bastasse, Tabitha Dickinson, la più influente e temuta critica teatrale di New York, gli ha già promesso, preventivamente, di stroncargli lo spettacolo, e poi c’è quella diabolica vocina interiore –una sorta di daimon socratico alla rovescia- che lo tormenta senza tregua, cercando in tutti i modi di riportarlo sulla “cattiva strada” (cioè a Hollywood), aiutata dalle continue visioni/ricordi “da Birdman” in cui il nostro crede di spostare e fracassare oggetti, o di volare, grazie ai suoi superpoteri (davvero geniale e divertentissima la scena in cui “Birdman” arriva a teatro dopo un lungo volo, salvo poi venir inseguito fin dentro l’edificio da un tassista inferocito che reclama la paga). A dispetto degli amletici dubbi -rappresentati dall’altro sé- che lo attanagliano, Riggan è fermamente deciso a non tornare sui propri passi: basta ai film da blockbuster, basta al “cibo per le masse”, basta agli spettacoli privi di spessore culturale, basta al successo facile che mortifica le ambizioni artistiche… Inoltre, insensibile alle esortazioni della figlia, il nostro è orgogliosamente tetragono all’invasione dei social network (altro spunto di riflessione sollevato dal film molto interessante, vista la sua attualità), nonostante le nuove frontiere dello show business richiedano, o forse è meglio dire impongano, una continua sovraesposizione mediatica al fine di “difendere il marchio” e “piazzare il prodotto”. Ma la sua fiera, quanto anacronistica -ahimé!- opposizione è destinata a crollare e, suo malgrado, alla fine anche lui si ritrova a bollire nell’immenso calderone di Facebook, Twitter, ecc..., assistendo all’incredibile trasformazione, in questo mondo alla rovescia ormai privo di pudore e decenza, della sua tragedia finale (un autentico “CUP DE TEATRE”, come direbbe Biscardi) in un evento che provoca un aumento vertiginoso dei suoi followers… Logico che, in un mondo così, uno come Riggan, sospeso tra un passato che non riesce a superare e un presente incerto e incomprensibile, non riesca più a trovar posto, e da qui l’inevitabile desiderio di un ultimo volo (“…SORPRENDITI DI NUOVO PERCHE’ ANTONIO SA VOLARE”: le ultime parole della toccante Ti regalerò una rosa di Simone Cristicchi).




Birdman è un film di dualismi e contrasti: Hollywood/Broadway, Los Angeles/New York, cinema/teatro, milioni di spettatori/centinaia di spettatori, cultura “bassa”/cultura “alta”, fama&ricchezza/nicchia&gratificazione professionale, nostalgia del passato/abiura, autoconservazione/ autodistruzione... Ma c’è dell’altro: la scelta di Michael Keaton come attore protagonista innesca un voluto cortocircuito tra realtà e finzione, caricando di implicazioni autobiografiche un film già solidamente agganciato alla realtà in quanto opera che riflette sul mondo del cinema e, più in generale, sull’intima essenza del “fare spettacolo”. Il perché la presenza di Keaton arricchisca di sfumature autobiografiche il discorso metacinematografico di Birdman è presto detto: l’attore ha indossato il costume di Batman nei due film dedicati al supereroe dei fumetti da Tim Burton (Batman, del 1989 e Batman returns, del 1992, entrambi prontamente riproposti da Italia Uno nei gironi scorsi), vivendo probabilmente il suo periodo di massima popolarità. Dopo Batman, la sua carriera cinematografica è proseguita, almeno in termini quantitativi, all’insegna di un profilo più basso, facendo riscontrare un certo diradamento degli impegni e la scelta di film meno “commerciali”: qualsiasi riferimento a fatti e persone è puramente voluto… In Birdman Michael Keaton se la cava bene, ma non abbastanza da poter soffiare il premio Oscar come miglior attore protagonista a Eddy Redmayne, semplicemente straordinario nei panni dello scienziato Stephen Hawking ne La teoria del tutto; ancora meglio di Keaton fa il bravo Edward Norton (nel ruolo di Mike), che riesce a rubargli la scena in più di una circostanza.

Non accade tanto spesso che il mondo dello spettacolo (e, al suo interno, il cinema, specie quello americano) faccia autocritica, decidendo di lavare in pubblico i propri panni sporchi. Con Birdman lo ha fatto e bene, con lucidità, ironia, irriverenza e la giusta dose di sana cattiveria (le battute “velenose” non si contano). Una volta tanto, la giuria degli Academy Awards ha deciso coraggiosamente di premiare con gli Oscar più importanti un film originale, intelligente, irriverente, complesso, non allineato e “politicamente scorretto”. Un film ricchissimo di idee e contenuti, dallo sviluppo tutt’altro che lineare o prevedibile, un film che merita di essere rivisto almeno una volta e che può vantare il raro privilegio di aver aperto una breccia nel granitico sistema hollywoodiano, nonostante il suo status di opera irregolare e “non istituzionale”. Il che, nell’epoca del pensiero unico (o quasi), non è poco…



Francesco Vignaroli

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