07 dicembre, 2014

VIAGGIO ATTRAVERSO L'IMPOSSIBILE - sogni di cinema, a cura di Francesco Vignaroli. Recensione 29: "Rocky Balboa"


ROCKY BALBOA                        USA  2006  102’  COLORE

REGIA: SYLVESTER STALLONE

INTERPRETI: SYLVESTER STALLONE, BURT YOUNG, ANTONIO TARVER, GERALDINE HUGES, MILO VENTIMIGLIA

EDIZIONE DVD: SI’, distribuito da 20th CENTURY FOX HOME ENTERTAINMENT



Tanta acqua è passata sotto i ponti per l’ex-pugile due volte campione mondiale dei pesi massimi Rocky “lo stallone italiano” Balboa. Lo ritroviamo nella sua Philadelphia, ormai ultracinquantenne e vedovo dell’amata Adriana, a gestire un ristorante di buon livello intitolato alla moglie scomparsa, dove Rocky intrattiene i clienti rievocando per loro i suoi mitici incontri. Gli rimangono ancora il fedele ma piantagrane cognato Paulie e soprattutto il ventenne figlio Robert, col quale ha un rapporto problematico dato che il ragazzo si sente oppresso dall’ingombrante figura paterna; non bastasse ciò, il nostro generoso protagonista si fa carico pure dei problemi della “piccola Mary”, single con figlio adolescente a carico che Rocky conosce fin dai tempi in cui lui era ancora uno sconosciuto puglie di periferia e lei un’impertinente ragazzina del quartiere. Nella sua nuova routine la vita di Rocky sembra piena ed appagante, ma in realtà in lui arde ancora lo spirito del combattente e la nostalgia del ring è forte.
L’occasione giusta si presenta quando, in seguito ad un match virtuale simulato al computer in cui Rocky viene messo a confronto -uscendone vincitore- con l’attuale detentore del titolo mondiale dei pesi massimi, l’imbattuto Mason Dixon, i manager del giovane campione propongono a Rocky di sfidare il loro protetto in un’esibizione per beneficenza che, oltre a rilanciare l’immagine un po’appannata di Dixon, rappresenterebbe il clamoroso ritorno sulle scene di un grande personaggio ancora amatissimo dal pubblico. Supportato dalle persone a lui care –figlio compreso, nonostante un’iniziale ostilità- Rocky accetta la proposta e si prepara a puntino per affrontare l’ennesima impresa impossibile, che sarà anche l’ultima (?), e dimostrare a sé stesso, prima ancora che al mondo, di essere ancora “vivo”. Così, quella che doveva essere una semplice rimpatriata si trasforma per Rocky nel match della vita e, contro ogni pronostico, the italian stallion riuscirà a chiudere in gloria, esattamente come aveva fatto tanti anni prima disputando il suo primo incontro per il titolo mondiale contro il campione di allora Apollo Creed.




A sessant’anni suonati ed a sedici di distanza da Rocky V, Stallone si rimette in gioco per raccontare la conclusione della storia del personaggio che gli ha cambiato la vita negli anni ‘70, firmando come di consueto la sceneggiatura, ed in più producendo e tornando alla regia, oltre ovviamente a recitare nel ruolo del protagonista, il tutto a sottolineare quanto abbia creduto in un progetto sulla carta rischioso e discutibile (nel 2008 condurrà in porto un’operazione analoga con John Rambo, chiudendo, con molta più amarezza, il cerchio sulle vicissitudini dell’altro personaggio che gli ha garantito il successo contemporaneamente a Rocky). A dispetto della facile ironia e delle molte perplessità sollevate dall’operazione (io stesso ero piuttosto scettico), “Sly”, esattamente come il suo Rocky, riesce a non scivolare nel ridicolo o nel patetico e, alla fine, non perde.
Prima di proseguire ritengo indispensabile premettere che, per apprezzare appieno questo film, è necessario aver visto gli altri capitoli della saga, e non tanto per una questione di comprensibilità della trama visti i legami narrativi con i film precedenti, legami come di consueto piuttosto blandi e tali comunque da non pregiudicare la capacità di ogni singolo film di reggersi da solo e di essere quindi visto come storia autoconclusiva indipendente dalle altre (grazie anche agli immancabili “riassuntini” iniziali dei momenti salienti del film precedente, qui peraltro assenti); si potrebbe dire altrimenti, e non a torto, che vedere prima gli altri film sia indispensabile per familiarizzare con i personaggi ed affezionarsi a loro, ma ancora non basta: no, il motivo principale va piuttosto individuato nel fatto che, avendo ben presenti gli altri film di Rocky ed il contesto in cui sono stati realizzati, si è in grado di apprezzare maggiormente l’evoluzione di una storia e di un gruppo di personaggi che è andata di pari passo con quella del suo creatore, dato che l’epopea di Rocky ha finora accompagnato Stallone per un arco temporale lungo trent’anni (il primo Rocky è del 1976), cioè, praticamente, dall’inizio della sua carriera fino alla maturità. E’ proprio questo suggestivo parallelismo tra la vita di Stallone e quella del suo alter ego Rocky, che invecchia assieme a lui (anche se per il film Sly alleggerisce il suo personaggio di una decina di anni circa rispetto alla sua età reale), a rendere affascinante ed interessante questo capitolo finale, di per sé altrimenti tutt’altro che irresistibile e sicuramente inferiore ad altri episodi della saga come, per esempio, il primo e migliore in assoluto Rocky, del quale pure questo Rocky Balboa, arrivato inaspettatamente ben oltre il suono dell’ultima campanella, ripropone tutti gli ingredienti di successo, anche se meno pedissequamente che in passato. Ritroviamo quindi l’esaltazione dei buoni sentimenti incarnati da un eroe positivo al 100% come Rocky, duro dal cuore d’oro campione di generosità, altruismo, tenacia e coraggio, esemplare nell’incassare i colpi della vita senza mai arrendersi e finire al tappeto; ma, soprattutto, ritroviamo l’elemento che probabilmente ha decretato il duraturo successo di Rocky negli States e che impedisce di considerare queste opere come semplici film sul pugilato, cioè la celebrazione simbolica –decisamente indulgente e un po’ troppo ottimistica- del sogno americano, quel mito del self-made man che Rocky, di nuovo, incarna alla perfezione, facendo tesoro di quella famosa possibilità che l’America, la terra delle opportunità per eccellenza, non nega mai a nessuno (?) e diventando così, dall’uomo qualunque che era, il campione mondiale dei pesi massimi, senza però perdere un briciolo di umanità e ricordandosi sempre delle proprie umili origini (o quasi…vedi l’inizio di Rocky II): quella di Rocky è la favola di un perdente nato che, grazie a sacrifici, tenacia e coraggio fuori dal comune, ribalta il proprio destino e raggiunge la gloria in un Paese che, nel segno della meritocrazia, concede –almeno sulla carta- a tutti il diritto di costruirsi il proprio futuro da soli. Oltre a tutto ciò, ed è forse questo il segno più tangibile della maturità acquisita col tempo da Stallone, Rocky Balboa aggiunge al personaggio principale inedite (e sorprendenti) sfumature riflessive e crepuscolari che collocano il film sulla scia della vena malinconica e intimista che caratterizzava i sobri e quasi dimessi Rocky e Rocky V, cioè i due episodi diretti dal regista John G. Avildsen, piuttosto che su quella degli “sgargianti” capitoli anni ’80 -su tutti l’improbabile Rocky IV- diretti dallo stesso Stallone adeguandosi al clima euforico di quegli anni. Pur non rinunciando ad elementi narrativi ricorrenti, come l’epico combattimento finale preceduto dalle ormai classiche immagini galvanizzanti della preparazione all’incontro, in Rocky Balboa Stallone predilige lo scavo psicologico (anche se parlare di introspezione è forse eccessivo) e l’approfondimento del lato umano di Rocky, indugiando sui piccoli e grandi problemi che affliggono quotidianamente la sua -come la nostra- vita e concentrandosi su temi decisamente meno spettacolari come il rapporto padre/figlio, la nostalgia per il passato e per la boxe, il dolore per la perdita della moglie Adriana (interpretata in tutti gli altri film, lo ricordo, da Talia Shire, sorella del regista F.F. Coppola), la difficile situazione di Mary. Nel volto, nel fisico e nei gesti del vecchio Rocky si legge tutta la consapevolezza del tempo trascorso e tutta l’esperienza esistenziale di un uomo che “ne ha viste di tutti i colori”, collezionando grandi gioie e grandi dolori che ne hanno accresciuto lo spessore umano senza però averlo condotto, nonostante l’acquisita maturità e saggezza, al distacco ed alla rassegnazione, ed in questo senso l’ennesima sfida impossibile accettata e poi vinta è la testimonianza più sincera del suo spirito indomito ed una chiara esortazione all’ottimismo ed alla fiducia in sé stessi: grazie alla sua incrollabile forza di volontà Rocky riesce a sovvertire ancora una volta un pronostico che lo vedeva nettamente (e comprensibilmente) sfavorito, raggiungendo la decima ed ultima ripresa dopo aver combattuto alla pari con un avversario che ha la metà dei suoi anni e perdendo solamente ai punti -con verdetto non unanime- un incontro che farà definitivamente di lui una leggenda. Mi piace pensare che Stallone, ben conscio della concreta possibilità che l’operazione-nostalgia Rocky Balboa si trasformasse in un sonoro fiasco, abbia girato un finale così ottimistico e positivo (Rocky esce tra gli applausi e i cori di un pubblico entusiasta che ignora, giustamente, il giovane vincitore) come sorta di auto-augurio per un’impresa non meno difficile di quella affrontata da Rocky. Almeno per quanto riguarda me (ma anche il pubblico ha risposto bene) Sly ha vinto l’incontro, magari non per ko, ma ai punti senz’altro, aggirando le molte incognite –tra le quali non trascurerei i legittimi dubbi circa la sua tenuta fisica, vista l’età- che potenzialmente gravavano su Rocky Balboa e riuscendo a scrivere in modo pienamente convincente e soddisfacente la parola “fine” su quella che probabilmente resterà la storia più importante di tutta la sua carriera. Gustoso cameo di Mike Tyson nel ruolo di sé stesso: lo vediamo in prima fila tra il pubblico insultare il povero Mason Dixon all’inizio dell’incontro con Rocky. Molto belli i titoli di coda, con l’epica Gonna fly now di Bill Conti (autore della colonna sonora di tutti i Rocky) a commentare le immagini dei fans che emulano le gesta di Rocky salendo la mitica scalinata ed esultando una volta in cima. L’ultima, poetica immagine del film, con Rocky in tuta da allenamento ripreso di spalle mentre, sotto la neve, osserva la città dall’alto al calare della notte suscita una piacevole malinconia ed è la chiusura perfetta di una lunga ed affascinante avventura cinematografica ed umana come quella rappresentata da Rocky.


Francesco Vignaroli

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