24 febbraio, 2014

“Pantani”: l’alone di mistero sulla morte del Pirata continua. Che amarezza. Di Francesca Saveria Cimmino


“Pantani”, documentario girato da  James Erskine, il cui titolo originale è "Pantani: The Accidental Death of a Cyclist", è stato proiettato nelle sale del circuito The Space solo i giorni 17, 18 e 19 febbraio 2014, omaggiando il “Pirata” con un prodotto filmico dopo dieci anni dalla sua morte, avvenuta il 14 febbraio 2004. Un documentario che sa di giustizia, ma che in realtà non la rende. Un’opera che descrive i successi e gli insuccessi, che utilizza materiali di repertorio ed interviste, ma che risulta essere monca: mutilata della sua parte più interessante, importante. Il titolo originale ha come parola chiave il termine “death”, ovvero morte. Ebbene è proprio questo che manca nel film: cosa è successo in quella camera del Residence Le Rose? Cosa successe subito dopo il decesso? Chi ha trascinato quest’uomo dalla stelle alle stalle?  La speranza era poter fare chiarezza su tutte, o una parte, delle zone d’ombra.
E invece si racconta ancora una volta Marco Pantani, i suoi successi, le sue scalate inimitabili, le sue vittorie e la rispettiva fortuna di Mercatone Uno, il suo sponsor che in quegli anni ha ottenuto un aumento degli introiti di circa il +30%. Nel 1998 Marco Pantani vinse sia il Tour de France che il Giro d'Italia. E poi, all’improvviso, dal 1999 l’espulsione dal Giro d’Italia a Madonna di Campiglio per essere risultato positivo al controllo sul doping (il valore dell’ematocrito era di 52, mentre il massimo consentito dal regolamento 50), la caduta a picco nel baratro nella depressione e della droga, tra il 2000 e il 2003, e infine la morte.  Un tranello, un interesse delle società, le scommesse e i miliardi spesi in quest’ultime. Pantani era un elemento scomodo: non lasciava spazio ai suoi avversari; forse anche questo incattivì qualcuno. 



Fatto sta che dopo 10 anni i conti ancora non tornano, i nodi non sono stati sciolti e dietro questo scherzo c’è stata la perdita di un grande campione e prima ancora di un grande uomo. Caparbio, forte, determinato, il Pirata sapeva che con quella bicicletta poteva far sognare gli italiani ed era a conoscenza di quanto la sua persona avesse avvicinato la nazione al ciclismo. Tutti con una maglia gialla o rosa a tifar per lui; perché la sua gente aveva imparato a crederci e a credergli. Ed è stato questo il dolore più grande: sapere che tutto venisse messo in discussione; osservare persone pronte a voltargli le spalle abbandonandolo senza pietà; guardare gli occhi della gente e leggervi disprezzo, delusione, amarezza. Quel che è certo è che Pantani conosceva perfettamente il regolamento, dopo 19 anni di carriera, e sarebbe stato da stupido drogarsi poco prima dei controlli. Strano che qualcuno sapesse che non avrebbe vinto quel Giro. Strano anche che proprio Pantani, uno degli atleti che ha voluto, qualche anno prima, che si effettuassero i controlli sul doping, risultasse positivo. Strano che, proprio lui, fosse stato condannato per qualcosa che, ad ogni modo, era adoperata da tutti. Difficile accettare un film sul Pirata incapace di raccontare e svelare quelle verità occultate con grande astuzia. Bisogna esser chiari e farsi un esame di coscienza: non c’erano i presupposti forse per dedicargli un film. Eccetto una strategia strettamente correlata al ruolo dell’industria cinematografica, è stata scelta la linea dell’omertà, ancora una volta; e non ha alcun senso. Non ha avuto alcun senso, se non quello di ricordare ancora una volta che Pantani, in realtà, era una brava persona e che è morto da delinquente e non da campione. Amara fine per chi resta un numero uno. Amara fine per chi ha amato una bicicletta più di qualunque cosa e ha lottato con tutte le sue forze per poter portare nella propria casa, ma anche nelle nostre, quelle vittorie. Chi vorrà ricordare Marco Pantani come il Pirata, indiscutibilmente superiore a molti altri, continuerà a farlo. Chi vorrà ricordarlo come un imbroglione drogato non smetterà certo adesso. Per tutto il resto invito un regista ad indagare davvero su quella notte di San Valentino e sulla dinamica dei fatti che dal ‘99 hanno accompagnato la sua vita, sino alla distruzione: su quelle ore che seguirono il decesso, dunque dal ritrovamento del corpo, all’autopsia, alle dichiarazioni. Invito un regista ad affrontare con più coraggio questa dinamica e a raccontarne i punti dolenti e non i sorrisi; perché l’unico modo per render giustizia è fare chiarezza, una reale e autentica chiarezza.


Francesca Saveria Cimmino

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