25 gennaio, 2014

Nebraska. Regia di Alexander Payne. Sceneggiatura originale di Bob Nelson . Di Daria D.


C’è anche un’ altra America,  cinematograficamente parlando,  che  non  è  quella della finanza, delle star, degli effetti speciali, delle sparatorie, degli inseguimenti, delle metropoli,   ma  quella fatta di silenzi, di distanze che sembrano infinite, di paesaggi incontaminati, di vecchiaia,  di sogni, di umiltà.
Il film “Nebraska”  candidato a quattro  premi Oscar, racconta tutto questo   in modo  estremamente semplice e chiaro, grazie ad   una regia misurata,  essenziale, che  non cerca mai di strafare o di imporsi sulla sceneggiatura e sulla recitazione,  toccando  così,  poesia, verità e bellezza. La sua forza sta nelle  parole non dette, negli sguardi, nella bravura  degli attori e  nella  fotografia  in bianco e nero, che in ogni inquadratura  ci ricorda Ansel Adams o Edward Hopper.
Woody Grant, uno straordinario Bruce Dern, lo ricordiamo per esempio in  “Black Sunday”,  “Coming Home”, “Family Plot”, “The Great Gatsby”, “All the Pretty Horses” e  che  per questa interpretazione merita senz’altro una statuetta, è un ex combattente della guerra di Corea, con un passato da alcolista e ancora poco da vivere. La sua vita trascorre senza sorprese nella città di Billings nel Montana, accanto ad una moglie insopportabile e chiacchierona, che certamente non ha sposato per amore, e due figli, David e Ross. Ma dentro ha un sogno: comprarsi un furgone  e un compressore. Ricevere tra la posta l’avviso di essere stato selezionato per una vincita  di un milione di dollari è per lui una ragione di vita e di speranza.  Per ritirare il premio però, occorre affrontare il viaggio fino  in Nebraska, a Lincoln, lontano più di settecento miglia da casa sua.
La prima inquadratura è un paesaggio urbano, su cui si stagliano ciminiere fumanti  e la figura  ingobbita di  Grant che cammina lentamente  sul cavalcavia di una super strada per raggiungere il Nebraska.
Una macchina della polizia accosta e lo riporta a casa. Il vecchio però è deciso ad andare fin là,  per ritirare il premio, costi quel che costi. Il figlio David, l’unico che capisce il motivo della testardaggine paterna, decide di prendersi alcuni giorni off dal suo lavoro di commesso,  e di accompagnarlo con la sua macchina.
E così dal Montana passando per il South Dakota, la piccola auto  di David procede su quelle strade che si snodano come una collana lunghissima e senza perle per praterie e piccoli agglomerati di casette. 
Soltanto chi  si è allontanato  dalle grandi e famose  città  americane, può capire cosa significhi  lasciarsi alle spalle grattacieli e ponti, traffico e cemento guidando per miglia e miglia senza vedere anima viva,  facendosi  risucchiare da quel nulla che sembra non abbia fine, o che finisca direttamente con la morte.




Ma fortissima è  la sensazione che ci prende quando finalmente capiamo cosa siano  la  libertà e il fascino delle grandi dimensioni,  delle pianure a perdita d’occhio, solo con la voglia di  perderci,  senza lasciare traccia di noi stessi.
Tra padre e figlio, in questo andare on the road  alla ricerca di un miraggio, si instaura un rapporto nuovo,  più intimo, più umano, anche se il vecchio Grant è scorbutico, distratto, smemorato,  capriccioso.
 Starà a  David tirare  fuori tutta la sua pazienza e comprensione per sopportarlo.
Prima di arrivare a Lincoln, faranno tappa a Hawthorne, città natale di Woody, dove  andranno a fare visita al fratello e alla sua famiglia. Le scene in questa cittadina sono straordinarie, stradine  deserte e ventose, il bar dove si ritrovano gli abitanti, ormai  tutti vecchi,  a bere birra, giocare a bigliardo o fare karaoke,  poche case sparse di agricoltori, il cimitero spoglio e umile, le misere insegne che fanno l’occhiolino. E’ tutta una desolazione e una solitudine che la fotografia di Phedon Papamichael solleva da uno squallore assicurato. Un altro oscar anche per lui?
Bruce Dern recita con i suoi grandi azzurri tutte le sfumature silenziose  di un uomo che sta per avvicinarsi alla fine della vita, eppure quando guarda il cielo e respira con  la testa fuori dal finestrino, sembra tornare bambino, un bambino che vuole i suoi giocattoli, perché qualcuno glieli ha promessi.  Oppure quando rilegge a  non finire il manifestino pubblicitario della presunta vincita.
L’ ultimo sguardo di Woody, su cui si sofferma la camera, è  rivolto  alla  donna  che  un tempo aveva forse amato, ed è carico di stupore e di nostalgia. E sulla testa, a coprire quei pochi  capelli bianchi che per tutto il film hanno svolazzato come quelli di uno spaventapasseri, il cappello da baseball che gli hanno regalato  come premio di consolazione.  Quando  gli occhi della donna si inumidiscono impercettibilmente incrociando quelli di Woody,   noi spettatori capiamo  tutto quello che c’è dietro, pur nel silenzio più assoluto.
Ci sono piccoli grandi film come questo, costato  13 milioni di dollari, dove tutto suona senza stonare, senza rimbombarci nelle orecchie con vacuità, intellettualismi e idiozie, ma semplicemente usando nel migliore dei modi tecnica e arte, intelligenza e passione.
Quando usciamo dal cinema e  possiamo dire di avere compreso  il significato della storia, di avere assaporato immagini che solo una fotografia in bianco e nero può darci, quando perfino l’ultima comparsa, scelta con cura e meticolosità  ci ha comunicato qualcosa, quando la musica ci ha cullato con il suo  misto di country e di blues, quando un attore non smette di migliorare offrendoci  una tale interpretazione, quando il messaggio che riceviamo ci arriva diretto al cuore,  allora abbiamo la percezione  che la semplicità sia la cosa più difficile da raggiungere. Alcuni ci riescono, la maggior parte no.

Daria D.



Nebraska
Stati Uniti 2013
Interpreti:
Bruce Dern:  Woody Grant
Will Forte:  David Grant
Bob Odenkirk:  Ross Grant
June Squibb:  Kate Grant

Stacey Keach:  Ed Pelgram

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