11 gennaio, 2013

“Quello che so sull’amore” (é banale, scontato e noioso), regia di Gabriele Muccino.



Non sopporto quando vedo un film di capire dopo dieci minuti come andrà a finire, tanto la storia è banale e senza sorprese e mi alzerei e me ne andrei se non avessi un minimo di rispetto per tutti quelli che ci hanno lavorato. E quando dico tutti, intendo anche il ragazzino del catering e l’aiuto dell’aiuto della sarta scenografa, i cui nomi sono citati nei titoli di coda che io mi sorbisco fino alla fine. Lo faccio per una questione di rispetto, ribadisco, perché so quanta fatica c’è dietro ad ogni film.
Così mi è successo con “Quello che so dell’amore” di Gabriele Muccino, che sono andata a vedere (ahimè) per capire perché non ha avuto successo negli States e credo non ne avrà nemmeno qui, ricordandomi le parole di rabbia del regista contro lo star system, di cui non si capisce se ci fa parte, se gli interessa di appartenerci, oppure se si sente così superiore e forte che preferisce colpirlo da fuori.  Certo che attaccarlo con un film mediocre come questo non gli gioverà.
Già alla seconda sequenza, quando il simpatico e attraente Gerald Butler, che impersona George Dryer, a proposito, è raro che un protagonista fisicamente piacente e fortunato con le donne sia un perdente, non pensate? suona alla porta di casa della sua ex per andare a prendere il figlio e portarlo agli allenamenti di calcio, e la guarda con la faccia tra il cane bastonato e quello che non ha smesso di amarla... avevo capito che si sarebbero rimessi insieme, prima della sviolinata finale. Il poveretto la segue perfino nel camerino, dove si sta provando il vestito da sposa per dichiararle il suo amore.  Sì perché la ex sta per risposarsi. Lui invece, pur vivendo una vita da seduttore, non ha mai smesso di pensare a lei. Le solite lacrime di coccodrillo. Comunque c’è anche di mezzo il figlio, per cui prova un grande senso di colpa, perché come padre sempre in giro per i suoi impegni sportivi, non è mai stato molto presente.  Altre lacrime di coccodrillo.




Ora, dico io, che un famoso campione di calcio, ancora atletico, giovanile, bello, simpatico, va bene un po’ figlio di buona donna, si ritrovi senza lavoro, costretto a fare l’allenatore di una squadretta di bambini, tra cui il suo, in una città di provincia della Virginia, non è molto american style.  Ma forse Muccino non ha ancora capito bene come funziona l’America. D’altra parte il regista mi dà l’impressione di voler portare la nostra commedia all’italiana, con le mogli e i mariti adulteri, le zitelle in astinenza che salterebbero addosso al primo che passa, meglio se è Butler, i ricchi pronti a versare mazzette per “comprare” gli allenatori che girano con la Ferrari nemmeno fossero a Hollywood, i vicini di casa curiosi, sul suolo americano, come se gli americani capissero questo stile di vita. E, infatti, non solo non lo capiscono, ma non lo approvano nemmeno. Ok, ok, saranno pure puritani, ma questo film sembra più una commediola per spingere gli americani a fargli capire quanto siano belli il calcio e la Ferrari (soprattutto quando sponsorizza).
Il film è ripetitivo ed estremamente noioso, si svolge tra un misero campetto di calcio, qualche strada fuori mano, interni anonimi e a buon mercato, ma dando molto spazio pubblicitario al rosso bolide e alla Duetto dell’Alfa Romeo. Del verde stato del Sud nulla si vede, se non la targa sulle macchine.
E per piacere non giudichiamo il film se ha un cast definito “stellare” ma diretto male, forse il miglior attore è il bambino anche se sempre imbronciato come nel cliché dei figli di divorziati e a volte Butler, che però sa di essere bello e recita con questa convinzione. Io l’avrei visto meglio come giocatore di hockey che come campione di calcio. Il resto delle “stelle”, Uma Thurman, la Zeta-Jones e Dennis Quaid è a dir poco penoso.
Il film è brutto, Muccino vuole fare l’americano senza riuscirci pienamente, in più  sta perdendo  la sua italianità. Ci sbatte addosso un cliché dietro l’altro come se questo bastasse a fare un bel film.
Si sente, fin dagli inizi, che è sceso a molti compromessi per aprirsi un varco a Hollywood perché la fama è una sirena cui pochi si sottraggono.
Perciò non faccia l’ingenuo e si decida allora cosa vuole essere, cosa vuole fare, evitando di offendere un sistema che gli ha prodotto, non si sa per quale alchimia, ben tre film. E che se ora gli stronca quest’ultimo, ne ha tutte le ragioni. Non è invidia o ignoranza.
Tuttavia, avendo vissuto a Hollywood per tanti anni, senz’altro più di Muccino, so che non è facile “sfondare” soprattutto nello show business ma la possibilità arriva, alla fine, dipende da quanto si è disposti a pagare. Ma se fallisci, la porta non si riaprirà una seconda volta.
So long Muccino! Accetta la sconfitta, in fondo, il bello è partecipare.

Daria D.


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