14 novembre, 2012

Im-Pulsi di libertà Riflessioni su una serata al Festival Pulsi IX edizione


Francesca Proia e Danilo Conti, foto di Futura Ferrante

Una piccola foto, quasi formato tessera, su una pagina di giornale, insieme a tante altre, più grandi, più importanti, ma anche più scontate, del primo piano di una donna dai lunghi capelli biondi, la mano sinistra coperta da un guanto di pelle, il viso nascosto dietro la testa dell’uomo che sta abbracciando. Sta piangendo?  Oppure gli sta dicendo qualcosa? Si conoscono già? Quale segreto li lega?  Un’immagine che si presta a tante interpretazioni, per questo quando l’ho vista, e ne sono rimasta colpita, mi sono detta: cosa c’era prima e cosa ci sarà dopo? O tutto è già in un presente assoluto che non ha bisogno di parole per comunicare e per esistere, per farci sentire i respiri di quell’uomo e di quella donna, che ci stanno raccontando una storia? La loro storia o la nostra storia?
D’impulso, come dice il vocabolario: senza riflettere, d’istinto, ho deciso di andare al Festival Pulsi- corpi e suoni in tempo reale, giunta alla sua IX edizione e che si è tenuta a Milano alla Triennale, Teatro dell’Arte dal 5 all’11 novembre, dopo la premiere al Teatro Pim-off.
Il Festival è, come ogni anno, organizzato dall’associazione TAKLA che ha come filosofia il making arts, arte intesa come un fiore che riesce a sbocciare anche nel deserto, e, infatti, questo è il loro simbolo.  Come mi dice il simpatico ed eclettico Filippo Monico, batterista e fondatore del gruppo nel 1998 con Cristina Negro, danzatrice e coreografa, il nome deriva da Taklamakan, un immenso deserto dell’Asia centrale, come per dire che la forza dirompente dell’arte può creare delle fessure, delle lacerazioni, dei pertugi, anche in terreni aridi e sterili e poi portare le sue radici anche altrove. Come sta facendo appunto il gruppo Takla con il suo lavoro d’improvvisazione, ricerca, sperimentazione, educazione, anche di coraggio, possiamo tranquillamente dire, nel percorrere strade nuove e mai battute, per lasciarvi, via via che il lavoro prosegue, i fiori della musica, della danza, del teatro, della fotografia, il tutto all’insegna della pura improvvisazione. 
Il festival ha come tema centrale l’improvvisazione di corpi, musica e fotografia, in tempo reale.
Francesca Proia e Danilo Conti, foto di Futura Ferrante
Che cosa significa improvvisare? Significa non avere preconcetti e di conseguenza seguire gli im-pulsi che ci arrivano da dentro e da fuori di noi.  È vivere nell’attimo, dimenticando chi siamo,  da dove veniamo e dove stiamo andando, ma solo perché siamo lì, facendo del passato e del futuro un tutt’unico, ascoltando il respiro di chi ci sta vicino, le note che escono da un sax, il fruscio del vento, il battito degli altri cuori. È la libertà di lasciare il corpo esprimersi senza pregiudizi, uno strumento diffondere note senza spartito, la macchina fotografica cogliere l’istante di uno sguardo, come anche un respiro trattenuto o un gesto che non si ripeterà più.
Improvvisare è una forma d’arte che trova sul palcoscenico il suo spazio ideale. Ma Leonardo Delogu, attore e danzatore del gruppo Strasse, ha strappato l’improvvisazione allo spazio chiuso e l’ha fatta camminare per un anno, facendola arrivare nelle agorà, nei parchi, nelle zone urbane dimenticate, lavorando con un gruppo affiatato (lo stesso fiato, lo stesso respiro) e bravissimo ma stasera l’ha riportata alle origini, dentro la struttura, apparentemente chiusa, perché il teatro ha solo immaginarie pareti, del Teatro dell’Arte di Milano.
A chiudere la serata del 10 novembre è l’improvvisazione che conclude il viaggio di “Camminare nella frana”, questo è il nome del workshop di Delogu, e così dal buio del palcoscenico vediamo emergere, come d’incanto, figure solitarie, che improvvisamente, seguendo un impulso, sentono il bisogno di unirsi agli altri, per comunicare, per interagire, ma senza parole, solo con gli sguardi, i gesti d’affetto o di rabbia, di ribellione o di tristezza. È una matassa che si srotola e si arrotola all’unisono, senza strappi, fratture, o se ci sono, ci penserà il movimento successivo a ricucire, a ridare armonia e bellezza al tutto. Il silenzio a tratti è rotto da qualche interferenza musicale o parlata che viene da un registratore, forse non ce ne sarebbe stato bisogno, per non rovinare quell’atmosfera irreale.
La serata del 10 novembre era cominciata con un’improvvisazione della brava Silvia Bolognesi che per trenta minuti fa del suo contrabbasso il veicolo per quelle parole che ci ripete come un mantra : Let the music take you. Note in assoluta libertà escono da quello strumento che a volte sembra un violino, altre una chitarra rock, perfino un tamburo, e non a caso Silvia le dedica a John Tchicai, rappresentante, da poco scomparso, del free jazz. Silvia usa l’archetto per suonare, ma non sempre, a volte percuote con i palmi la cassa armonica,o fa muovere il contrabbasso secondo quello che sente in tempo reale, davanti a noi spettatori taken by the music.
Daria Menichetti e Sara Leghissa, foto di Marco Davolio
L’intermezzo comico Cronozuppa e altri rimbalzi un po’ ci ricorda Buster Keaton, nella figura di Edoardo Ricci che sbuca da una tenda di carta velina, dalla quale era uscito poco prima un grosso e mansueto cane, improvvisando note libere con il sax e il clarinetto basso, dandoci l’impressione di voler instaurare un dialogo con Tuia Chierici che lavora “sotto copertura” per proiettare immagini e luci, ma cui lei sembra non prestare  orecchio, tutta presa dal suo lavoro. E allora il musicista “pazzo” strappa la carta, se la mette sotto l’impermeabile, quasi la ingoia, tocca freneticamente gli oggetti che sono sul tavolo, i più strani e disparati e nello stesso tempo sa creare musica forte che ci prende e sorprende.
Il mantra di Silvia Let the… non ci abbandona e continua con Sguardi, il risultato eccellente di due workshop tenuti dal fotografo Roberto Masotti e Leonardo Delongu . Sguardi che i fotografi in scena catturano all’istante dai corpi e dai suoni, perché in scena ci sono attori e musicisti, fra cui lo stesso Filippo Monico, e poi Riccardo Luppi al sassofono e Edoardo Ricci al clarinetto e tutti improvvisano, mentre le immagini scattate dai fotografi, vengono proiettate su un maxi schermo, sotto lo sguardo attento ed esperto di Roberto Masotti.  Le macchine fotografiche si muovono liberamente sul palcoscenico, perché a loro è affidato il compito di lasciare, anche dopo che l’istante è passato, le immagini di questa serata non-stop all’insegna di una libertà espressiva che è parte imprescindibile non solo della creazione artistica ma anche della vita stessa.
Il gruppo Takla, imprevedibile e instancabile, esiste per ricordarci che dove c’è improvvisazione c’è libertà e dove c’è libertà non possono che sbocciare i fiori dell’arte, anche dove non ce lo aspetteremmo mai.
Bravi!

Daria D.




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