07 settembre, 2012

VIAGGIO ATTRAVERSO L'IMPOSSIBILE - sogni di cinema, a cura di Francesco Vignaroli. Nona puntata: "Il tempo dei cavalli ubriachi".



IL TEMPO DEI CAVALLI UBRIACHI        IRAN    INVERNO 99/00  78'  COLORE

REGIA : BAHMAN GHOBADI

INTERPRETI : AIYUB AHMADI, ROJIN YUNESSI, AMENEH EKHTIARDINI, MEHDI EKHTIARDINI, KULSUM EKHTIARDINI, KARIM EKHTIARDINI

EDIZIONE DVD : NO. Attualmente il film è disponibile solo in VHS, edita da MEDUSA HOME ENTERTAINMENT

La durissima vita quotidiana di cinque fratelli orfani in uno sperduto villaggio curdo, al confine tra Iran e Iraq. Dopo la morte del padre, Aiyub, l'unico maschio valido di casa, si mette a fare il contrabbandiere lungo quella che è tuttora una delle frontiere più calde e pericolose del pianeta, con la speranza di guadagnare la somma necessaria per l'operazione di Mehdi, affetto da una grave forma di nanismo. Dimostratisi insufficienti gli sforzi del ragazzo, la sorella Rojin accetta il matrimonio con un iracheno benestante, con la promessa che la famiglia di questi si farà carico anche del fratello handicappato. Ma la madre dello sposo rifiuta Mehdi rimandandolo dallo zio dei ragazzi (che aveva condotto le trattative dello sposalizio), assieme ad un mulo quale misera dote matrimoniale per Rojin. Ad Aiyub, come ultima possibilità, non resta che tentare di varcare di nuovo il confine per vendere l'animale in Iraq, salvo poi ritrovarsi coinvolto nell'ennesima imboscata. Ma non c'è altra scelta, bisogna andare avanti...

Folgorante esordio alla regia -che ha fruttato una meritatissima CAMERA D'OR a Cannes 2000- dell'allora trentenne Bahman Ghobadi (1969), primo regista curdo-iraniano della storia (qui anche sceneggiatore e produttore), già assistente del maestro Kiarostami e attore nel film "LAVAGNE" (2OOO) di Samira Makhmalbaf -figlia di Mohsen, altro grande del cinema iraniano-.


 Con l'esplicito desiderio di omaggiare la propria cultura "HERI" ed il popolo curdo nella sua frastagliata interezza, Ghobadi torna nei luoghi in cui è nato e vissuto filmando l'esistenza reale delle persone che ha conosciuto ("CON LA VITA VERA DI...", come recitano i titoli di testa: il regista non fa ricorso ad alcun attore professionista), attingendo ai propri ricordi ed alla cruda realtà, senza alcuna concessione allo "spettacolo". Se da un lato dimostra di aver assimilato la lezione di Kiarostami, soprattutto per quanto riguarda il generale impianto neorealista della narrazione, dall'altro se ne discosta rinunciando ai tipici spunti lirici delle sceneggiature del maestro, piuttosto inclini ad un raffinato intellettualismo letterario e sperimentale (si pensi a film come "IL SAPORE DELLA CILIEGIA" o "IL VENTO CI PORTERA' VIA"), optando invece per un crudo realismo quasi documentaristico, privo di orpelli e concreto fino a far provare dolore; tutto ciò non esclude una raffinata cura dei dettagli formali, tale da trasfigurare magicamente nel sublime la miseria ed il dolore onnipresenti, e tale da rendere affascinante e poetica una Natura leopardianamente ostile ed impietosa.
Con uno sguardo al tempo stesso partecipe e obiettivo (una splendida contraddizione ossimorica), con una compassione e un affetto che non escludono lucidità e spirito critico, Ghobadi ci racconta la quotidiana lotta per la sopravvivenza della sua gente, che è poi la condizione generale del Kurdistan: storia di un "PAESE MANCATO" -un punto interrogativo sulle carte geografiche-, storia di un popolo moralmente, culturalmente, socialmente e politicamente sommerso, afflitto da mali atavici che ne hanno impedito la crescita fino al punto tale da renderlo incapace di garantire una vita decente ai propri figli, la cui infanzia è sistematicamente negata e violata, proprio come nel caso dei cinque fratellini del film. Il corpicino deforme di Mehdi diviene così crudele metafora di un'umanità (dell'umanità in generale) malata, impotente, immatura, mai completamente cresciuta né fisicamente né mentalmente, drammaticamente grottesca nel suo caracollare alla cieca e nel suo essere incapace di provvedere a sé stessa. Il regista decide di mostrarci questo spicchio di mondo con coraggio ed onestà esemplari, senza vergogna né censure, raggiungendo picchi di intensità drammatica quasi insostenibili (Mehdi che trema per il freddo sotto la tempesta di neve; la disperazione e la paura di Aiyub dopo l'imboscata; il rifiuto di Mehdi da parte della famiglia dello sposo; il maltrattamento disumano dei muli...), tra poesia e struggimento. Quale futuro si può immaginare per un paese dove anche i quaderni sono oggetto di contrabbando?

Neo-neorealismo dalla parte degli ultimi, carico di un'emozione divenuta merce pressoché introvabile nel cinema occidentale contemporaneo, che sembra aver smarrito la capacità, o forse la voglia, di indagare e rappresentare la realtà -che abbiano ragione coloro i quali sostengono che la vera arte possa nascere soltanto dalla sofferenza?- preferendo illudere anziché mostrare.
Kurdistan anno zero dunque, ma se tra Neorealismo italiano e Nuovo Cinema Iraniano vi sono evidenti analogie concettuali, a scavare un solco invalicabile tra i due movimenti cuturali provvede la radicale diversità dei rispettivi contesti storico-sociali (a cominciare dal fatto che il nostro neorealismo nasceva sulle macerie del più grande evento cortocircuitale del '900, la seconda guerra mondiale, mentre quello iraniano muove da presupposti sociali e politici di tutt'altro tipo, risultanti da una situazione negativa che si trascina da lungo tempo e non da un ben definito fatto traumatico di rottura).

Il titolo del film allude alla pratica, in uso tra i contrabbandieri, di far ubriacare i muli con l'alcool per far sì che resistano meglio al freddo e alla fatica, un po' come facevano gli ufficiali con i soldati mandati al fronte, storditi con abbondanti dosi di vino o gas esilarante (come mostrato in alcune celebri sequenze di "ARSENALE", film muto del 1928 per la regia del sovietico Dovzenko).

L'impermeabilino giallo di Mehdi come il cappottino rosso della bambina di "SCHINDLER'S LIST".


Francesco Vignaroli

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