30 agosto, 2012

Racconti del Corriere: "Girasole", di Daria D.


Alberto Pirrone, Donna con Girasoli

Si guardò intorno ma in quel buco in cui viveva non gli ci volle molto e così cominciò a pensare e a ricordare l’unica cosa che gli era rimasta da fare.
La lasciava sempre a cucire davanti alla finestra del salotto buono, come lo chiamava lei, inutilmente ampio e carico di poltrone, sedie, soprammobili, lampade, uno spreco senza gusto, per ricevere gli amici che un tempo arrivavano numerosi, portando chiacchiere, parole di circostanza, bottiglie di vino scadente e risate forzate.  Doveva dimostrare che erano ancora insieme, come se loro, gli amici, non si fossero accorti di quanto estranei erano l’uno per l’altra. A volte assistevano ai loro battibecchi, divertiti e compiaciuti, fintamente preoccupati.  E se ne andavano augurando loro una “Felice notte”, “Grazie dell’invito”, “Che coppia straordinaria siete”. Tutte scemenze belle e buone che le davano una misera soddisfazione da sbattere in faccia al marito.
Gettò lo sguardo all’attaccapanni nell’angolo, dove era appeso l’impermeabile che aveva indossato quando era andato a prenderla alla stazione, quella donna che non gli aveva mai detto da dove veniva e di cui non sapeva nemmeno il nome.  L’aveva soprannominata Girasole perché anche quando la nebbia si addensava sul fiume o la pioggia martellava sui vetri, lei rideva gettando indietro la testa e scuotendo i petali gialli che le incorniciavano il bel viso, lasciando splendere il sole, anche se non c’era.
Girasole era dolce come il miele e sembrava avere una riserva illimitata di amore e di storie indecenti, che gli raccontava ogni volta che facevano l’amore, nelle stanze degli alberghi, in macchina, nelle toilette dei ristoranti.
Poi lui tornava a casa, e lei risaliva sul treno, senza dirgli dove sarebbe andata.
Era la prima donna che non gli aveva mai chiesto nulla della sua vita, sembrava che vivesse solo nel presente e che il passato e il futuro rappresentassero solo dei fardelli inutili, il primo perché le avrebbe appesantito i pensieri, il secondo perché le avrebbe impedito di sorridere, se lo avesse conosciuto.
“Non potrei sopportare se mi dicessi che stai con un’altra donna. Preferisco vivere questi momenti senza sapere… “.
Se le avesse detto “Ma io ho solo te” sarebbe stata una bugia, e se le avesse detto “C’è un’altra nella mia vita” sarebbe stata lo stesso una bugia.
Perché quella donna che passava il tempo a cucirgli la biancheria, a cercare di rammendare strappi troppo grandi per quel sottile filo che teneva tra le dita, non era più nella sua vita da molti anni, anche se lei fingeva che non fosse così. 
Un giorno la sorprese, non visto, mentre s’impossessava con avidità delle sue camicie, da cui strappava con forza i bottoni, come se fossero stati dei capelli, ne allargava le asole con le forbici e con un coltello apriva varchi sui pantaloni, incideva i colletti delle camicie, sfilacciava gli orli. Sembrava volerlo fare a pezzi, attraverso i suoi vestiti, in silenzio, in solitudine, nel vuoto di quella casa stupidamente grande per loro due. Aveva le dita piene di calli e di tagli, gli occhi ormai vedevano poco, eppure se ne stava al buio a cucire quello che lei stessa aveva strappato.
Odiava quel suo fare da vittima taciturna, quel capo reclinato in attesa che una scure si abbattesse sul collo, e anche quando lui urlava per scuoterla dal torpore, lei si limitava a pungersi il dito e a piangere, mescolando lacrime e sangue che regolarmente macchiavano la biancheria. E lì rimanevano.
“Ti ho cucito i pantaloni, erano strappati”. 
“Già. Non ho idea di come sia accaduto... ”. Le aveva risposto lui e infilandoseli vi aveva trovato rammendi su rammendi, come una tela squarciata da qualche artista pazzo e senza molte idee. Ormai andava in giro come uno straccione, si vergognava a farsi vedere da Girasole, anche se lei, davanti  a quelle “lacerazioni”, non faceva mai domande. Ma un giorno gli aveva proposto:
“Tesoro, oggi, dopo aver fatto l’amore, vorrei portarti a comprare dei vestiti nuovi”.
L’amore nel caldo del pomeriggio estivo, nell’ennesimo albergo alla periferia della città, fu come se fosse stato l’ultimo o forse il primo.
In un negozio molto elegante lei gli aveva regalato una camicia blu e un completo di lino. Per strada, tenendosi per mano, erano la coppia più bella e lui l’aveva invitata a mangiare un gelato, prima di riaccompagnarla alla stazione.
Seduto sull’unica poltrona del monolocale, vide uscire dalla valigia, che non aveva ancora svuotato, dopo tanto tempo, un lembo della camicia blu che le aveva regalato Girasole.
Si alzò a fatica, era stanco di aver sprecato la vita, di averla lasciata andare ogni volta su un treno diverso, senza avere mai capito da dove veniva e dove andava. E soprattutto non aveva mai capito perché si erano incontrati.
Ma Girasole era stata chiara:
“Se dopo tanti anni che ci vediamo non hai ancora preso una decisione, allora la prenderò io. Ma non sarà piacevole”.
E, infatti, un pomeriggio d’inizio autunno non era scesa dal treno e nemmeno le volte dopo. Ma lui continuava ad andare regolarmente ad aspettarla alla stazione.
 Le mancava tanto Girasole, nemmeno il sole gli sembrava luminoso come lo era il suo sorriso.
“Mi manchi tesoro. Scusa se non te l’ho mai detto abbastanza. E non ti ho nemmeno mai detto la parola amore”.  Parlava da solo, in quel buco senza luce e senza vita.
S’inginocchiò accanto alla valigia e tirò fuori la camicia, e con lei uscirono anche il vestito, quel bel vestito di lino bianco che le aveva regalato Girasole.
Tutto era rimasto come lo aveva trovato quella notte, rincasando dopo l’incontro con Girasole: strappato, lacerato, rammendato con suture lunghe, storte, senza senso.
 “Che stai facendo?”.  Le aveva chiesto e lei con un sorriso da strega non più taciturna gli aveva schiumato dalla bocca queste parole:
“Vi sto facendo a pezzi. Però avrò cura di rammendare gli strappi, non temere, anche se non sarà bello come era prima”. E la sua risata fu come lo stridere di una lama di coltello su un piatto.
Quella notte aveva riempito velocemente una valigia e se ne era andato, lasciando le forbici conficcate nella poltrona di lei.
Indossò quello che rimaneva del vestito bianco e della camicia blu, uscì di casa e raggiunse il ponte su cui passeggiavano spesso insieme e lo scavalcò, stringendo tra le mani un girasole.

Daria D.

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